MOGWAI – Rave Tapes (Rock Action)

Creato il 14 marzo 2014 da Cicciorusso

Da vari anni a questa parte ad ogni nuova uscita dei Mogwai sembra riproporsi il medesimo dibattito su quando e come il gruppo sia giunto ad una sorta di punto di arrivo. In vari sembrano sostenere che il numero delle cose da dire si sia fermato circa al 2006. E’ un discorso che potrebbe anche avere senso, ripensando al percorso che va dalle distorsioni di Young Team alla dolcezza di Happy Songs For Happy People. In effetti, anche all’interno di un genere limitante quale può essere il rock strumentale (o il post-rock, qualsiasi cosa esso sia), gli scozzesi hanno saputo esplorare uno spettro sonoro estremamente ampio. In quest’ottica, e solo in essa, è forse possibile intravedere un esaurirsi delle potenzialità espressive della band. La qualità di qualsiasi delle loro release post Mr. Beast però nega nei fatti un’ipotesi del genere, i Mogwai un disco brutto o anche solo mediocre ancora lo devono incidere. Anche i loro album più recenti hanno un carattere ben definito e nelle lunghe chiacchierate con i miei amichetti nerd ognuno tende a esporre con dovizia di particolari il perché di un particolare attaccamento ad un album piuttosto che ad un altro: io, per dire, adoro The Hawk Is Howling (e la sua morfinossisima seconda parte in particolare) mentre su Hardcore Will Never… si è tutti (giustamente) d’accordo. In generale trovo questi discorsi riguardanti l’originalità un esercizio da quindicenni che devono impressionare giovinette impressionabili. Agli inizi della mia carriera di ascoltatore mi sono ritrovato in più di un’occasione a cercare di giustificare la grettezza dei miei gusti a gente che in casa aveva i dischi di John Patitucci. Come si può anche solo ragionare con gente che crede che un tizio con la giacca sia meglio di, che so, Glenn Danzig?

Con il tempo ho imparato ad affermare senza timore che ‘il jazz fa cacare’ e ad esibire con orgoglio ai miei invitati la copertina di Initium degli Samhain. Tornanado a Rave Tapes, si può dire che è un album che presta il fianco a critiche di forma vuote nella sostanza, è effettivamente un lavoro che non si spinge oltre ma si limita a rielaborare una serie di elementi già noti nel corso del tempo: titoli arguti, temi di tipo cinematografico, il pezzo col vocoder e quello con lo spoken word (Repelish gioca con uno delle più note leggende urbane della musica rock di sempre: il presunto messaggio satanico contenuto in Stairway To Heaven). La rielaborazione di standard propri unita ad un approccio più morbido sono però elementi che possono disturbare solo l’hipster più coglionazzo alla ricerca della novità ad ogni costo, per noi persone normali è solo un altro grande album all’interno di una discografia impeccabile. E poi ci sono dentro cose come Remurdered, pezzo da ballare (unica vera concessione al rave party evocato dal titolo) o una canzone come Blues Hour che nel suo essere in tutto e per tutto normale rappresenta un caso quasi unico nella loro produzione. Insomma, ancora una volta tanta tanta roba.



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