Luca Di Leonforte 11 luglio 2013
Il titolo è quasi un avviso: Niente di nuovo sul fronte occidentale. E sarebbe proprio così se si giudicasse il nuovo album dei Modena City Ramblers dal punto di vista esclusivamente musicale. Nessuna nuova sonorità, nessun nuovo genere affrontato, niente di niente. Eppure questo non sembra togliere nulla (o toglie poco) al tredicesimo album della band modenese. Il motivo è presto detto. La sensazione è che apprestandosi ad ascoltare un disco dei Modena non si ha per nulla la speranza, o la volontà, di sentire qualcosa di nuovo, ma si vogliono solo ascoltare nuove storie. Non importa se ripropongono sempre il solito combat folk, quello che importa sono i racconti proposti. È come quando si passa una serata con dei vecchi amici al solito locale: la compagnia è sempre la stessa, il tavolo pure, si beve sempre la solita birra ma i discorsi e le chiacchierate non perdono minimamente di fascino. Le storie dunque. Un doppio album, diciotto tracce, diciotto storie. Storie attuali, drammatiche, di ragazzi, di lavoratori, di popoli. Storie come Ebano o come I cento passi ma storie nuove. Storie come Niente di nuovo sul fronte occidentale, inteso come il libro del tedesco Erich Maria Remarque del 1929, che racconta di due giovani ventenni tedeschi che partono per la Prima Guerra Mondiale convinti di affrontare una bella avventura ma si accorgono presto dell’inutilità della guerra. Era già successo con Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez, che un libro entrasse nel mondo dei Modena City Ramblers e questo non fa altro che rafforzare l’idea che quello che conta di più nelle loro canzoni è il testo, o meglio il racconto. Testo comunque egregiamente supportato dalla musica che non va però oltre la sua funzione di accompagnamento.
Il titolo dell’album serve anche a distinguere un lato A Niente di nuovo e un lato B Sul fronte occidentale. I temi trattati sono molteplici, si va dalla crisi economica al brigantaggio, dall’immigrazione alla mafia, dalla guerra al terrorismo. Nello specifico c’è una canzone sull’Ilva di Taranto (Tarantella Tarantò), una sulla strage di Bologna (Il giorno che il cielo cadde su Bologna), un’altra sulla primavera araba (È primavera), un’altra ancora sulla morte di Federico Aldrovandi (La luna di Ferrara), e altre su tanti altri argomenti. Ecco! Se c’è un difetto che i doppi CD hanno, è quello che nel recensirli non si può parlare di tutte le canzoni. È necessaria dunque un’accurata selezione che renda bene l’intero contenuto del disco. Eccola. La luna di Ferrara parla dell’episodio di cronaca che ha visto il giovane ferrarese Federico Aldrovandi ucciso dalla polizia nel 2005, mentre gironzolava per la città (dopo aver bevuto qualche bicchiere, forse, di troppo). Il testo dei MCR affronta la questione dal punto di vista dello stesso Federico che si rivolge alla mamma come a consolarla: «Mamma non ti pentire di avermi insegnato / ad avere fiducia in questo mondo malato, / è stato soltanto un incidente / è capitato a me ma non significa niente». Si va indietro nel tempo, invece, con Beppe e Tore, ovvero due fratelli siciliani (Giuseppe e Salvatore Asta) uccisi all’età di sei anni insieme alla madre nell’attentato mafioso del 2 aprile 1985 a Pizzolungo (Trapani).
Apre il lato B Il violino di Luigi, canzone con una storia particolare. Durante la ricostruzione successiva al terremoto in Emilia è stato ritrovato in una soffitta un vecchio violino. Si è poi scoperto che lo strumento era appartenuto a Luigi Freddi, partigiano, che aveva lasciato il suo prezioso oggetto in custodia alla famiglia Vezzani, prima di essere ucciso dai fascisti il 23 marzo del 1945. Il ritrovamento del violino ha ispirato questo brano ai Modena City Ramblers e Fry (Francesco Moneti, musicista della band) suona proprio quel violino nella registrazione del brano. Ma non sono solo storie tristi quelle raccontate dal gruppo. Il brano Due magliette rosse racconta un episodio quasi epico della storia sportiva italiana e non solo. Nel 1976 l’Italia approdava alla finale di Coppa Davis (tennis per chi non lo sapesse) con Panatta e Barazzutti. I giorni prima della finale furono molto caldi in quanto il match si doveva giocare a Santiago del Cile, paese allora sotto il regime sanguinario di Pinochet. Si discusse molto se giocare o meno la partita e alla fine gli azzurri non solo giocarono, e vinsero, ma indossarono per provocazione una divisa di colore rosso proprio sotto gli occhi di Pinochet: «il Generale li guardava in piedi sul gradino, / sprezzante coi baffetti e con gli occhi da assassino».
Si affronta poi, con una lenta ballata, il tema della guerra e in particolare della guerra d’Etiopia. Afro vede la guerra con gli occhi del soldato («avresti voluto fermare la guerra, ma eri soltanto un soldato»). Un’immagine della canzone riporta alla mente il «e se gli sparo in fronte o nel cuore / soltanto il tempo avrà per morire / ma il tempo a me resterà per vedere / vedere gli occhi di un uomo che muore» di De André. Se ne La guerra di Piero, però, il soldato muore dopo aver esitato a sparare al nemico, in Afro la prospettiva si capovolge ed è come se ci si mettesse nei panni di colui che ha sparato su Piero: «quando in battaglia hai dovuto sparare a un uomo in divisa / di un altro colore, da quel giorno lo vedi morire». Ancora cronaca, ancora storia, ancora stragi ne Il giorno che il cielo cadde su Bologna. Si parla di uno degli episodi più tragici della storia recente italiana, la strage di Bologna del 1980, quando ottantacinque persone persero la vita in seguito ad un attentato. Nel testo viene fatto quasi un elenco delle situazioni in cui si trovavano Sally, Maria e diversi altri personaggi nel momento dell’esplosione. Il messaggio è quello mai troppo abusato del “per non dimenticare” e sono bellissimi i due versi che esprimono questo concetto: «quando il ricordo è radice custodisce il dolore / quando il ricordo è radice il futuro avrà un fiore».
La canzone che chiude l’intero album non può essere più attuale. Briciole e spine, ballata d’amore che esprime tutti i dubbi di una giovane coppia sul futuro che li attende. «I nostri padri grazie a Dio ci hanno fatto studiare / a volte anche insegnato cosa vuol dire saper sognare / ma è difficile riuscire quando non sai più su che contare. / Un tempo si cantava “chi non lavora non fa l’amore”; / forse è anche per questo che oggi crescere un bambino da queste parti è un lusso che tarda ad arrivare», questa la strofa che meglio non potrebbe spiegare la situazione in cui si trova la gran parte dei giovani italiani. Poi ci sarebbero Occupy World Street, Pasta nera, Fiori d’arancio e baci di caffè, La strage delle fonderie, Nostra signora dei depistati e altre canzoni che meritano un ascolto. Un ascolto forse spensierato, forse impegnato ma non un ascolto intimistico. Niente di nuovo sul fronte occidentale, come del resto tutta la produzione dei Modena City Ramblers, non è un album da ascoltare quando si vuole stare soli con se stessi e ci si vuole distrarre, per quello ci sono altri mille gruppi e cantanti. Niente di nuovo sul fronte occidentale si ascolta quando si vuole stare a sentire delle storie, come si fa quando si legge un libro. Ecco, Niente di nuovo sul fronte occidentale è quanto di più vicino a un libro si possa incidere su un disco. L’anello di congiunzione tra la discografia e la bibliografia. Nulla di geniale se si giudica come si dovrebbe giudicare un album musicale, nulla di straordinario se si valuta da un punto di vista letterario. Un grande lavoro se si considera come una raccolta di racconti in musica, magari da fare ascoltare a scuola tra la lezione di storia e quella di letteratura.