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Monsignor Romero è beato: la rivincita postuma di un uomo lasciato solo

Creato il 23 maggio 2015 da Eldorado

El Salvador, e tutto il Centroamerica, hanno il loro martire ufficiale. Óscar Romero, l’arcivescovo assassinato il 24 marzo 1980 è stato beatificato oggi, nella sua città, San Salvador, davanti a una folla oceanica di fedeli, chi dice 250.000 persone, accorsi da tutto il paese. Romero giunge alla beatificazione alla fine di un processo tortuoso, perché inviso ai circoli conservatori della società centroamericana e di certi settori della stessa Chiesa cattolica. Personaggio scomodo anche da morto, l’arcivescovo non fu mai accomodante neppure da vivo. Nato e cresciuto conservatore –critico verso certe posizioni del Concilio Vaticano II e fustigatore del comunismo-, alunno in seminario del futuro Paolo VI, Romero cambia le sue posizioni attraverso una lenta evoluzione, nella meditazione della contrapposizione di un potere avido ed un popolo povero e affamato. El Salvador è il più piccolo paese del Centroamerica, ma è anche un paese di grandi tragedie. Qui, nel 1932, l’esercito massacrò i contadini in sciopero: mitragliatrici Mauser contro machete, un saldo di 25.000 morti tra la povera gente. La destra, su quella strage, ci sguazza per decenni. Roberto d’Aubuisson, il tetro mandante dell’omicidio di Romero, quando fonda il partito Arena scrive un inno che, ricordando quei fatti, recita: El Salvador será la tumba donde los rojos terminarán. L’idea è proprio quella di onnipotenza, di una casta di eletti, intoccabili. La giustizia sociale è una bestemmia.
Romero assiste per anni da spettatore agli avvenimenti che porteranno El Salvador alla guerra civile, ma è un fatto specifico, l’assassinio del suo collaboratore, padre Rutilio Grande nel marzo 1977, a dimostrargli come ormai non ci sia più margine di negoziazione. Chiede infatti una veloce ed esaustiva investigazione al governo, che promette ma non fa nulla. Sui passi di Grande, che aveva organizzato le comunità contadine di Aguilares, comincia la sua conversione che lo porterà al martirio.
Romero è un beato anomalo, che non ha fatto miracoli e che arriva alla beatificazione per la sua umanità. Le sue azioni sono quelle di un uomo che alza la voce contro l’ingiustizia e che combatte quasi isolato una lotta impari, da una parte contro le autorità politiche e militari del suo paese in guerra e dall’altra contro la gerarchia della Chiesa cattolica, che non approva il suo operato. È fuori da ogni schema, non allineato se non con la parola del Vangelo, che reclama aiuto per i bisognosi. Il silenzio della Chiesa cattolica, l’ostracismo con cui viene trattato, legittimano giorno dopo giorno il piano ordito per eliminarlo. Per i suoi detrattori, Romero è un comunista che aizza contadini e diseredati contro il potere, un rivoluzionario travestito da sacerdote che giustifica la rivolta. Niente di più falso, ma nell’ambito di una società polarizzata, trascinata agli estremi dai tragici eventi della guerra civile, il messaggio cristiano di solidarietà e pietà di Romero viene strumentalizzato da entrambe le parti in conflitto. Romero, scaricato dal Papa e dai suoi più vicini collaboratori, diventa un bersaglio facile.
Finisce come ci si aspettava e in una forma addirittura plateale, perché la sua morte pubblica sia monito per tutti coloro che osino sfidare il potere. Ci vorranno anni perché la Chiesa ufficiale riveda la sua posizione. Un beato di questo genere è quasi una rivoluzione copernicana per i cattolici latinoamericani, dove la Teologia della Liberazione ha portato sollievo a tanti fedeli, ma disgrazia, morte ed esilio ai sacerdoti che la praticavano. Il tempo, però, sembra essere alleato delle buone cause. La beatificazione di Romero è un riconoscimento non solo per il prelato, ma per le decine di sacerdoti martiri delle dittature e tutta quella parte di popolo salvadoregno che combattè una guerra per ottenere dignità e riconoscimento.


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