“Mio caro pitone” di Romain Gary

Creato il 22 luglio 2010 da Sulromanzo
Di Sara Gamberini
Romain Gary e il suo "Mio caro pitone"
Aspetto la fine dell'impossibilità. Abbiamo tutti, e da così tanto tempo, un'infanzia difficile.
È uscita ad aprile di quest'anno, edito da Neri Pozza, Mio caro pitone la prima opera di Romain Gary firmata con lo pseudonimo di Émile Ajar, pubblicata nel 1974 con il titolo italiano Cocco mio (titolo originale Gros-Câlin, senza dubbio più interessante). Ritradotta da Riccardo Fedriga, gode ora della sua completezza con l'aggiunta del meraviglioso finale auspicato dall'autore, il finale “ecologico”, tagliato a suo tempo dall'editore.
Michel Cousin, rimasto precocemente orfano e trascorsa l'infanzia di famiglia in famiglia, vive a Parigi e si occupa di statistica per un'azienda. Coltiva la passione per i numeri fin da bambino quando per sopravvivere alla mancanza d'amore occupa i pensieri con calcoli e numerazioni infinite. Al ritorno da un viaggio in Africa porta con sé un pitone per non sentirsi un uomo con nessuno dentro, soffrendo non solo di una carenza esterna d'amore ma anche di una eccedenza interna, di un surplus con assenza di sbocchi. Da quando con lui vive Gros Câlin rincasare dopo una giornata trascorsa nell'anonimato e nella frenesia di Parigi non è più così triste: finalmente qualcuno da abbracciare. I due si attorcigliano e si avvinghiano uno con l'altro in una serie di abbracci strazianti.
Si innamora di una collega africana, la signorina Dreyfus, con la quale ogni mattina prende l'ascensore in preda al batticuore d'amore, in totale silenzio. Cousin, convinto di essere prossimo a sposare la signorina Dreyfus, che da sempre lo ignora, si chiede quale donna accetterebbe mai di convivere con un pitone di due metri...Come per ogni capolavoro i livelli di analisi di questo testo sono infiniti e al contempo nulli perché è mille volte più illuminante non pretendere ragioni dal sublime. Ci sono però alcuni aspetti che non ho potuto trascurare nonostante io mi sia servita il più possibile, durante la lettura, dell'arte della negazione. La prima pagina del romanzo di Gary dice inequivocabilmente al lettore: Mi si dovranno perdonare, così, certe troncature brusche, la lingua storpiata, gli sghiribizzi, l'insofferenza alle regole, gli svarioni e le migrazioni selvagge di (e tra) linguaggio, sintassi e vocaboli. Il fatto è che si tratta di una questione di speranza, come di molto altro ancora, affidata a espressioni che gridano, facendo a gara con ogni regola, qualsiasi essa sia, d'uso linguistico e/o della buona costruzione della frase. 
I critici non amano Gary e adorano Ajar. Sotto lo pseudonimo c'è, per l'autore, la libertà di un linguaggio nuovo, acrobatico, di cuore, condensato, che vive una propria indipendenza e ha sempre la possibilità di ricomporre altrimenti il proprio senso, al di là dell'uso corrente. La sperimentazione linguistica presente in Mio caro pitone è corretta, mai arrogante o compiaciuta ma onesta e dedita al senso. Ribadisco onesta. La critica loda questo scrittore sconosciuto, comparso dal nulla nel 1974 con un libro che procede per contorcimenti, arrotolamenti, sinuosità, così da rendere indispensabile una lettura con una buona dose di attaccamento emotivo, tanto da conferirgli qualche anno più tardi il premio Goncourt per La vita davanti a sé, premio che lo scrittore aveva già ricevuto a nome Gary e che non ritirerà mai. Se la ride, Gary, della classe intellettuale parigina tutta ragione e fascinazione chic e le contrappone Michel Cousin, una creatura dalla vita misera, sbandato nell'assenza d'amore, folle di mancanza, a cui farà dire: Non so quale forma assumerà la fine dell'impossibile, ma vi assicuro che nel nostro stato attuale con ordine delle cose c'è mancanza di carezze.Un'opera di denuncia della deriva individualistica del mondo dove la solitudine, per chi non regge, per chi ha un surplus d'amore con assenza di sbocchi, per chi ha meno tenuta razionale, si compensa con il delirio che è forse solo desiderio. Cousin prima di procurarsi un pitone per gli abbracci, si abbracciava da solo, aspettava il vicino di casa sul pianerottolo per ore per ricevere un saluto, si appostava all'ingresso dell'Istituto dei ciechi e si impadroniva di sei o sette di loro per aiutarli ad attraversare la strada. Quando lo andarono a prendere per ricoverarlo Cousin riuscì a portarsi dietro tutto ciò che gli dava conforto. Mi hanno permesso di portare qualche amico, l'orologio, il tubetto di dentifricio con la sua piccola testa blu, un ombrello rotto che nessuno avrebbe voluto e che esisteva solo per me; hanno fatto un po' di storie solo quando ho cercato di trascinare fuori l'armadio. Mi affeziono facilmente. Volevo portare anche il bidet, per ragioni affettive, ma c'era di mezzo l'allacciamento. Gary ha pensato ad un riscatto potente per il suo protagonista: nella continua alternanza tra il tentativo di vivere una vita autentica e la resa ad un'esistenza senza ribellione, Cousin si apre al cambiamento e diviene il suo oggetto d'amore. Un riscatto tragico, s'intenda, perfino rabbioso ma lieto nel senso.
Mi sono vestito dalla testa ai piedi, con tanto di cappotto, cappello e sciarpa, il tutto sopra il mio pigiama, dal quale non volevo separarmi perché mi scaldava il cuore, lì c'era qualcuno. […] Davo l'impressione di essere perfettamente adattato. Ero addirittura da lodare e da incoraggiare perché offrivo un simpatico esempio di ribasso dei prezzi in un periodo di rialzi. Ero economico, a basso costo […], e oltretutto potevano gettarmi dopo l'uso. Possedevo due utilissimi miliardi di pezzi di ricambio e funzionavo senza alcuna materia prima necessaria, se non un investimento in sperma alla banca del seme.

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