Non è certo così, meu Brasil, che puoi puntare con solide ambizioni alla conquista del sesto titolo iridato. Ma che dico: con un tale standard di prestazioni, persino il raggiungimento delle semifinali è a rischio concreto, vista la Colombia che ti troverai di fronte. Certo, non c'è stato alcun furto, ieri pomeriggio a Belo Horizonte: ma se nel calcio esistesse la vittoria ai punti, questa non avrebbe potuto che premiare il Cile, senza se e senza ma. Una lezione di football e di morale sportiva, quella dei ragazzi di Sampaoli: che hanno dimostrato come nella terra del dio pallone, contro la Nazionale di casa predestinata alla Coppa, in un ambiente ostile (amor patrio spinto a livelli di fanatismo, con tanto di fischi all'inno degli avversari), sia possibile scendere in campo forti della convinzione di poter fare il colpaccio, e portandola avanti, questa convinzione, fino all'ultimo secondo utile. Ha inseguito il suo sogno possibile, la vera Roja di questo Mundial, rifuggendo ogni atteggiamento attendista e ostruzionistico, aggredendo il gioco minuto dopo minuto, con una "difesa attiva" che l'ha portata a cercare il varco verso il gol ogniqualvolta se ne presentava l'occasione. PINILLA COME BAGGIO - Lo sfortunato finale di gara di Mauricio Pinilla, riemerso a livelli di eccellenza dal piccolo cabotaggio delle sue stagioni italiane, ha riportato alla memoria l'ultimo Roby Baggio mondiale, quello del 1998, quarto di finale in casa della Francia: a pochi minuti dal termine dei supplementari, sfiorò il palo di un nonnulla con uno splendido destro al volo. All'epoca era in vigore il discutibile golden gol, e quella prodezza, concretizzandosi, avrebbe clamorosamente eliminato i galletti. Sappiamo invece come andò, e lo stesso è accaduto all'attaccante del Cagliari: splendido destro dal limite, Julio Cesar battuto e traversa piena, allo spirare dell'extra time. Sono quelle "sliding doors" che, purtroppo, si chiudono quasi sempre per chi già in partenza era sfavorito. Poi sono arrivati i rigori nefasti, per Pinilla (penalty calciato assai male) e per i suoi compagni. Ma quella traversa rimane la sintesi di quanto detto prima: i cileni ci hanno creduto fino in fondo, e hanno fatto qualcosa in più degli augusti avversari per entrare fra le prime otto del mondo. Eupalla ha generosamente preso per mano i beniamini locali, impauriti come tanti pulcini bagnati, e li ha accompagnati verso un quarto che non è neppure da considerare un obiettivo minimo: per il team di Scolari, l'obiettivo minimo non può che essere Rio de Janeiro, 13 luglio, Maracanà, ossia giocarsi la finalissima. BRASILE BELLO A META' - Il Brasile del primo tempo aveva illuso in una metamorfosi simile a quella della Confederations Cup 2013: inizio di torneo diesel e progressiva carburazione, fino al raggiungimento in extremis della quadratura del cerchio tecnico e tattico. E' stata una frazione di grandissima intensità, per merito di entrambe le contendenti, e la Seleçao ne era uscita tutto sommato a testa alta: attorno a Neymar, unico termometro delle vere ambizioni auriverdes (se cala lui, l'attacco viene depotenziato del 90 per cento), giostrava una squadra più mobile, dinamica, con elementi disponibili al sacrificio: Marcelo pareva in palla in entrambe le fasi di gioco, ed era il primo a cercare il gol con un tiro a lunga gittata, mentre sull'altro lato Dani Alves chiamava il bravo... Bravo a una grande deviazione in corner su fiondata dalla distanza.
Lo stesso golden boy rientrava spesso nelle retrovie a dar manforte, Luiz Gustavo si confermava prezioso interdittore e Hulk regalava una prestazione finalmente convincente, di grande generosità, con un contributo a tutto campo e furenti percussioni a cercar di forzare il dispositivo difensivo cileno. Il gol di David Luiz era in fondo un premio meritato: il fatto è che in questo Brasile, anche nelle giornate migliori, c'è sempre qualche ingranaggio che gira a vuoto, o non gira proprio, dalla cintola in su. Così Fernandinho alzava troppo spesso i toni agonistici, mentre Oscar e Fred rimanevano costantemente ai margini del match, dove, nella ripresa, scivolava anche Neymar, diventando pallida controfigura del folletto ammirato fino a prima dell'intervallo. IL MIGLIOR CILE DI SEMPRE - Il Cile coglieva il pari su disattenzione difensiva mirabilmente sfruttata da Sanchez, ma fin dai primi minuti aveva carpito l'essenza del match, esibendosi su altissimi livelli: Isla e Mena chiudevano le fasce e ripartivano, sopratutto il secondo, vera freccia sulla sinistra; Medel là dietro era una barriera difficilmente superabile, nel mezzo Vidal si confermava un settepolmoni universale, catalizzando ogni fase della manovra, e quando calava lui saliva di tono Aranguiz, che dopo qualche impaccio iniziale si ergeva a califfo di centrocampo, filtrando e rilanciando, fino a sfiorare il gol, negatogli da una prodezza di Julio Cesar; in avanti la tessitura era sulle spalle di Sanchez, un moto perpetuo su ogni metro del fronte offensivo, talmente brillante da partecipare attivamente all'azione anche in fase di impostazione. Un bel Cile, forse il migliore di tutti i tempi: quello arrivato terzo al Mondiale in casa sua, nel '62, non può far testo, visto che si fece largo fra pugni e scorrettezze varie non sanzionate dagli arbitri.
UN ANFITRIONE IN VESTI DIMESSE - I rigori hanno poi detto bene al Brasile, ma la superfavorita della Coppa 2014 è arrivata davvero sull'orlo del precipizio, ha rischiato seriamente di farsi sbattere fuori dal suo Mundial negli ottavi di finale, cioè quando le sfide decisive devono ancora arrivare. Forse solo la Spagna del 1982, fra le grandi tradizionali chiamate ad ospitare un torneo iridato, aveva mostrato tale fragilità complessiva: caratteriale, perché non c'è stata alcuna reazione né al pari di Alexis né al gol annullato ad Hulk (controllo non evidentissimo col braccio); e di gioco, perché dalla zona nevralgica non arriva un'ispirazione che sia una, la manovra procede a fiammate, l'attacco è privo di forza penetrativa e tutto ruota attorno alle alzate di ingegno di Neymar. Dal secondo tempo in poi, la Seleçao ha fatto quasi tenerezza, per inconcludenza e modestia delle espressioni di gioco, persino per limiti di classe, in alcuni suoi interpreti. COLOMBIA MAESTOSA - La Colombia si approssima minacciosa: con l'Uruguay ha giocato al gatto col topo, irretendo gli avversari con un sapiente palleggio a centrocampo e affondando con improvvise accelerazioni. Ottimo lo sfruttamento delle fasce da parte di Zuniga e Armero (di quest'ultimo il cross che ha portato alla rete del raddoppio), controllo del gioco autoritario per oltre un'ora, con Aguilar a far legna in mezzo e James Rodriguez, doppiettista di giornata, toccato dalla grazia: primo gol, sinistro di controbalzo da fuori, capolavoro di balistica e di classe.
Nel finale il team di Pekerman ha rischiato qualcosa in più del dovuto: ultimi fuochi di un Uruguay a fine ciclo, che si dimenava come un animale ferito (non risparmiandosi qualche scorrettezza e qualche eccesso nervoso), ma davanti a Ospina si sono aperte smagliature difensive in cui potrebbe infilarsi un Brasile meno tentennante, più continuo nella sua azione, più rapido e preciso nelle verticalizzazioni. Altrimenti sarà notte fonda, perché a Cuadrado, Jackson e compagnia non manca certo la concretezza sotto rete. Scolari non può sperare che basti questo scampato pericolo a scuotere la sua Seleçao: i problemi sono strutturali, ma risolvibili. Assodato che questo Brazil 2014 non entrerà comunque nella galleria dei team da sogno, deve ritrovare, lo ripetiamo, lo spirito e la filosofia di gioco della Confederations: essenzialità, compattezza, velocità vertiginosa nelle avanzate. Un Brasile non bellissimo, quello di un anno fa, ma capace comunque di sprigionare fasi di gioco notevoli.