Così diceva Mark Twain, immagino dopo aver fatto tutti gli scongiuri del caso. Succede, che a volte si dipinga il futuro più nero di quanto sia, succede che la vista del presente tagli completamente le gambe all'ottimismo. Però c'è un'altra morte che è stata ampiamente esagerata e comunque data prima del tempo: quella del giornalismo.
Che è un po' un ritornello di questi tempi, come se la crisi dovesse essere un tunnel che non finisce più, come se con la fine dei gironali di carta (ma finiranno) rimanesse solo il chiacchiericcio di blog e social network, come se la società dell'informazione, così la chiamano, non avesse bisogno di lavoratori dell'informazione.
Per fortuna ci sono libri come questo di Nicola Bruno e Raffaele Mastrolonardo che sanno guardare oltre, non volando sulle ali di qualche bella teoria della comunicazione, ma andando semplicemente in giro, da bravi giornalisti, a vedere quello che nel mondo già si fa e si tenta.
Il titolo del libro, magari, intriga ma non rassicura: La scimmia che vinse il Pulitzer. Che poi non è nemmeno vero, il verbo casomai va girato al futuro e il soggetto non è una scimmia, è un sofistificato software in grado di sfornare cronache di partite di baseball per conto suo. Non rassicurante certo, anche se poi si parla di reporter che si inventano siti per smascherare le bugie dei politici, di ragazzini capaci di battere sul tempo le più grandi agenzie, di piattaforme di giornalismo partecipativo in grado di raccontare l'Africa che nessuno vuole vedere, di hacker che aprono una nuova era nella cronaca investigativa, magari approdando in un'isola, l'Islanda, che un giorno ricorderemo non solo per i vichinghi ma anche per la sua lezione di libertà.
Sì, forse si può pensare al momento in cui la parola crisi potrà essere sostituita dalla parola transizione. Malgrado gli editori, malgrado quanti si definiscono tali e a volte non lo sono nemmeno di lontano.