Mo Yan: Sorgo Rosso, Epopea Cinese a Tinte Forti

Creato il 21 gennaio 2013 da Dietrolequinte @DlqMagazine

Difficile essere un giudice imparziale, soprattutto nel caso in cui il nuovo Premio Nobel per la Letteratura del 2012 è, per te, un quasi perfetto sconosciuto che ha “rubato” lo scettro al tuo beniamino. Chiaramente stiamo parlando del cinese Mo Yan (pseudonimo di Guan Moye), classe 1955, che ha all’attivo ben sette romanzi, premi prestigiosi e visite letterarie in Italia abbastanza significative. Lo stesso Mo Yan che ha “battuto” il nipponico tanto in voga che risponde al nome di Murakami Haruki. Occhi a mandorla per entrambi ma diversissimi fino al midollo. Secondo il principio di causa-effetto, per colmare la lacuna letteraria con annessi sensi di colpa segue l’acquisto e la lettura di Sorgo rosso (pubblicato in Cina nel 1987, in Italia nel 1994), nell’edizione Einaudi (collana ET Scrittori) con la traduzione dal cinese di Rosa Lombardi. La scelta di Sorgo rosso non è casuale – anche se tra tutti i volumi dell’autore è il titolo meno allettante – essendo stato definito dalla critica come il suo capolavoro e per cominciare ho voluto seguire suddetto consiglio. Anch’io ho un piccolo consiglio, prima di cominciare a leggere il libro documentatevi sulla specie erbacea del “sorgo rosso”, una breve ricerca su questa pianta con la visualizzazione di annesse fotografie, vi renderà la lettura più semplice. La motivazione è presto detta, le quattrocentosettanta pagine del libro hanno un’unica ambientazione e un unico grande protagonista: i campi sconfinati di sorgo. Questi campi fanno da sfondo ad una saga familiare ambientata in un villaggio immaginario della Cina, in un arco temporale che va dal 1939 al 1972 circa. La voce narrante è quella di un figlio/nipote che mette insieme i cocci di due generazioni, del nonno e del padre, in un continuo andirivieni temporale che in qualche punto lascia per un attimo il lettore spaesato.

La narrazione è estremamente cromatica e descrittiva, in alcuni tratti piacevolmente o disgustosamente minuziosa. Potrebbe sembrare un ossimoro, ma i fatti – presunti reali o frutto della fantasia dell’autore – riescono ad essere piacevoli in alcuni punti quanto traumatici e violenti in tutto il resto del libro. Le descrizioni di Mo Yan sono talmente vivide da poter percepire la sensazione del coltello che trapassa le carni, il freddo della lama all’interno della pelle, l’odore acre del sangue, la sua densità calda (da non tralasciare la “passione” dell’autore per bulbi oculari e interiora verdastre che fuoriescono a fiotti dalla carne maciullata). Di scene crude quindi ce ne sono a iosa, anche perché la trama si concentra sulle guerriglie interne tra i soldati cinesi e giapponesi, contraddistinti da un odio feroce gli uni verso gli altri. Un odio feroce, inspiegabile e incommensurabile che spinge entrambe le fazioni nemiche a compiere atti vili e sanguinari oltre l’immaginabile. Ma non solo lotte tra nemici, fondamentale risulta essere anche la figura del bandito e dei suoi seguaci che agiscono indisturbati tra la paura e il rispetto della popolazione sullo sfondo di una Cina rurale tradizionalista. Non soltanto la violenza, probabilmente un altro aspetto che potrebbe sconvolgere un comune lettore occidentale è il rapporto cane-uomo; dimenticate batuffoli di pelo scodinzolanti, i cani di Mo Yan pensano, sono strateghi, violenti, istintivi, cattivi ma allo stesso tempo sono nutrimento e pellicce per gli uomini, in una modalità inconcepibile per gli amanti degli animali.

Al di là dell’odio e della violenza, i sentimenti traspaiono ma devono essere letti tra le righe. Ci sono donne forti che lottano per i loro figli e l’amore dei loro amanti, c’è l’affetto dei figli per le madri, il patriottismo, l’amore carnale tra uomo e donna, la gelosia, la tenacia, l’amicizia ma soprattutto il dolore davanti alla morte, sentimenti che inevitabilmente accomunano tutti. Indigeste sicuramente le tematiche, ma la prosa e la traduzione risultano essere impeccabili, soprattutto la traduzione. È chiaro che io non capisca il cinese ma quest’ultima riesce ad essere talmente perfetta nella scelta delle parole da donare fluidità alle frasi, in nessun momento ci si arresta per rileggere o comprendere meglio qualcosa: lo sguardo scivola piacevolmente tra le righe tra una prosa e dei modi di dire di stampo prettamente orientale, soprattutto nelle descrizioni della natura e dei sentimenti. In Appendice al volume la giornalista Renata Pisu (in un suo articolo sul libro apparso il 22 ottobre 1994 su «la Repubblica») paragona Sorgo rosso a Cent’anni di solitudine di Márquez sia per l’invenzione del luogo quanto per la sensazione allucinata di vivere tra la fantasia e la realtà in un passato che spinge al presente e viceversa. Non posso che trovarmi d’accordo con lei, è la stessa identica sensazione che ho provato fin dai primi capitoli in una sorta di déjà vu letterario: solo che tra i due, io preferisco Márquez.


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