Chi ha visto anche solo un film chela Sushi Typhoon, la casa di produzione nata nel 2010 sotto l'egida della gloriosaNikkatsu, ha prodotto finora, si sarà sicuramente fatto/a un'idea del genere diopere che la compagnia sforna: Alienvs Ninja, Cold Fish, Helldriver o Karate-Robo Zaborgar sono solo alcune delle pellicole note anche aldi fuori del Giappone. La Sushi Typhoon vanta nella sua scuderia registi comeSono Sion, Miike Takashi e Iguchi Noboru ma anche un gruppo di attori che spessointerpretano i personaggi più o meno deliranti che incontriamo nei loro film.Uno di questi è Kishi Kentarō che ha esordito dietro la macchina da presa nel2011 proprio con il film qua recensito. Dimenticatevi della Sushi Typhoon.Il debutto di Kishi ha rivelato un regista capace di creare un'opera anni lucedistante dalle tematiche e dall'approccio dei film in cui solitamente recitaper regalarci una delle visioni giapponesi più stimolanti dell'anno in corso.Nelle proiezioni avvenute a Tokyo la pellicola è stata preceduta da uncorto/footage dal titolo "Immigration" girato dallo stesso Kishiquando si recò a Gerusalemme, questo perchè i pochi minuti registrati duranteil suo viaggio nel 2007 a Ramallah in Medio Oriente sono stati, secondo lostesso regista, la fonte d'ispirazione principale per il film. L'inizio è folgorante, quasi dafilm sperimentale, e ci presenta i due protagonisti, Sachi e Osamu, una giovanecoppia che si trasferisce in una vecchia casa per avviare una scuola.L'edificio sembra essere stato abbandonato in gran fretta dai precedentiinquilini che vi hanno lasciato mobilio e oggetti. I ragazzi scoprono che sitratta della sede di una ex scuola gestita da un insegnante dai metodiinnovativi: utilizzando le sedie, i banchi e i giocattoli lasciati dalprofessore, la ragazza avverte un senso di déjà-vu.La storia comincia in modo labirintico con un andamento a spirale dove passatoe futuro si incrociano spesso in uno spazio che sembra più qualcosa diimmaginato dai due protagonisti che un presente dove accadono gli eventi. Findalle prime battute, infatti, ci viene ripetuto che forse la protagonista èintrappolata nel sogno della madre. Ma il pregio del film non è questo, diopere che si perdono pur avendo dei presupposti filosofici non indifferenti cene sono tante. Kishi, con l'aiuto dell' eccellente performance dei suoi attori,riesce a non essere mai banale e a sperimentare col e nel linguaggiocinematografico e nell'approccio alla narrazione. Uso di filtri, immagini asaturazione diversa, loop, time lapse, un'insistenza nell'uso di riprese convideocamera a mano filtrate da vetri, porte, soglie, passaggi a livello e, comefilo conduttore simbolico, le scene di un teatrino di carta cheraccontano la storia di Cappuccetto Rosso. Tutto questo si intreccia performare quella trama di immagini su cui Kishi riesce a sviluppare temiimportanti come la colpa, la memoria, l'impossibilità di dimenticare e lanecessità di ricordare. Ciò che viene svelato fotogramma dopo fotogramma, scenadopo scena, in una composizione di immagini che a volte può sembrare caotica,emerge verso la metà del film quando il dramma passato/futuro del protagonistaOsamu viene rivelato allo spettatore. Anche in questa pellicola, come inmolti altri film, pregio ed allo stesso momento limite di certa cinematografiagiapponese, vengono toccate problematiche come quella della famiglia, deirapporti personali e della violenza che spesso da questi scaturisce. Ma, ed èuna sana boccata d'aria ed uno degli indubbi meriti di questo lavoro, questielementi non finiscono per "mangiarsi" il film in una tanto giustaquanto facile critica sociale. Al contrario, pur essendo queste in qualche modole colonne su cui si sviluppa la narrazione, esse non rappresentano il cuorepulsante del film. Record Future èinfatti, ma ognuno sarà libero di trovare quello che cerca in quest'opera che èper sua natura aperta a molteplici interpretazioni, un film sulla consistenzadel tempo e sulla coesistenza e sovrapposizione fra passato e futuro, su comeogni singolo istante sia attraversato da una moltitudine di possibilitàcompresenti, siano esse schegge di passato o futuri possibili. Kishi riesce inquesto senso a liberare e restituirci la potenza plurima e ambigua delle immagini. Questo senso di compresenza traspare già nelle battute inizialiquando vediamo i due protagonisti all'interno della scuola attraverso il vetrodella finestra, ovvero il punto di vista della videocamera ed il nostro èquello di un occhio esterno che li sta osservando. Ad un certo punto per pochiistanti intravvediamo delle dita sfiorare la finestra dall'esterno, cioè dalla"nostra" parte. Sebbene sia una tecnica abbastanza comune e quasiabusata per creare tensione, specialmente nel genere thriller e quello horror,qui ci suggerisce quasi un senso di sovraimpressione del tempo e di ripetizionequasi preregistrata degli eventi. Lo stesso uso della voce esterna da partedei protagonisti lungo tutto il film, quasi a commentare quello che stasuccedendo come fosse un ricordo o un sogno immaginato, è fondamentale percreare questo effetto disorientante che accompagna tutta l'opera fino alla suaconclusione. [Matteo Boscarol]
Chi ha visto anche solo un film chela Sushi Typhoon, la casa di produzione nata nel 2010 sotto l'egida della gloriosaNikkatsu, ha prodotto finora, si sarà sicuramente fatto/a un'idea del genere diopere che la compagnia sforna: Alienvs Ninja, Cold Fish, Helldriver o Karate-Robo Zaborgar sono solo alcune delle pellicole note anche aldi fuori del Giappone. La Sushi Typhoon vanta nella sua scuderia registi comeSono Sion, Miike Takashi e Iguchi Noboru ma anche un gruppo di attori che spessointerpretano i personaggi più o meno deliranti che incontriamo nei loro film.Uno di questi è Kishi Kentarō che ha esordito dietro la macchina da presa nel2011 proprio con il film qua recensito. Dimenticatevi della Sushi Typhoon.Il debutto di Kishi ha rivelato un regista capace di creare un'opera anni lucedistante dalle tematiche e dall'approccio dei film in cui solitamente recitaper regalarci una delle visioni giapponesi più stimolanti dell'anno in corso.Nelle proiezioni avvenute a Tokyo la pellicola è stata preceduta da uncorto/footage dal titolo "Immigration" girato dallo stesso Kishiquando si recò a Gerusalemme, questo perchè i pochi minuti registrati duranteil suo viaggio nel 2007 a Ramallah in Medio Oriente sono stati, secondo lostesso regista, la fonte d'ispirazione principale per il film. L'inizio è folgorante, quasi dafilm sperimentale, e ci presenta i due protagonisti, Sachi e Osamu, una giovanecoppia che si trasferisce in una vecchia casa per avviare una scuola.L'edificio sembra essere stato abbandonato in gran fretta dai precedentiinquilini che vi hanno lasciato mobilio e oggetti. I ragazzi scoprono che sitratta della sede di una ex scuola gestita da un insegnante dai metodiinnovativi: utilizzando le sedie, i banchi e i giocattoli lasciati dalprofessore, la ragazza avverte un senso di déjà-vu.La storia comincia in modo labirintico con un andamento a spirale dove passatoe futuro si incrociano spesso in uno spazio che sembra più qualcosa diimmaginato dai due protagonisti che un presente dove accadono gli eventi. Findalle prime battute, infatti, ci viene ripetuto che forse la protagonista èintrappolata nel sogno della madre. Ma il pregio del film non è questo, diopere che si perdono pur avendo dei presupposti filosofici non indifferenti cene sono tante. Kishi, con l'aiuto dell' eccellente performance dei suoi attori,riesce a non essere mai banale e a sperimentare col e nel linguaggiocinematografico e nell'approccio alla narrazione. Uso di filtri, immagini asaturazione diversa, loop, time lapse, un'insistenza nell'uso di riprese convideocamera a mano filtrate da vetri, porte, soglie, passaggi a livello e, comefilo conduttore simbolico, le scene di un teatrino di carta cheraccontano la storia di Cappuccetto Rosso. Tutto questo si intreccia performare quella trama di immagini su cui Kishi riesce a sviluppare temiimportanti come la colpa, la memoria, l'impossibilità di dimenticare e lanecessità di ricordare. Ciò che viene svelato fotogramma dopo fotogramma, scenadopo scena, in una composizione di immagini che a volte può sembrare caotica,emerge verso la metà del film quando il dramma passato/futuro del protagonistaOsamu viene rivelato allo spettatore. Anche in questa pellicola, come inmolti altri film, pregio ed allo stesso momento limite di certa cinematografiagiapponese, vengono toccate problematiche come quella della famiglia, deirapporti personali e della violenza che spesso da questi scaturisce. Ma, ed èuna sana boccata d'aria ed uno degli indubbi meriti di questo lavoro, questielementi non finiscono per "mangiarsi" il film in una tanto giustaquanto facile critica sociale. Al contrario, pur essendo queste in qualche modole colonne su cui si sviluppa la narrazione, esse non rappresentano il cuorepulsante del film. Record Future èinfatti, ma ognuno sarà libero di trovare quello che cerca in quest'opera che èper sua natura aperta a molteplici interpretazioni, un film sulla consistenzadel tempo e sulla coesistenza e sovrapposizione fra passato e futuro, su comeogni singolo istante sia attraversato da una moltitudine di possibilitàcompresenti, siano esse schegge di passato o futuri possibili. Kishi riesce inquesto senso a liberare e restituirci la potenza plurima e ambigua delle immagini. Questo senso di compresenza traspare già nelle battute inizialiquando vediamo i due protagonisti all'interno della scuola attraverso il vetrodella finestra, ovvero il punto di vista della videocamera ed il nostro èquello di un occhio esterno che li sta osservando. Ad un certo punto per pochiistanti intravvediamo delle dita sfiorare la finestra dall'esterno, cioè dalla"nostra" parte. Sebbene sia una tecnica abbastanza comune e quasiabusata per creare tensione, specialmente nel genere thriller e quello horror,qui ci suggerisce quasi un senso di sovraimpressione del tempo e di ripetizionequasi preregistrata degli eventi. Lo stesso uso della voce esterna da partedei protagonisti lungo tutto il film, quasi a commentare quello che stasuccedendo come fosse un ricordo o un sogno immaginato, è fondamentale percreare questo effetto disorientante che accompagna tutta l'opera fino alla suaconclusione. [Matteo Boscarol]
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