Diciamo la verità, i poveri non piacciono, nemmeno alle pie dame che si vestono da kellerine e li servono a tavola la vigilia di Natale, appunto, una volta l’anno. E non parliamo dei poveri di diversa nazionalità, subito retrocessi al rango di clandestini e riconoscibili in quanto necessariamente trasgressori.
Meno se ne parla e meglio è. La povertà non è tra gli indicatori dell’auditel, non è un item quotabile alla borsa del consenso politico, non piace ai salvati, che temono il contagio, la odiano i sommersi che giocano al grattaevinci, tentati, con uguale aspettativa fideistica, di consegnarsi a qualsiasi imbonitore pur di sottrarvisi.
Eppure eravamo e siamo un Paese povero. O meglio una nazione strutturalmente vulnerabile esposta endemicamente al rischio di privazione anche di beni primari, con sacche di miseria consolidata superiore alla maggior parte dei partner Ue. E l’indicatore europeo Eu Sil della popolazione a rischio di povertà ci vede precipitare in una posizione inquietante, appena prima della Lettonia e un paio di altri stati diseredati.
Peggiora la povertà reale e si diffonde il senso della povertà percepita. Mentre la luminosa narrazione mediatico politica ci collocava in alto nelle sfere delle graduatorie europee tra i primi per capacità di produzione di ricchezza e di consumo, ma soprattutto per benessere e coesione sociale, tutte queste risorse ad alto contenuto morale evaporavano.
Quella che ci era stato presentato come il nostro ingresso trionfale nella modernità fastosa della globalizzazione si rivelava un processo regressivo, come la destrutturazione di capisaldi economici sociali e umani, non sostituiti da nuovi assets suscettibili di futuro.
Spaesati nel mondo rutilante del consumismo opulento, solo di passaggio nel benessere veloce da centro commerciale, viviamo un disagio da privazione, un malessere da perdita che riguarda non solo i beni materiali, il diminuito potere di acquisto e il minore accesso a consumi e privilegi, oltre che ai servizi sociali sempre più erosi: una moltitudine eterogenea, spaventata e rancorosa, ha sconvolto latitudini e longitudini del conflitto sociale.
Alla tradizionale guerra verticale dall’alto verso il basso dell’egoismo dei privilegiato contro l’impotenza degli ultimi, si accompagna quella orizzontale degli impoveriti contro i più poveri ancora, minacciosi perché si accontentano di qualche risarcimento facile, dei poco sicuri contro gli ancora più precari, tutti sospinti verso una orrenda rottura di ogni patto sociale, generazionale e di solidarietà.
Ed è paradossale che la nostra esistenza sia occupata dalle miserie di chi ci ha sospinti verso questa deriva, le scomposte vicende dei un “povero ricco”, che si autodefinisce così in un delirante e esuberante vittimismo di perseguitato: milioni spesi in avvocati e nell’acquisto di donne, parlamentari, eunuchi, giornalisti, scienziati, calciatori, veline, amicizie internazionali.
La riduzione della cerchia del potere nell’oligarchia degli uomini al suo servizio, la progressiva perdita del senso del bene comune trasformatosi nel suo interesse privato ci ha resi tutti più poveri, economicamente socialmente e democraticamente.
Dice di averlo fatto in nome del possesso, che si augura eternamente rinnovabile – dei voti. Non ci stancheremo mai di dire a chi l’ha votato che non c’è consenso elettorale che possa sostituirsi al rispetto della legalità, non c’è forza della maggioranza che possa annullare la forza del diritto e dei diritti, a maggior ragione quando l’uomo di governo è disposto all’estrema privatizzazione del suo consenso e dei suoi voti, pronto a disfarsi del suo elettorato per farne una magnanima regalia alla Lega in cambio del sostegno che gli occorre per salvarsi dal disastro e dalla galera.
Se lo ricordino i suoi elettori, il premier dell’amore è disinteressato a venderlo, regalarlo, darlo in leasing o in comodato il suo elettorato. Così tutti possono essere scilipoti, tutti suscettibili di essere venduti o comprati, prestati o reclutati, tutti con lui possono essere schiavi. Se lo ricordino domenica in occasione di elezioni che il loro premier ha privatizzato per fare un referendum per lui e se lo ricordino non perdendo l’occasione di vincere quattro referendum contro di lui.
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