Riceviamo e pubblichiamo
Di Edoardo Cozza
Renato Curi, Miklos Feher, Marc Vivien Foe, Antonio Puerta. E tanti altri. E poi Piermario Morosini, l’ultimo a lasciare la sua vita sul campo di calcio. Anni 25, centrocampista di mestiere, ragazzo la cui vita è stata segnata da continue maledizioni: orfano di mamma a 15 anni, di padre a 17, perde un fratello disabile, che si suicida, e ha un’altra sorella, anche lei affetta da disabilità. Pochi motivi per sorridere, eppure Piermario non aveva mollato. Aveva conquistato quel mondo del calcio, com’era nei sogni suoi e dei suoi genitori. Ma proprio durante l’ennesimo atto del suo sogno, ci ha lasciati. Immagine terribile, Morosini che cede, si rialza, cede, si rialza ancora. Poi crolla al suolo, e non si alzerà più.
E quanti altri sono morti come lui, durante una partita di calcio?
Uno sport per tutti, per loro era anche un lavoro. Vittime durante un gioco, durante un sogno. Caduti inseguendo un pallone sull’erba. Quell’erba che ha accolto in un ultimo abbraccio i loro corpi privi di sensi, svuotati della vita che ancora poteva e doveva continuare. Non ha senso chiedersi perché: il destino mette la mano nelle nostre vite e disegna storie in cui non possiamo intervenire. Cordoglio e solidarietà possono essere superflui e ipocriti. Ma le emozioni no, le vivi dentro. Ecco perché vedere un ragazzo che crolla al suolo, giocando a calcio, fa male. Perché viveva un’emozione, una festa, una gioia come è il calcio. E, all’improvviso, dopo un attimo di dolore, non vive più.
Riflessioni, parole, lacrime, pensieri. Tutto, forse troppo, risuona in questi attimi. Basterebbe il silenzio, quello semplice, quello del primo istante, quando capisci che qualcosa non è andato. Era una festa, diventa un incubo. La festa tornerà, l’incubo (chi vorrà) se lo porterà amaramente dentro, ripensando a dei ragazzi morti durante un gioco.
Addio ragazzi, è stato bello vivere la festa del calcio con voi.