In quel vagare per la campagna in cerca di avventure mettevo in fila risposte poco plausibili a domande sempre più incredibili. La crescita non era prevista, mi beavo all’idea che sarei rimasta per sempre bambina o che al massimo, un giorno mi sarei svegliata già adulta con occhi dipinti di blu e un profumo dolciastro addosso, e forse anche un marito lì, da qualche parte. Non avrei mai immaginato che a un certo punto, senza preavviso e durante i compiti pomeridiani, qualcosa sarebbe esploso sul mio petto e che minuscoli e dolorosissimi rigonfiamenti avrebbero iniziato a tirare la pelle, come se da dentro qualcuno che non ero io volesse uscire e sostituirsi a me per sempre.
L’attesa e il fastidio di quella muta finì com’era iniziata. Anch’io avrei avuto presto una faccia emaciata e pallida e un’ottima scusa per restarmene a letto, per essere nervosa e intrattabile e degna di rispetto come già mia sorella prima di me. Avevo già nostalgia delle corse in bicicletta e dei cavalli, degli infiniti pomeriggi in cui vagavo per la campagna in cerca di niente, della noia e delle storie raccontate al primo animaletto di passaggio.
Schiva, come se qualcuno mi avesse già mostrato le oscenità di cui sono capaci gli umani, sapevo che per salvarmi avrei dovuto darmela a gambe. Per questo ancora oggi percorro molti chilometri ogni giorno, per tenermi in esercizio e sempre pronta alla fuga. Pensavo che se un giorno la mia vita non avesse avuto più alcun senso mi sarei caricata lo zaino in spalla per arrivare a piedi sino al Polo Nord. Nel mio zaino c’era sempre un kit di primo soccorso, c’erano il rossetto e la matita nera, c’era il diario con lucchetto e la carta telefonica.
Gli orchi se ne stavano all’uscita di scuola ad aspettare le piccole in ritardo. Ma io li conoscevo bene e correvo forte. Li fregavo ogni volta quei fottutissimi maiali dalla lingua lunga e dalle mani larghe. Ma volevo scarpe più grosse per colpirli esattamente al posto giusto e lasciarli in terra. Ci volevano anfibi originali dalla punta di ferro, quelli che portavano i ragazzi più grandi a Piazza Umberto. Ci voleva una roba potente per la ragazzina solitaria e un po’ matta cui piaceva starsene da sola e girare per le pinete deserte. Per una che saltava la scuola così spesso per andare al mare ci voleva roba seria per difendersi dal solitario avventore, da quello che visto che c’è ci deve provare, anche se ha solo dodici anni chi se ne importa, se sta lì e da sola tanto basta: vuol dire che se l’è cercata.
Non ci potevo credere quando da Londra arrivò il pacco. Un trentacinque impossibile da trovare e invece, quel ragazzetto dall'aspetto inaffidabile ce l’aveva fatta. Nemmeno ricordo il suo nome, so solo che quando durante il cambio d'ora, in corridoio, avevo tirato fuori dal chiodo il denaro stropicciato, gli avevo anche detto addio. Addio a quei tre pezzi da cinquantamila messi via con fatica, detratti alla paghetta settimanale e stipati nel vocabolario di Greco che a poco serviva se non a nascondere progetti di fuga all’estero e cartine. Invece eccoli lì i miei anfibi dal rinforzo di ferro.
Dopo aver fatto giuramento di amore eterno, li lasciai sul comodino per guardarli un attimo ancora prima di chiudere gli occhi, per sentire l’odore della pelle dura e sognarmi vincitrice. Per anni hanno ritmato i miei passi ribelli e anche la notte più buia non faceva paura. Hanno ballato e camminato con me per le strade del mondo. Hanno atteso nei camerini di decine di città. Inseparabili, ancora oggi mi guardano dalla scarpiera. Un pezzo di me, una parte selvaggia e diffidente che mi ha salvato la vita. Gli anni sono passati e io ho ancora l’indole e il cuore della darketta amica del peggiore della scuola. Sono rimasta una che per caso, talento, paura, o fottutissima necessità, corre ancora e corre forte.
(Foto di John Alton)