Miyazaki, I racconti di Terramare

Creato il 24 dicembre 2012 da Spaceoddity
I racconti di Terramare (2006, tit. or. Gedo Senki) è il titolo del primo lungometraggio animato di Goro Miyazaki, figlio del parecchio più celebre Hayao. Riduzione cinematografica, ad opera dello stesso regista, di un romanzo di Ursula K. Le Guin, racconta di un ragazzo, Arren, conteso tra le forze del bene e quelle del male alla ricerca dell'immortalità. Il giovane, sfiduciato nei confronti delle sue capacità e delle sue forze, ha perso la sua ombra, che lo segue nel tentativo di penetrare ancora nel suo corpo posseduto dall'ansia e dalla paura di vivere e di morire. Film molto denso, rischia di deludere chi, come me, non si sia letto prima il libro, ma abbia di contro una certa dimestichezza con l'opera di Hayao Miyazaki.
Intendiamoci: sul piano visivo, I racconti di Terramare è degno frutto dello Studio Ghibli, affascina per la bellezza dei colori e per la magia paesaggistica di un Giappone medievale o di provincia, un Giappone vissuto fuori dal tempo e dallo spazio. Inoltre, non si può negare al film una densità concettuale degna della più ricca tradizione del paese del Sol Levante. Forse, anzi, proprio questo è il punto. Intanto il film è proprio coeso, alle prime sequenze nelle quali si parla di draghi che scendono dal regno del cielo e del fuoco sulla terra abitata dagli uomini, fa seguito una storia che solo nelle ultime battute mostra qualche sparuto aggancio con le premesse.
Nel frattempo, la sceneggiatura ci presenta un protagonista tormentato, incapace di legarsi agli uomini e alla vita, di accettare i limiti della sua esistenza e del suo autocontrollo. Arren rimane oscuro sotto molti aspetti e le riflessioni che accompagnano i suoi dubbi esistenziali ne fanno un personaggio, se possibile, ancora più sfuggente. Le mie troppo scarse nozioni sulla cultura giapponese mi impediscono di decodificare gli insegnamenti sul senso della morte (morte come dono del cielo, immortalità come rinuncia alla vita, rinuncia alla morte come rinuncia alla vita), ma quel senso di analogia con la cultura occidentale mi confonde più di quanto mi guidi nell'entrare in questo mondo estraneo. Se a questa densità di concetti e di stimoli si aggiunge una sceneggiatura che rinuncia volentieri a ogni forma di verosimiglianza (sia pure nell'ambito del racconto fantastico), ecco che l'intuizione più sbrigliata e creativa non ha agganci per esercitarsi sull'opera. Ed è per questo che i vuoti narrativi rovinano un film che aveva tutte le carte in regola per essere l'ennesima meraviglia dello Studio Ghibli.

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