Mirko Servetti - Poesie tra Vespero e Lucifero

Da Ellisse

Le poesie che seguono  sono tratte da  "Terra bruciata di mezzo", una raccolta inedita (o poemetto) di Mirko Servetti. Sebbene il titolo stia curiosamente tra Tolkien e Eliot, la terra a cui allude Servetti risiede invece, come recita il sottotitolo, "fra Vespero e Lucifero" ovvero nel segno di Venere, nella sua doppia veste - nell'arco dell'anno - di stella del mattino portatrice di luce e di astro anticipatore del tramonto e della notte. Ma anche come emblema di un eros duplice, in costante dialettica tra epifanie e dubbi, tra luci e ombre, tra cadute e resurrezioni, così come per fortuna si conviene. Qui "eros" va inteso in senso ampio, ovviamente. Non solo cioè come valore primario, come interazione e libido tra corpi e menti ("simposio", dice Servetti), ma anche come impulso vitalistico connaturato, modo di sentirsi qui e ora presente, fosse anche come uomo solitario davanti a un orizzonte.  Questo porta Servetti a poetizzare una certa varietà di esperienze, anche frammentarie o fugaci o immanenti, dando loro un notevole smalto o colore. Diciamo che se l'occasione non basta, se non è abbastanza icastica, lui la carica di un pensiero  (fatto simboleggiato dallo stacco anche grafico che c'è in alcuni testi tra evento e riflessioni), ne estrae un significato o morale e la addensa con un buon legante, come si fa in cucina. Questo legante, va da sé, è la lingua, una lingua molto connotata e personale, priva di soggezioni anzi spavalda, un pò giocata sul suono e sullo stupore (e non dico certo che sia un male), con un pò di piglio attoriale. Il risultato, a dover sintetizzare, è un lirismo fantastico, popolato di creature linguistiche rare o culte o forse inventate, vai a sapere, sempre interessante e anche divertente. I cui prodotti migliori, al di là del gusto personale con cui ho scelto i testi qui presenti (ma avrebbero potuto essere di più), sono quelli che secondo me realizzano un equilibrio tra spinte diverse, diciamo tra febbre della parola  e riconoscimento del fatto che quella stessa parola e la poesia che esprime  hanno un côté "sentimentale" e affettivo insopprimibile a cui a volte fa bene lasciarsi andare, ma senza tuttavia rinunciare alla voglia di sperimentare, costante in tutta la raccolta. (g.c.)

Gremita spunta dal basso

la fratta, e una scaglia

brucia d’un subito

pelle e ricordi;

frangente che ci coglie

recenti e inattesi

finché gli astri,

dilungati all’orizzonte,

si fanno più albi

delle case qui attorno.

***

L’astrantia minor scotolata

nella pastoia cilestra,

le ciglia piene d’angustia

addizioni della spesa quale memento

lo schermo acceso

e dimenticato,

le mattonelle di mezzorilievo

a rammentare che sempre

e poi sempre saranno oltre me.

***


I cuscini da sprimacciare

poggiati in verticale

e là sotto l’adagiata marina

con il suo mugolio ovattato,

il corridoio che si fa campo

prospettiva da definire

nel rituale di luci imbrigliate

alla strettoia breve, quanto

un amore da smemorare.

***

Si frantuma l’aria

con gli avanzi di tavola

e i trascesi crepuscoli,

cattedrale da stupire

perché rovina monotona

e quieta …

…allora la toccavi

la vivevi all’aperto,

distante da queste pareti

e dalla meridiana

riflessa sul pavimento.

Tra i formulari arcani

navigavi sguardi privi di rotta

non immaginando quali effigi

avrebbero fatto ala al tuo ingresso.

***

Il risveglio permane incerto

e chi in maniche di camicia

inizia a rastrellare vuoti d’aria

chi per burla ridisegna

i profili delle colline rosicate

e brunite dalle vampe della notte.

***

Il salotto buono,

come usammo definire,

indifferente alla mia frequentazione

alla nostra stanchezza,

le mani prive di pudore

quando sfogliano parole

sospette in tempi sospetti;

quando colgono il mormorio

delle case azuleñas

di là dalla gran moschea

e affondano negli sguardi delle Urì,

goccia per goccia,

e nelle cortine arabescate

che si rattoppano con pazienza…

…misere strenne mai ricambiate

ché un Lare v’indugia

e vi s’attarda facendone asilo

per i suoi sberleffi,

le manopole del gas

perigliosamente schiuse

i bicchieri implosi

il rintrono del cuore tuo

rasente il mio silenzio.

***

Fanno per rincasare aprendo

quel che basta i portoni vecchi

e per gli anditi opachi

sfiatano un ‘sera malmostoso,

i periti di murature

e controsoffitti a piombo.

Filarono i margini

del fascismo d’allora

e combinavano stereometrie

battendo mansueti e inveleniti

le puntazze sui rialzi di lavagna,

uno zelo senza entusiasmo

nei cantoni dei traffici a cottimo.

Come ieri, alloggiano

sulle parabole esterne e mugugnano

con le sopracciglia aggrottate

i rimasugli di quel tempo

chetando alla spedita

i garzoni ficcanaso.

***

Quanti i nomi

più che le identità da attribuire

ai rimpianti e ai rimorsi

quando affiorò

come un’endiadi

di nomi propri

- il patronimico, che suona

al modo di colei che sola a me par donna,

lo taccio in questa sorta di frottola -

epigrafi da scolpire

per rinnovati poi

nella narcosi del rassicurante anonimato,

allorché una mano s’allenta

scorrendo distratta

fondigli d’eloquenza.

***

L’indifferenza forse,

quella che come un ricatto

succede all’angoscia,

fu sospesa nel vento

che spirava dal fontanile di mare;

eppure sembrava tenerci al sicuro.

Il gioco potrebbe farsi crudele,

complice l’odore litoraneo

che rimonta mischiato

agli scarichi degli autocarri.

Mi lascio disgregare alla foschia

scordando il mio peso,

serrato da un sorriso

in assenza di un fine.

***

Le vestigia del simposio

la complessione del tuo viso

agli scarsi lumi,

la frugalità un poco rapita

da un sorso di sventatezza;

inquietante è la regolarità

dei rendez-vous e dei convegni.

Il giorno seguita nell’indugio,

si proroga tra biancheria intima

e odori di poc’anzi

e il bricco del tè

tace sull’ebollizione,

e non ne sapremo più nulla.

Ma sarebbe stato il primo

dei doveri da assolvere,

dopo esserti rivestita

un po’ tremante d’agitazione

o per l’umidità esterna.

***

Le viste,

svaporando distese d’ebano,

levano pareti come apogei.

Brezze friabili

per pochi minuti

camuffate da metà ottobre

abbozzano rughe

sulla scollatura

e le mosche, qui accasate,

si fanno più arzille dopo la fremuta

buriana di pioggia…

…e mai scorderemo l’aspetto

della contrada prima del sisma

le balte d’affreschi

nelle navate tardomanieriste

l’ansare che ruppe

la silenziosità

tra le screpole del peristilio.

***

A chi renderemo le grazie

per la penombra di passaggio

che per attimi

sfida la viscosa indolenza,

dopo esserci gustati

con la calefazione a fil di pelle,

ricordando che le poesie

non hanno sapore…

…lo avevi già detto

in una rara intervista

secoli fa

lo ripeti ancora

sloggiando il sudore sotto la doccia.

Le rime evaporano

dalle maioliche

in contrasto con i baci

senza dubbio più bagnati,

ma ci sono poesie

che un qualche odore

lo indossano

magari non particolare;

sanno d’acrilico alcune

sono muschiate altre

e di circostanza, come tarsie

a lacerare le future memorie.

Esci dal box

come una musa piangente, ora,

ed io vorrei visitare

i prossimi versi

come città disabitate.

***

Poi le appetite gocce

non lavano le pupille

ma giustificano

la linea dell’orizzonte;

con l’indice segui i contorni

della Corsica

debolmente sorpresa

perché la luce dell’inverno

è remota miglia e miglia,

ma sono neppure le sei

e un convoglio di merci

sferraglia gemiti mai uditi:

avessimo afferrato l’ultima luna,

l’avessimo bevuta

per acquietare la sciarra

di salebrosi cristalli

che da giorni affligge

questa nostra terra…