“Ecco che cosa ho pensato: affinché l’avvenimento più comune divenga un’avventura è necessario e sufficiente che ci si metta a raccontarlo. È questo che trae in inganno la gente: un uomo è sempre un narratore di storie, vive circondato delle sue storie e delle storie altrui, tutto quello che gli capita lo vede attraverso di esse, e cerca di vivere la sua vita come se la raccontasse. [...] Avrei voluto che i momenti della mia vita si susseguissero e s’ordinassero come quelli d’una vita che si rievoca.” Jean-Paul Sartre, La Nausée
Nella trasposizione cinematografica Michel Gondry ha riprodotto con stop motion e cartapesta, attraverso un uso mirabile della macchina da presa, il gioco di neologismi onomatopeici e le stravaganti fusioni di parole del fanciullo Boris Vian, senza dubbio uno dei migliori scrittori della letteratura francese moderna.
La storia d’amore tra Chloè (Audrey Tautou) e Colin (Romain Duris) ha origine nel suo epilogo: in una asettica sala che richiama una catena di montaggio, decine di uomini e donne battono a turno su macchine da scrivere lo sviluppo delle vicende dei personaggi in un turbinio surreale di situazioni paradossali. La nuvola meccanica dalla quale gli innamorati guardano sotto di loro la magia di Parigi e la felicità esaltata nei raggi del sole che trafiggono gioiosi la casa di Colin
Mentre il tempo macina i suoi secondi consumandosi inesorabilmente, la fotografia delle prime scene luminosa e limpida, si fa a poco a poco lugubre e gotica, fino al bianco e nero: il mondo attorno ai due giovani si disfa e rimpicciolisce, come a farci intendere che, con la perdita di chi amiamo, gli oggetti, che conservano la memoria delle loro essenze, testimoni di felicità passata, nella profonda tristezza, divengono lo strazio dell’effimero ricordo: insignificanti si consumano in fretta, inutili come la porta da cui, nel finale, non riesce a passare neppure il topolino antropomorfo alter ego di Colin.
E sulla scia del recupero sartriano Michel Gondry non intende raccontare una storia d’amore, o per lo meno non solo quella. Non è neppure il racconto di un’avventura; è piuttosto la consapevolezza dell’uomo moderno del suo essere nulla di fronte agli eventi e, soprattutto, rappresenta la presa d’atto del suo essere solo: di fronte alla tragedia di Chloè, a Nicolàs (Omar Sy), il tuttofare saggio e attento solo finché può contare su una guida che ne assicura le azioni, non rimarrà che stare a guardare; il medico che cura Chloè sbaglia diagnosi, se ne vergogna e restituisce parte della sua parcella ad un disperato Colin; il sacerdote che deve celebrare il funerale della giovane, sapendo che Colin non può più permettersi di pagarlo subito, organizza una squallida processione verso una anonima fossa comune: Dio è così lontano che non lo si può disturbare per chiedergli qualche soldo in più, ed è peggio essere poveri che morti.
“Tutto è pieno, esistenza dappertutto, densa e pesante e dolce. Ma al di là di tutta questa dolcezza, inaccessibile, vicinissimo, e, ahimè, così lontano, giovane, spietato e sereno c’è… questo rigore.” Jean-Paul Sartre, La Nausée
Il disfacimento è inevitabile e la crisi ci fa piombare, dopo aver danzato vorticosamente tra le invenzioni mentali del regista, nella disperazione oscura – marcata dalla fotografia in bianco e nero – di Colin che spara alle ninfee del lago poco distante dal luogo dove è stata sepolta Chloè. Il Sartre de “La Nausée” è tutto lì. Inesorabile, con rigore, quasi con metodo. Tutto sembra perduto. Nessuna speranza. Eppure, quel topolino antropomorfo sfuggito al collasso del piccolo mondo onirico di Colin ha portato con sé la storia dei due sposi che Chloè aveva disegnato morente.
“Mood Indigo”, quindi, ci parla d’amore, ma anche della società di cui troppo spesso siamo succubi. Nel momento in cui Colin cerca lavoro tutti gli rispondono con un beffardo rifiuto: è stato e resterà agli occhi di tutti un fannullone, sebbene abbia inventato l’originale pianocktail (ardito pastiche linguistico-contenutistico che nelle mani del regista si reifica, diventa un oggetto, lo strumento che produce drink in base al modo in cui viene suonato). A chi importa – sembrano dire i volti anonimi dei datori di lavoro che incontra – che tu sia creativo, originale ed unico? Credevi forse che la tua ricchezza ti avrebbe protetto per sempre? Quei volti rappresentano una società competitiva all’eccesso, che non ha niente da offrire, a parte il grigiore di una catena di montaggio o, peggio, lo squallore dei corpi degli uomini disposti a covare canne di fucili destinati a sparare.
Mentre lo spettatore continua a chiedersi dove si trovi – fuori, dentro? lontano, vicino? – la tragedia è consumata e l’esistenza è passata, sfiorita. Quello che rimane sono le ceneri di libri bruciati in un atroce incendio e oggetti annichiliti e muti. Tutto così privo di senso. Ma, come una epifania, il delirio del visionario si svela lucida dimostrazione: forse un po’ spaventa rendersi conto che la nostra realtà coincide con la dimensione onirica; il sogno non può più essere una via di fuga, un modo per evadere e tornare alla realtà con animo speranzoso, pronto ad affrontare il mondo e superare la crisi. La realtà è il mondo del sogno e dell’incubo e non ci si può più svegliare, quasi che il confine sottile si sia infranto per sempre senza che si riesca a capirne le ragioni.
Niente sarebbe stato davvero tragico se i due giovani si fossero amati nel chiuso della loro stanza, ascoltando il jazz di Duke Ellington (proiezione della passione di Vian, tra l’altro, anche musicista) che accompagna, ben armonizzato con le musiche originali di Étienne Charry, la narrazione serrata e vivace nelle forme di una racconto filmico fatto di colori ed immagini vorticose, pervase da un senso di insostenibile leggerezza e dolcezza in un’atmosfera di rarefatta solitudine, perché siamo soli in mezzo agli altri, anche se innamorati e appassionati. Di questo sembra ammonirci Michel Gondry nella sua fedele trasposizione cinematografica di un libro cult della letteratura francese.
Written by Irene Gianiselli