Moonrise Kingdom: Variazioni d’Autore

Creato il 09 gennaio 2013 da Dietrolequinte @DlqMagazine

Dopo il tentativo di suicidio di Luke Wilson sulle note di Needle in the Hay o l’incontro dannatamente romantico tra Margot e Richie alla stazione ne I Tenenbaum, e i magnifici riarrangiamenti delle canzoni di David Bowie de Le avventure acquatiche di Steve Zissou, Wes Anderson con Moonrise Kingdom ha colpito ancora. Lui e lei, 12 anni ciascuno, su una spiaggia deserta, un piccolo mangiadischi e la voce di Françoise Hardy. Ballano, si guardano, si abbracciano e si baciano. Scoprono l’amore. L’istantanea perfetta dell’innamoramento adolescenziale in una semplice inquadratura, che è esattamente uno dei tanti punti di forza di Anderson. Paragonato agli altri suoi lavori, Moonrise Kingdom può essere visto come opera allo stesso tempo continuativa e di svolta, non tanto per le scelte estetiche, sicuramente più asciutte e delicate, ma soprattutto per lo sviluppo dei temi tanto cari al regista, oltre che per i dialoghi. Anderson continua a essere Anderson, e di questo non lo ringrazieremo mai abbastanza, ma questa volta va ancora più su e firma quella che forse è la sua opera più complessa e delicata. Il capolavoro della maturità, oserei dire. Se provassimo ad analizzare la canzone de I cani in cui si celebra il regista, troveremmo tutte le caratteristiche salienti della sua cinematografia, anche quei finali agrodolci che fanno dei film di Anderson degli spaccati di vita. Qui il finale agrodolce c’è, ed è probabilmente il più dolente dell’intera filmografia. La nascita di un amore, quello impetuoso e apparentemente invincibile dell’adolescenza, e la fine di un altro amore, quello più drasticamente realistico e disilluso della maturità. Ecco la parabola di Moonrise Kingdom.

Di amori tormentati, o addirittura impossibili, Anderson ne ha raccontati tanti, sono la colonna portante del suo cinema, e quello tra Suzy e Sam è un altro tassello di rara bellezza. C’è tutto quello che Anderson può offrirci: una fuga d’amore, le incomprensioni familiari e la speranza che il solo sentimento amoroso possa lenire ogni dolore. Quegli strani personaggi con consistenti difficoltà relazionali, saldamente ancorati al proprio mondo, che il regista americano ama raccontare, in fondo siamo noi. E la fuga d’amore di due adolescenti, non compresi e addirittura considerati folli, è l’irrazionale illusione di cui siamo stati vittime anche noi quando eravamo ancora come Suzy e Sam. Con il triangolo amoroso Murray – McDormand – Willis arrivano invece gli altri tormenti, quelli della maturità. Ed è lì che la pellicola diventa più complessa e personale: dalla costruzione di un sogno d’amore fino alla distruzione di quella che invece era diventata una concreta realtà amorosa, la famiglia. Il fatto che tutto questo avvenga all’interno della culla familiare, croce e delizia della filmografia del cineasta americano, non è certamente un caso. Le famiglie di Anderson continuano a essere il covo di incomprensioni e rancori accuratamente celati, oltre che la sorgente di ogni problema relazionale e sociale, ed è lì che bisogna partire per una risoluzione, quanto meno parziale, di ogni tipo di divergenza.

La carrellata di personaggi poi è squisitamente andersoniana: Sam può essere certamente considerato un adolescente Zissou e Suzy una giovane Margot; ogni personaggio, pur conservando un’originalità di fondo, si lega indissolubilmente ai protagonisti delle precedenti opere. È questa la forza di Anderson. Rimanere fedele alla propria estetica e ai propri temi aggiungendo tasselli inediti e indispensabili alla propria poetica, e nel caso di Moonrise Kingdom in molti hanno addirittura parlato di Nouvelle Vague. In fondo la sintesi della filmografia di Anderson sta nella sequenza iniziale del suo ultimo lungometraggio, in cui il famoso mangiadischi menzionato già sopra spiega dettagliatamente cos’è un’orchestra e come funzionano le sue variazioni analizzando accuratamente ogni strumento della composizione. Una metafora esemplare, in perfetto stile Anderson.

Una filmografia senza pecche, in cui ogni pellicola rappresenta una variazione, e quindi uno strumento di analisi diverso, dei temi cari al regista, creando un’opera complessiva omogenea e unica nel suo genere, e facendo di Anderson uno degli autori contemporanei più interessanti del panorama cinematografico, mai lodato abbastanza per la sottoscritta. Le variazioni dell’orchestra andersoniana sono le innumerevoli sfaccettature dell’animo umano e le numerose peculiarità delle relazioni sociali e familiari, che il cineasta americano canta e celebra reinventandosi in ogni lavoro. L’orchestra di Anderson e dei suoi attori è l’orchestra della vita in ogni sua variazione. Avvincente, noiosa, intensa, vivace e pacata, ma anche bizzarra, sopra le righe, leggera, agrodolce e delicatamente dolente, proprio come i suoi film e i suoi protagonisti. È quel perfetto equilibro tra delicatezza e sofferenza che fa del cinema di Wes Anderson un tesoro preziosissimo.


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