MOSTRE MILANO: MARIO DE LEO – Circuito lirico – Spazio Tadini dal 1 al 26 marzo 2014

Creato il 20 febbraio 2014 da Spaziotadini

PERSONALE DI

MARIO DE LEO

Sabato 1 marzo inaugurazione ore 18.30

IMPOLLINAZIONE SONORA 2013 cm 150×2201MACCHINA SILENTE 2013 cm 100×80PUNTI ASCENSIONALI 2012 cm 60×80PUNTI ASCENSIONALI 2010 cm 50×40

 Apertura da martedì a sabato dalle 15.30 alle 19

A cura di Claudio Rizzi e con la partecipazione di Moni Ovadia

Mario De Leo, artista e musicista è alla sua terza mostra presso l’associazione culturale Spazio Tadini (vedi le sue esposizioni con e a Spazio Tadini). In questa esposizione presenta anche dei manufatti in ceramica realizzati con Tiziana Rizzi. La serata inaugurale vedrà la messa in scena di una composizione inedita di Mario De Leo cantata da Marie Antonazzo accompagnata al pianoforte da Carlo Zerli per arrangiamento di Giancarlo Disnan.

Scrive del suo lavoro il critico Claudio Rizzi: “Graffiti incisi nell’anima come nel sasso. Scrittura di ritmo, metrica di poesia classica, di spartito musicale, di passi reiterati nella sequenza delle generazioni. Presente e passato, nord e sud, concreto e fantastico, quasi una linea continua di unico circuito lirico, si avvicendano e ritornano, dagli albori del mondo all’era tecnologica, rinnovando cammino, scoperta e ascolto. Testimonianza della realtà contemporanea e ritratto della natura umana, unica e immutabile, radicata alla terra e alla grandiosità del cielo”. Mentre il suo amico Moni Ovadia scrive: La conoscenza e l’amicizia che mi legano a Mario de Leo superano l’età di quattro decenni. Ci siamo  incontrati e riconosciuti nella comune passione per il linguaggio artistico, per la sua naturale dotazione nell’esprimere la pulsione irrefrenabile alla ricerca dell’umano nelle sue aspirazioni, ad esistere al di là della sopravvivenza. Ad esprimere e a farsi verità  nell’anelito alla giustizia,  all’uguaglianza, alla pace ( …). Quella pace, che sembra così lontana, nell’opera d’arte “impollinazione sonora” diviene un messaggio urgente auspicato dalla lingua del segno grafico-pittorico-materico che si offre come una nuova tavola dell’alleanza fra le genti”.

TESTO DI MONI OVADIA – L’impollinazione di Mario de Leo suona la pace

 La conoscenza e l’amicizia che mi legano a Mario de Leo superano l’età di quattro decenni. Ci siamo  incontrati e riconosciuti nella comune passione per il linguaggio artistico, per la sua naturale dotazione nell’esprimere la pulsione irrefrenabile alla ricerca dell’umano nelle sue aspirazioni, ad esistere al di là della sopravvivenza. Ad esprimere e a a farsi verità  nell’anelito alla giustizia,  all’uguaglianza, alla pace. De Leo ha fatto un lungo, lungo cammino, un’ininterrotta navigazione alla ricerca della propria cifra e di tutte le sue risonanze. Oggi nello spettro delle sue creazioni  approda al tema della pace per dedicare ad una pace agognata e difficile, la pace fra Israele e la Palestina  una delle sue ultime opere. Quella pace, che sembra così lontana, nell’opera d’arte “impollinazione sonora” diviene un messaggio urgente auspicato dalla lingua del segno grafico-pittorico-materico che si offre come una nuova tavola dell’alleanza fra le genti.

TESTO DI CLAUDIO RIZZI – CIRCUITO LIRICO

Restano, come i segni incisi nella tela, come le note di una colonna sonora, le tracce del tempo e dell’origine. Come i muri di pietra a confine dei campi, il territorio, la proprietà, terra e vita.Risuona l’eco suadente di luce fredda sospinta dal vento, di voci dal mare disperse tra fronde di ulivi.Le pagine iscritte nel quadro sono forse archetipi di antiche leggi, codici di tradizione per il viaggio nel destino. La liturgia del Sud, la rotta di mare e di terra, l’approdo, il Nord, la scoperta. Un percorso costellato di immagini, la diversità, stupore e distacco. Mentre sale la marea del nuovo e tutto muta, territorio, suoni e persino parole, affiora nell’animo la radice della memoria. E, consapevole o inconscio, il pensiero custodisce i valori primordiali, per non destabilizzarli in altro contesto, per non perdere misura e orientamento. Per amalgamare la sintesi difendendola dall’urto della velocità. Quel viaggio, da Sud a Nord, negli Anni ’60 di un secolo pur tanto vicino, comportava un’immersione rapida non solo attraverso le differenze geografiche ma nelle strutture di un mondo ove la velocità era arrivata prima. E il gesto meccanico della vita si contrapponeva al ritmo naturale dell’esistenza. Il tram di operai in fabbrica e il contadino con l’asino nei campi. Anche questo era nuovo paesaggio. Punti ascensionali. Chissà se questo titolo ricorrente nelle opere di Mario De Leo si riferisce al viaggio, alla tensione estetica oppure ai gradini di una scala infinita che sale alla scoperta dell’ignoto. Certo è che i punti ascensionali possono sottintendere l’anelito esistenziale del loro artefice. Ascendere significa più di salire. De Leo non cercava il Nord ma una cima favorevole alla visione prospettica. E durante l’ascensione sostava talvolta per osservare attento, senza mirare la meta ma guardando anzi l’origine. Tornavano le immagini di casa, di campagna, il capanno degli attrezzi. E di attrezzi è ancora pieno oggi lo studio per elogiare il rito della manualità e il sapore del lavoro. Manufatto è parola frequente nel dialogo di De Leo, è significativa nel connubio tra radice e attualità. Negli Anni ’70 risuona nel brusio della città il ticchettio metallico dei centri meccanografici. Era il nuovo orizzonte della contabilità, il massimo dell’epoca moderna. Una macchina grande e grossa, con aghi appuntiti, bucava schede di cartoncino e i buchi traducevano cifre, codici, parole. Quelle schede ben presto furono pensionate da una nuova generazione di piccoli mostri chiamati circuiti prestampati. Nel frattempo il vecchio era gettato alle ortiche e si inventava il termine rottamazione, simulando di agevolare il nuovo per il benessere comune ma ben sapendo che con i rottami si facevano soldi. De Leo non fece soldi ma opere. Sculture, quadri, oggetti che non intendevano chiamarsi installazioni ma possedevano l’ironia della provocazione culturale. Lui che aveva dipinto le figure amazzoniche, prototipi o progenitori di umanità incontaminata, non poteva rendersi complice della negazione e del rottame, anzi ne divenne antagonista per recuperare e rigenerare a nuova dignità. Nacquero così totem, figure, macchine della suggestione per testimoniare un viaggio a ritroso, per ricondurre la tecnologia, opera dell’uomo, a manufatto, a simbolo antropomorfo, a rivisitazione cibernetica. Eppure De Leo sapeva che il mondo veleggiava verso e con la tecnologia. E con grande rispetto ne ha interpretato il senso e l’emblema, ne ha adottato essenza e codici, poi l’ha presa per mano e condotta in un percorso ascensionale. Così la comunicazione fredda e quasi sincopata di un breve tweet è divenuta “lettera cosmica” e gli strumenti funzionali si sono tramutati in “circuito estatico”. Una lettera si scrive a qualcuno: se è cosmica è indirizzata al mondo, è un appello, una preghiera, densa di coralità, ben più della semplice missiva colloquiale e privata. Parla a tutti, ascoltata forse anche dalla luna. Un circuito è autonomo, si compone di elementi, connessioni, rapporti di interazione per generare un effetto. Ma improvvisamente l’insieme si ferma e va in estasi. Non in tilt, ma in contemplazione del sublime. “Circuito estatico” è la nobilitazione dei sentimenti che la tecnologia non possiede, eppure, per un attimo, tutto si colora d’immenso. E come l’uomo un tempo tratteneva emozione e parole al cospetto dell’opera d’arte, così il computer si astrae per ascoltare inattesi moti dell’animo. Suoni profondi, lontani, eco di terra e d’antico. Segni di natura mutata nel tempo, tradotta nelle epoche, oggi scritti digitati a monitor, una volta graffiti di pietra. “Graffiti sonori”, di parola e di musica, l’altra metà del mondo di Mario De Leo, musicista dedito alla tradizione e alla rivisitazione etnica. Voci delle genti, canzoni del ricordo, confessioni del cuore nella lontananza, nel viaggio, nello stacco della velocità. Altro lato della solitudine, come l’estasi, il silenzio, l’intimità. Graffiti incisi nell’anima come nel sasso. Scrittura di ritmo, metrica di poesia classica, di spartito musicale, di passi reiterati nella sequenza delle generazioni. Presente e passato, nord e sud, concreto e fantastico, quasi una linea continua di unico circuito lirico, si avvicendano e ritornano, dagli albori del mondo all’era tecnologica, rinnovando cammino, scoperta e ascolto. Testimonianza della realtà contemporanea e ritratto della natura umana, unica e immutabile, radicata alla terra e alla grandiosità del cielo.

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