Si legge in un lampo, Dora Bruder, ma poi è uno di quei libri che non se ne vanno, che continuano a interrogare come dovere della memoria, come necessità di riparazione, come vita che è stata cancellata dalle nostre mappe. Molti altri libri, molte altre storie, lascerò passare prima di non avvertire più lo sguardo addosso, enigmatico ed esigente, di quella ragazza in copertina.
Qualcosa del genere è successo anche a me, con la storia di Enrica Calabresi, che anni fa ho cercato di raccontare in Un nome (Giuntina), onestamente concedendo a me stesso che non c'era molto da raccontare, o forse c'era da raccontare più un bisogno di verità, una ricerca, che la storia di una persona.
Con Un nome la professoressa ebrea suicida prima della deportazione e una foto di tempi sereni in copertina. Con Dora Bruder un ritaglio di giornale in cui due genitori ebrei chiedono notizie della figlia scomparsa nella Parigi occupata da Hitler. Vuoto e silenzio appunto. Anche se poi la fine di Dora è, almeno burocraticamente, nota. Un treno per il lager senza ritorno per questa adolescente che non ha lasciato praticamente niente dietro di sé. Ma prima, prima che è successo? Che vita è stata quella di Dora?
Un mistero che non cambierà la nostra vita. E che pure dà un senso al nostro modo di stare al mondo e di interrogare la storia.