Tutto questo è evidente da molti mesi, era persino scritto nella dichiarazione d’intenti delle primarie, è inciso sottotraccia nella stessa vaghezza di un programma sempre citato, ma che per gli italiani rimane topo secret, è scolpito nell’appoggio acritico dato ad ogni colpo di macelleria sociale, dichiarato mille volte dai notabili del partito e persino dai suoi rottamatori, rottamati a loro volta e risorti dopo tre mesi. E infine è diventato evidente con le pressioni dell’ambiente bancario e finanziario internazionale, con l’emersione ad orologeria delle vicende Mps e con l’assoluzione che si danno o che nemmeno si abbassano a dare, controllori distratti, complici, ricettatori. Talmente chiaro che Vendola non può dire di non aver visto: non ha voluto vedere. L’errore è stato fingere la cecità per non rischiare l’esclusione dal Parlamento, non rendendosi conto che solo con la paura di perdere molti voti a sinistra il Pd sarebbe stato indotto ad andarci piano con Monti, mentre con Sel già nel sacco avrebbe potuto agire con maggiore agio, strangolando elettoralmente l’alleato.
Adesso forse è troppo tardi: ci sono voluti quasi 14 mesi perché si compisse l’intero ciclo narrativo vendoliano: da quel 18 novembre del 2011 quando Nichi sostenne che “le dichiarazioni programmatiche di Monti rappresentano un profilo politico conservatore e anche un elemento di continuità con le politiche economiche e sociali del governo Berlusconi” fino all’accrocchio di liberisti di oggi. E in mezzo un tira e molla per non perdere il treno del Pd, ma nemmeno il proprio elettorato che invece è andato lentamente disfacendosi. Però è proprio in questa parte fra gli estremi che si ricongiungono che c’è tutta la subalternità della sinistra e del suo complesso di Stoccolma politico.
E se Bersani è il Giulio Nepote del prodismo, Vendola rischia di essere il Romolo Augustolo della sinistra.