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Mitt Romney accetta la candidatura alla presidenza di un Gop sempre più estremista

Creato il 03 settembre 2012 da Pfg1971

Mitt Romney accetta la candidatura alla presidenza di un Gop sempre più estremista

Mitt Romney accetta la candidatura alla presidenza di un Gop sempre più estremista

Giovedì scorso, a Tampa, in Florida, Mitt Romney ha accettato la nomination del suo partito per la presidenza degli Stati Uniti. Finalmente dopo averci già provato nel 2008, perdendo con John McCain, l’ex governatore del Massachussets è riuscito là dove nemmeno suo padre, George Romney, a sua volte governatore del Michigan, era riuscito ad arrivare nel suo tentativo del 1968.

 

Ma a quale costo e con quali connotati, l’ex predicatore mormone è riuscito ad arrivare ad un passo dalla Casa Bianca? Certo non in nome del moderatismo e delle scelte bipartisan che sarebbero state proprie di un candidato repubblicano come suo padre.

 

Il partito di cui pochi giorni fa Romney è diventato il leader è molto diverso dal Grand Old Party di uomini come Richard Nixon o anche Ronald Reagan.

 

Grazie alle pulsioni antistataliste e anti tasse dei settori più estremisti del Tea Party, nati nel 2010, come rabbiosa reazione alla politica solo lontanamente socialdemocratica di Barack Obama, il partito repubblicano di Romney si è spostato nettamente a destra e soprattutto a favore degli interessi delle classi più ricche della società statunitense.

 

La formazione politica che fu di Abrahm Lincoln ritiene che l’unico modo per permettere all’economia americana di tornare a crescere sia ridurre il più possibile le tasse dei cittadini più abbienti, quell’1% a cui si contrappone il movimento populista di Occupy Wall Street, dimenticando che i due enormi tagli fiscali per i milionari, varati da George W. Bush nel 2003 e nel 2006, non sono riusciti a evitare lo scoppio della più grave crisi economica mondiale dai tempi della Grande Depressione degli anni ’30.

 

È un partito convinto, in particolare il candidato vice presidente Paul Ryan, che solo tagliando lo stato sociale, sino alla privatizzazione del  Medicare, l’assicurazione sanitaria pubblica per gli over 65, sia possibile porre un freno al debito pubblico, trascurando che i principali responsabili del deficit sono i tagli fiscali appena ricordati e l’enorme incremento di spesa statale dovuta alle scelte di un presidente repubblicano come Bush jr., di avviare due guerre come quella in Afghanistan e in Iraq.

 

Basti ricordare infatti che quando Bill Clinton uscì dalla Casa Bianca, nel 2000, il bilancio federale non solo non era in deficit, ma registrava un surplus, dissipato poi  da quegli stessi repubblicani che oggi si definiscono fiscally responsible.

 

Il partito di Romney è ormai preda delle ideologie neoliberali più estreme e lo stesso vale per i diritti civili sui quali è non assomiglia nemmeno da lontano a quello stesso partito che con Nixon riteneva necessario tutelare i diritti delle minoranze nere.

 

Assoluta opposizione al diritto delle donne all’aborto, anche in caso di stupro, nessun riconoscimento ai diritti dei gay e degli immigrati latinos (come sono lontani i tempi in cui, solo nel 2006, John McCain si alleava con Ted Kennedy per presentare una proposta di legge che riconoscesse il diritto di soggiorno agli oltre 11 milioni di ispanici irregolari) , in nome di un conservatorismo acritico e oscurantista.

 

Non solo, lo stesso candidato ufficiale del partito è accusato di aver cancellato migliaia di posti di lavoro, quando era l’amministratore delegato della Bain Capital, una società finanziaria che spesso assumeva il controllo di imprese fallite o decotte e le smembrava pezzo per pezzo per svenderle al miglior offerente.

 

Eppure, nonostante tutto questo, nella maggior parte dei sondaggi, Mitt Romney è considerato alla pari con il presidente Barack Obama.

 

Come è possibile che milioni di americani potrebbero accordare la loro fiducia ad un partito e a un candidato che fa solo gli interessi dei ricchi e che aspira a cancellare le ultime tracce di welfare state in nome di una ideologia antistatalista estrema ed egoista?

 

Molto lo si deve alle difficoltà incontrate da Obama nell’imporre la sua proposta di cambiamento, speranza e spirito bipartisan che, nel 2008, gli aveva permesso di conquistare la Casa Bianca.

 

Era sbarcato a Washington per cambiare la politica della capitale, ma, oggi, dopo quattro anni, appare evidente che è stata Washington a cambiare lui, grazie alla inflessibile opposizione dei repubblicani che non hanno mai collaborato con la sua amministrazione, anche nei momenti peggiori della crisi economica, con l’obiettivo più volte sbandierato dal leader della minoranza al Senato Mitch McConnell di fare di Obama un presidente da un solo mandato.

 

Tuttavia, la parte del leone nell’indebolire la proposta politica del primo presidente nero l’ha fatta l’economia che, dopo varie forme di stimoli statali, probabilmente insufficienti, come continua a scrivere Paul Krugman, non è ancora riuscita a ripartire, creando quei posti di lavoro che ancora mancano all’appello e che avrebbero reso la vita più facile ad Obama.

 

Per porre un minimo rimedio a questo stato di cose il presidente, nella convention democratica di Charlotte che inizia oggi, dovrebbe forse seguire il consiglio di un acuto columnist come E.J. Dionne che, dalle pagine del Washington Post, lo esorta a inserire nel suo discorso di accettazione della nuova candidatura alla Casa Bianca una serie di proposte concrete su come ridare slancio all’economia e all’occupazione. Vedremo se sarà sufficiente.   

 

  

  


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