Come stiamo lasciando andare in rovina i nostri beni comuni, che sono esposti alla sottrazione, all’alienazione, alla svendita, anche i diritti e le prerogative sono ormai reliquie mal custodite, sottoposte a ricatti, impoverite e oggetto di contrattazioni e commerci nei quali sono destinate a perdere sempre più valore.
Ce lo ricorda in una intervista a 5 anni dalla morte della figlia, Peppino Englaro. Un’intervista che dovrebbe far vergognare perché in 5 anni paradossalmente siamo regrediti: i toni accesi sono stati addomesticati, ma chi allora gridava all’assassinio, le Binetti, i Quagliarello, i Sacconi, resta saldamente in carica nella veste di suggeritore morale, capace di trasformare qualsiasi aspettativa e bisogno in tema sensibile, trattabile solo in contesti confessionali o partitici, che tanto il contesto supremo della democrazia e dell’etica pubblica, la Costituzione, è ridotta a operetta morale, da leggere solo in occasione di sleali giuramenti.
La crisi non smantella solo l’edificio dei diritti del lavoro, di quello alla salute, reso aleatorio nello smottamento del sistema di welfare, quello al libero accesso alle risorse, quello all’ambiente, al godimento della cultura, della bellezza, dell’arte, ma limita anche quelli che riguardano le vite delle persone, le inclinazioni, la procreazione, la nascita, l’esistenza, la morte, ridotti a oggetto di elargizioni discrezionali e condizionati da fattori patrimoniali.
Perfino quello alla morte con dignità è subordinato al ceto di appartenenza, se forte della condizione di intellettuale e di “abbiente” qualcuno, indifferente a dare testimonianza di una scelta, come invece con tormento, tenacia e coraggio ha voluto fare Englaro, ha potuto liberarsi a pagamento e all’estero, del fardello impudico della devastazione del proprio corpo, come d’altra parte possono fare le coppie che si sottopongono al turismo procreativo, come facevano le ragazze di buona famiglia prima che conquistassimo uno dei diritti più angosciosi e tremendi, in modo da sottrarlo a mortali speculazioni, andando ad abortire all’estero.
Nei giorni scorsi si è tenuto a Madrid una manifestazione in difesa dell’interruzione di gravidanza legale. In Italia molti gruppi hanno aderito ed è sacrosanto. Ma presto dovremo chiedere alle donne spagnole di renderci il favore e di manifestare contro gli attentati continui e bipartisan che arrivano contro una legge dello stato, nata per salvare le donne dalla clandestinità, dei commerci sulla loro pelle, dalla criminalizzazione di una scelta, forse la più difficile che ci sia.
Una politica sempre più remota e separata dai cittadini, incaricata e non scelta, che nega per legge la partecipazione ai processi decisionali, pretende di entrare nelle nostre esistenze, di regolarle come fossero rimaste l’unica proprietà “pubblica” nella quale lo Stato è padrone. Eppure era uno Stato che aveva sovranità proprio grazie a una Carta che esaltava a un tempo doveri, responsabilità e diritti.
Englaro è ottimista come può esserlo un padre che ha visto morire la figlia per 17 anni: “Voglio vedere, di fronte al mio biotestamento, che è una semplifcazione giornalistica di quelle che si chiamano “disposizioni anticipate di trattamento”, quale medico o magistrato possa dire “no”. E costringermi a riprendere il discorso dal 1992, come fu per mia figlia. I medici, adesso, si trovano di fronte un cittadino che sa di poter dialogare ed esprimere delle disposizioni”. A renderlo ottimista è la prolungata forza della disperazione. Temo che possiamo esserlo molto meno di lui vedendo come repressione, indifferenza, imposizione dello stato di necessità, vogliano persuaderci che si tratta di optional, di richieste superflue, di aspettative aggiuntive e quindi criticabili laddove è in discussione l’indispensabile, come se la dignità, la felicità, l’amore riconosciuto anche dalle leggi, non lo fossero.
È un veleno che si è diffuso e che si è esteso a tutti diritti, grazie a quell’amalgama di destra “moderna” dentro al tentativo di un partito unico, che al posto dei diritti civili pone i “valori non negoziabili”, ribaditi come irrinunciabile segno di identità. Al posto dei diritti del lavoro ha collocato una logica che ha fatto deperire le garanzie. Al posto del rispetto dell’altro ha imposto il reato di immigrazione clandestina e l’ostinato rifiuto di allargare la cittadinanza. Al posto della legalità costituzionale ha attribuito legittimità a regole unicamente indirizzate alla custodia di interessi privati.
A 5 anni di distanza dal “caso” che aveva posto come priorità il diritto della persona di morire con dignità non si è fatto nessun passo nella direzione di approvare le poche norme necessarie per eliminare ogni dubbio, così il diritto di governare liberamente la propria vita — il nascere, il costruire le relazioni personali, il morire — è ricacciato in una precarietà che testimonia di una colpevole indifferenza del legislatore.
E fin dal 2010, prima la Corte costituzionale, poi la Corte di Cassazione hanno riconosciuto che le persone dello stesso sesso, unite in una convivenza stabile, hanno «il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia». Parole che non hanno trovato ascolto nelle aule parlamentari, sì che un diritto fondamentale continua ad essere ignorato. Uno scandalo pari a quanto è accaduto a proposito dell’accesso alle tecniche di procreazione assistita. La legge del 2004, il più infame prodotto delle ideologie fondamentaliste, è stata demolita nei suoi punti essenziali da giudici italiani ed europei, ma per il Parlamento è come se nulla fosse accaduto e non vi è stato quell’azione necessaria per restituire alle donne l’esercizio pieno dei loro diritti.
Non c’è da essere ottimisti se ci viene concesso di darci la morte per miseria tramite suicidio solitario, come superstite forma di autodeterminazione e come unica manifestazione di dignità rimasta.