Monicelli ultimo atto

Creato il 30 novembre 2010 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

E no, non è una burla. Questa volta quei cinici scherzi proposti dagli Amici miei tanto amati dal regista toscano non c’entrano davvero nulla. Mario Monicelli ci ha lasciato alla veneranda età di 95 anni. Ci ha lasciato così, lanciandosi dal quinto piano del reparto di urologia dell’ospedale San Giovanni di Roma, dove era ricoverato da ieri. La notizia si è sparsa rapidamente, a macchia d’olio, ma la presa di coscienza di tale gesto tarda inevitabilmente ad arrivare. Troppo inaspettato, troppo sconvolgente, ci fa pensare a quei suggestivi colpi di teatro che solo i grandi possono permettersi. L’Italia, ma tutto il mondo d’altronde, oggi perde un monumento, un uomo di cinema, di cultura e di intelligenza sublime; Monicelli lascia orfano un paese da lui stesso raccontato con simpatia e cattiveria e, sempre più spesso negli ultimi tempi, duramente attaccato, cui rimproverava la poca voglia di reagire, la passività, la pigrizia, un paese “che sta andando in malora”. Quasi superfluo, per noi, star qui a decantare i suoi innumerevoli meriti e gli indimenticabili film realizzati in sessant’anni di onorata carriera, opere che hanno lasciato un segno indelebile sugli usi e i costumi degli italiani, forse tratteggiati proprio grazie alle sue pellicole, oltre a quelle di Dino Risi, Luigi Comencini o Ettore Scola.

Dagli esordi come florido sceneggiatore in coppia con Steno – con il quale diresse una serie di fortunati film per il grande Totò, fra i quali spicca senza dubbio quel Guardie e Ladri

che, nel 1951, permise al Principe della risata di vincere la Palma d’oro al Festival di Cannes – fino ad arrivare al film manifesto che chiunque, anche il meno attento  di noi, non può non ricordare: I soliti ignoti (1958), l’opera summa della commedia all’italiana, l’inizo ufficiale di un genere che, in breve, ha raccontato l’Italia ‘dell’arrangiarsi’ con genuina, severa e feroce autocritica. Un film che può permettersi di annoverare un cast spaziale composto da Marcello Mastroianni, da una giovane e bellissima Claudia Cardinale, proseguendo con Renato Salvatori, un impareggiabile Totò nel ruolo di Dante Cruciani, il “Re” dello scasso, e un inedito Vittorio Gassman, fino ad allora divo del teatro scespiriano, e qui genialmente reinventato, dal nostro Monicelli, come protagonista comico nelle vesti di Peppe Marchetti detto “Er Pantera”. Siamo nel 1958 e, solo l’anno successivo, ecco un altro capolavoro: La grande guerra (1959).  Come dimenticare il duo composto dal romano Alberto Sordi e dal “milanese” Vittorio Gassman alle prese con gli orrori del primo conflitto mondiale? Un’interpretazione magica, commovente, tragicomica, grazie alla quale il film vinse il Leone d’oro al Festival del cinema di Venezia e si guadagnò una nomination agli Oscar.  Nel 1966 Monicelli decide di rivisitare il Medioevo con fare picaresco, proponendo lo strampalato viaggio verso Eurocastro di una compagine di uomini con a capo il solito Gassman. Il film  è L’Armata Brancaleone: anche qui il cast è d’eccezione e vede schierati accanto al Mattatore, Gian Maria Volontè, Catherine Spaak, Enrico Maria Salerno, Carlo Pisacane, ormai star grazie al ruolo di “Capannelle” ne I soliti Ignoti, e Barbara Steel. Basterebbe questa prima fase della carriera del maestro per sottolineare la sua passione e la sua voglia di fare cinema, ma “il genio monicelliano”, sempre coadiuvato da abilissimi sceneggiatori, si catapulta con rinnovata creatività negli anni settanta, realizzando Romanzo Popolare (1974), con Ugo Tognazzi, Ornella Muti ed un giovane Michele Placido; il roccioso dramma Un borghese piccolo piccolo (1977), con Alberto Sordi, Shelley Winters e il compianto Vincenzo Crocitti, nel quale Monicelli dipana una storia di disillusione totale, percorsa da dolore e rassegnazione, dove non vi è spazio per la commedia e per gli ammiccamenti, se vogliamo affettuosi, sui vizi degli italiani. Ma gli anni settanta del regista vedono anche il primo capitolo di una trilogia popolarissima del cinema italiano; è infatti il 1975 quando il regista eredita da Pietro Germi Amici Miei, e qui si che la vita è davvero tutta un gioco. I cinque toscanacci protagonisti Ugo Tognazzi, Gastone Moschin, Adolfo Celi, Philippe Noiret, Duilio Del Prete sono la perfetta rappresentazione di un’Italia chiassosa e cinica, a volte spietata, con la voglia di ridere, di divertirsi e con quel gusto difficile di non prendersi mai sul serio. Un quadro mordace e malinconico, un elogio dei perdenti che non hanno proprio alcuna intenzione di diventare effettivamente ‘qualcuno’. Film che, come accennato, avrà due seguiti, Amici Miei atto II (1982), sempre diretto da Monicelli, e Amici Miei atto III (1985), di Nanni Loy.

Non ci siamo di certo scordati di quello che forse, ad oggi, è il più popolare dei suoi film, quello che sbancò i botteghini agli inizi degli anni ’80: eccoci giunti, dunque, a Il Marchese Del Grillo (1981), enorme successo, più di pubblico che di critica, e trionfo personale per il gigionismo di Alberto Sordi.  Una commedia in costume, molto divertente, che fa ridere, e tanto, ancora oggi, dove i vizi, l’avidità e la furbizia dell’italiano vengono proiettati nella Roma papalina di inizio ‘800, come se il nostro volesse suggerirci che da che mondo è mondo è sempre andata in un certo modo. In tutti i titoli citati fin’ora, piccolissima parte della vastissima filmografia di Mario Monicelli, si può notare come egli abbia lavorato con i migliori attori del nostro dopoguerra, e di come questi ultimi si siano lasciati guidare dalla sua mano ferma, a volte burbera certo, ma che sapeva cosa toccare e cosa esplorare; la fermezza di un maestro alla quale tutti questi grandi, immensi, ‘ingombranti’ attori non hanno potuto far altro che sottostare. Oggi che il maestro, a 95 anni, ha voluto anticipare anche lei, la morte, vengono in mente molte sue parole, tante sue dichiarazioni ironiche, ciniche, da buon toscanaccio che, dopo questo inaspettato salto nel vuoto, quasi riecheggiano nelle menti di tutti noi, con un’eco prepotente; come quando, dopo l’uscita del suo ultimissimo film Le rose del deserto (2006), alla domanda: Mario, ma ora di fare un altro film non hai proprio più voglia? lui rispose: «No, e non solo per la fatica che comporta e per le difficoltà produttive in Italia. Ma ho 94 anni e ho fatto circa 65 film. A questo punto la gente direbbe:  “Ma questo che cazzo c’ha ancora da dire?”». Beh, a questo punto verrebbe voglia di fare come quei mattacchioni del Mascetti, del Melandri, del Sassaroli e del Necchi che, al funerale del loro amico Perozzi, proseguendo uno scherzo ad una loro malcapitata vittima, accompagnano il feretro tra sghignazzi e risate. Ecco, forse è proprio questo il messaggio:  “Affrettiamoci a ridere di tutto, per paura un giorno di doverne piangere”.

Manuele Berardi


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