Mobbing: non bastano i continui richiami disciplinari

Creato il 09 giugno 2015 da Propostalavoro @propostalavoro

Chi non ha mai sentito parlare di mobbing? Il mobbing è quella pratica che, in ambito lavorativo, consiste in ripetuti comportamenti aggressivi sul piano psicologico messi in atto con l'intento di impedire a una persona di lavorare o di renderle insopportabile l'ambiente di lavoro stesso.

Da questa pratica possono derivare non solo disagi, ma anche vere e proprie malattie professionali a danno della vittima che, con l'aiuto di uno psicologo del lavoro, può far causa al datore ed ottnere un risarcimento. Il demansionamento involontario è una delle pratiche di mobbing più diffusa, ma molti altri comportamenti rientrano in una zona grigia nella quale non è sempre facile distinguere il legittimo richiamo disciplinare dalla condotta di mobbing.

I giudici della Corte di Cassazione sono intervenuti più volte per far luce sulla questione. L'ultima sentenza sull'argomento è quella recentissima del 4 giugno 2015  (sent. 4 giugno 2015, n. 11547), che detta una definizione più precisa di mobbing. Per la Suprema Corte, mobbing è: «una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazine o di persecuzione psicologica da cui può conseguire la mortificazione e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiospichico e del complesso della sua personalità».

La Corte, però, ha stabilito anche che l'ostilità del superiore gerarchico deve avere un intento di reale persecuzione e che non può concretizzarsi solamente in provvedimenti disciplinari legittimi

Quindi, quando possono essere considerati una persecuzione i richiami del datore di lavoro? Occorrono quattro requisiti:

  1. Molteplicità: gli atti ostili (alcuni dei quali possono anche essere legittimi) devono essere più di uno;
  2. Effetto lesivo: devono affliggere la salute o la personalità del lavoratore;
  3. Nesso di causa tra il comportamento del superiore ed il danno sofferto dalla vittima;
  4. Intenzionalità: ci deve essere dolo, vale a dire che il superiore, al momento di compiere il danno, era mosso da un intento persecutorio reale e consapevole.

Per approfondire: Sentenza Corte Cassazione del 4 giugno 2015, n. 11547.

Il mobbing è certamente una delle peggiori scorrettezze che si possono incontrare sul posto di lavoro. È anche vero però che al datore di lavoro non può essere tolta la possibilità di sanzionare (proporzionalmente alla loro gravità) violazioni del regolamento aziendale da parte dei dipendenti.

In un mercato di lavoro come quello attuale, dove la differenza tra avere un posto e non averlo è così abissale, è giusto anche ricordarsi che non basta il fatto stesso di avere un lavoro per potersi considerare soddisfatti.

Simone Caroli


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