Monsters University, USA, 2013, Regia di Dan Scanlon
Recensione di Alberto Bordin
Quando nel 2001 Docter, Unkrich e Silverman hanno portato sugli schermi Monsters & Co., nelle sale si respirava qualcosa di davvero rivoluzionario. Erano i primi successi della Pixar e si saggiava il terreno di campi ancora inesplorati dell’animazione; ma più di tutto si offriva al pubblico una delle storie più geniali – eppure hollywoodiane – che abbiamo potuto vedere negli ultimi anni. Tutto nasceva dalla semplice idea di creare un paradosso, il ribaltamento di quel mondo che ci accompagna fin dalla tenera età: il terrore dei mostri sotto il letto; era una nave che poteva facilmente incagliarsi in tanti scogli, ma invece venne timonata con geniale abilità, ancorando sicura in porto. “Wath if …”: i mostri che escono dagli armadi e ci tormentano nelle notti, non lo facciano per cattiveria o malvagità ma per fini puramente industriali – una “Incorporated”, come dice il titolo originale –, e che a dire il vero, ci temano più di quanto li temiamo noi … e uno di noi, un bambino, entri accidentalmente in questo loro mondo!
Di tutt’altro tipo le acque che invece intende navigare Monsters University, dove in un contesto che – per conseguenza logica – condivide tutte le dinamiche del mondo sopra illustrato (le folli leggi di un mondo abitato da mostri il cui più grande ideale è diventare spaventatori), prende luogo una storia di formazione, quel problematico e leggero bilancio tra fiducia in se stessi e disillusione, che ciascuno deve fare raggiunta la maturità. Si gioca la riuscita dell’io: è vero che possiamo diventare ciò che vogliamo? Oppure l’ambizione è solo uno stimolo infantile e anarchico?
La stessa nave percorre evidentemente un mare diverso. Allora cos’hanno in comune (veramente) questi due film? È l’anima profonda di entrambi: l’esplosivo duo “J. P. Sullivan & Mike Wasosky”.
Protagonista indiscusso di questo prequel è Michael Wasosky, giovane matricola della Monsters University, la migliore università per diventare uno spaventatore; essere uno spaventatore è il sogno di Mike, e lo è per via di un accadimento eccezionale, in un luogo eccezionale, per un giorno eccezionale. In una scena comune ma genuina, il prologo si concede a raccontare uno di quei momenti della nostra vita così veri che ce li stampiamo in fronte e non li dimentichiamo più. Si tratta del giorno in cui scopriamo una passione, in cui ci innamoriamo di un volto della nostra vita; gli occhi si riempiono di stupore e la bocca di silenzio perché ci siamo innamorati, perché in quegli occhi abbiamo la cosa per cui sappiamo di essere fatti e che ci riesce impossibile descrivere.
E non è solo la pressione febbrile di un ricordo a muovere Mike nel progetto del suo successo: sono indubbie anche una notevole predisposizione alla materia, una passione energica e – per quanto schematica – una genialità vivida e applicata. Però c’è un problema: Michael non fa paura. Non certo come un’altra matricola, l’idolo delle folle, James Sullivan – figlio di “quel” Sullivan – erede di una dinastia di spaventatori e di un nome – un pesantissimo nome –; e con quel nome una predisposizione naturale a spaventare. E i due non possono che diventare rivali.
Come potrebbe essere altrimenti? Chi, da una parte, vive un’illusa speranza, chi, dall’altra, una becera certezza. Le due forze si scontrano: cervello e muscoli, studio ed esperienza, teoria e pratica, scienza e istinto. Il gioco è sottile e intelligente: quale dei due vincerà? Chi non dispone della grandezza, non può compensare applicando la propria passione e l’ingegno? Ma d’altra parte, questo cinismo collettivo, l’arrendersi al fatto che c’è chi può e chi non può, è soltanto figlio di una superficiale apparenza o il constatarsi di un’evidenza?
A conti fatti non possiamo dire che quest’ultimo titolo Pixar ci regali nuova materia di cui meravigliarci, ma fedele alla vecchia scuola sa raccontarci a nuovo quello che ormai sapeva di vecchio. Perché il genio questa volta non posa in un mondo in grado di farci meravigliare per lo stupore: non è la stranezza di Toy Story, né la follia del primo Monsters, la profondità degli abissi di Nemo, la grazia di Rataouille o la poesia di Wall-e; ma una storia rimane geniale in un personaggio geniale, ossia autentico, vero, come lo è Mike. Date una domanda sincera a un personaggio e lasciategli vivere sinceramente una vita, un’esperienza, e ne verrà qualcosa di onesto. Perché ci vuole onestà ad accorgersi della vita, a constatare l’accadere di un fatto, tanto che alle volte serve che ci prenda a schiaffi con tutta la sua ineluttabilità. Onesti per accorgersi che si può essere miopi sulla propria vita – specialmente per una creatura ciclopica – e che una stupida montagna di pelo blu a pois possa avere più ragione di te.Ma forse questo non è nemmeno troppo difficile: non lo è vedendo l’affetto nei suoi occhi, la stima di un amico stupito e sorpreso, innamorato, perché lui ha visto davvero accadere quella tua geniale autenticità, e onestamente si è accorto di te.