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Movimento 5 Stelle: il futuro dei grillini in fuga

Creato il 12 luglio 2013 da Tafanus

Espulsi. Dissidenti. Delusi. Sondaggi in sensibile calo. La crisi del M5S ai raggi X. Ecco chi se ne va. E perché
(di Tommaso Cerno E Susanna Turco)
 
Grillo-federalePasserà. Questa è la parola d'ordine di Beppe Grillo. Il can can passerà. E le espulsioni del M5S, con relative polemiche, sembreranno acqua passata. Ora che hanno celebrato il Restitution Day sventolando l'assegnone da 1,5 milioni di euro, restituiti allo Stato, anche i fedelissimi del guru sembrano più tranquilli. La soddisfazione, il ritorno mediatico compensano la sensazione di fuga di massa dal M5S che aveva tenuto banco nelle scorse settimane. Eppure la tregua è armata. E, stando ai boatos parlamentari, fra dissidenti, espulsi e grandi corteggiatori è già pronta una seconda manche a fine estate. Per minare le fondamenta del movimento e prendersi il numero di onorevoli necessari per tenere sotto scacco Silvio Berlusconi. Anche stavolta il terreno di scontro saranno i "soldi". Il vil denaro di Roma Ladrona. E così si aspetta il prossimo "Restitution Day", intorno al quale in stile resa dei conti finiscono per esplodere - come si è già visto - le tensioni pentastellate. Nel frattempo, mentre il gran capo gioca ad "appuntamento al buio" col Quirinale, nel Movimento i cosiddetti "dialoganti", i deputati e senatori più aperti a un asse con il Pd, cercheranno di divenire maggioranza nei rispettivi gruppi parlamentari: ciò che sinora, schiacciati dalla volontà dei "talebani", non sono riusciti ad essere. E i dissidenti intanto si faranno i loro conti sul partire o restare: nessuno di quelli ancora in bilico se ne è andato, ma nessuno ha ancora sciolto la pratica, da Alessio Tacconi a Tommaso Currò.
RISCHIO FRANA - Del resto, sul fronte dell'emorragia parlamentare, c'è ancora molta strada da fare. L'ha detto Beppe Grillo, all'indomani del glorioso risultato delle politiche di febbraio, fissando nel «10-15 per cento» la percentuale di moria parlamentare che era attesa e messa nel conto.Tradotto in cifre: tra i 16 e 24 parlamentari sui 163 neoeletti a Cinque stelle. Una previsione che, peraltro, sarebbe perfettamente nella media: nella scorsa legislatura, che ha brillato per fregolismo, i transumanti parlamentari hanno raggiunto la quota record di 160, quasi il 17 per cento dei circa 950 eletti; e tra il 2001-2006, i transfughi erano stati un centinaio, dunque poco più del 10 per cento.Insomma, all'avverarsi della ragionevole previsione mancano ancora molti "traditori", e anzi il meglio (si fa per dire) deve ancora venire, visto che sino ad oggi i gruppi parlamentari di M5S, tra fuoriusciti e cacciati, hanno perso soltanto sette parlamentari.
Eppure, se Beppe Grillo continua con la strategia del "duri e puri", certo che sarà apprezzata dagli elettori, un sondaggio di Demopolis per "l'Epresso" mostra un rovescio della medaglia. Fra gli elettori grillini, infatti, il giudizio sulle espulsioni è netto: il 52 per cento le ritiene sbagliate, un altro 15 per cento non si esprime. Solo un terzo del popolo grillino, insomma, condivide la strategia del capo. Con un problema in più, la tempistica: dall'insediamento delle Camere sono passati solo tre mesi e mezzo e, a questo ritmo di fughe ed espulsioni, si arriverebbe all'avverarsi della profezia entro l'anno di legislatura. Senza considerare i rischi da effetto valanga, che tende a trasformare i dissidenti in fuoriusciti, e i pontieri in dissidenti, lasciando sostanzialmente immutata giusto la categoria dei fedelissimi o "talebani" come usa dire fra loro. Il rischio, insomma è che dall'"uno vale uno" al "ne resterà soltanto uno" il passo sia troppo breve. Anche perché iniezioni da altri partiti sono inimmaginabili. E per quanto il lavorio parlamentare abbia appena raggiunto la soglia psicologica delle cento proposte di legge, i risultati politici non brillano.
BEPPE, ADDIO - Così, a tenere banco, sono soprattutto gli addii. Uno degli ultimi è quello che ha fatto più scalpore: Adele Gambaro, senatrice di Bologna, vicina al già espulso Favia (come del resto tutta l'area emiliano-romagnola), è stata buttata fuori per aver rilasciato una intervista a Sky in cui diceva che «il problema è Grillo» e i «suoi post». È stata accusata di «azione lesiva dell'immagine e dell'attività del movimento», il voto su di lei è diventato un voto sulla lealtà al capo. E dopo molte riunioni, liti e polemiche, nonostante gli appelli dei parlamentari in suo favore, è stata accompagnata alla porta. Ma il voto dell'espulsione ha mostrato la fatica del Movimento nel destreggiarsi nel clima di caccia alle streghe. In Parlamento, ci sono stati ben 42 no, 9 astenuti e una trentina di assenti; e sul Web - dove appunto la maggioranza dei militanti è contraria alla politica delle espulsioni - la partecipazione è stata fiacchina (su 48 mila aventi diritto, hanno votato in 19 mila, meno della metà) ed è finita con un magro 65 per cento pro cacciata. Tutt'altra musica rispetto a quando, a fine aprile, la Rete si era pronunciata su Marino Mastrangeli, buttato fuori con una rotonda "quota novanta" di sì in Rete. Lui, peraltro, 51 anni, di Cassino, dipendente in quiescienza del ministero dell'Interno, ghandiano per autodefinizione, affezionatissimo all'idea di una specie di repubblica del televoto, era finito nel mirino per molto meno: s'era fatto "ripetutamente" intervistare in tv, da Barbara d'Urso in specie. Che orrore per i grillini. Il caso Gambaro, invece, ha fatto da apripista al dissenso: nel giro di una settimana se ne sono andati volontariamente in tre. La senatrice trevigiana Paola De Pin ha lasciato il gruppo per «solidarietà» alla ex collega, protestando contro la «gogna mediatica» e in generale l'aria «troppo pesante». Poi è stato il turno del già scalpitante Adriano Zaccagnini, esperto di permacultura (progettazione di ambienti in cui coesistano lo sfruttamento umano e l'equilibrio naturale), spesso critico con le scelte di Grillo, che ha levato la pelle al movimento in venti minuti di conferenza stampa d'addio: tra le accuse rivolte ai Cinque stelle, «strategia del terrore», «movimento aziendalista», «Berlusconismo 2.0», «clima irrespirabile», «caccia alle streghe». Insomma: «Invece che la rivoluzione hanno fatto la strategia della tensione».
Quattro giorni dopo, è toccato a Fabiola Anitori, romana, senatrice, fino a quel momento silente: ha detto di «non riconoscere più l'impostazione iniziale dei Cinque stelle», «diventato un partito personale, con un sistema feudale». Gira gira, la motivazione dell'abbandono è sempre la stessa: non è consentito dissentire, e «ogni opinione diversa viene etichettata come tradimento o inciucio». Le critiche sono pesanti, comunque, e lontane anni luce da quelle dietro cui si erano trincerati i primi due fuoriusciti, i tarantini Vincenza Labriola e Alessandro Furnari, spiegando che il movimento aveva «voltato le spalle a Taranto e al dramma dell'Ilva».
IL COLORE DEI SOLDI - Ma sotto c'era molto di più già allora, se Furnari, appena fuori dai Cinque stelle, spiegava: «Il movimento imploderà, è solo questione di tempo, noi siamo solo i primi». E se a quanto pare per il momento ci sarà la quiete il prossimo si è già autodesignato («forse sono io il prossimo»): Alessio Tacconi, deputato da Zurigo, unico eletto all'estero, già sotto tiro perché fautore del «dialogo con altri partiti», finito definitivamente nel mirino per aver fatto bizze sull'annoso tema della diaria («con solo 5 mila euro lordi io con la mia famiglia a Zurigo non ci campo»), ha per stavolta fatto il suo bonifico, riservando l'uscita al prossimo Restitution Day.

Quello dei soldi, in specie della diaria, è come se fosse il binario sul quale da ultimo viaggia il dissenso politico, così come fino a poco fa viaggiava sulla possibile alleabilità al Pd: chi prima era accusato di «inciuci», adesso è accusato di volersi tenere gli schei. Chi prima difendeva il proprio diritto al dialogo con gli altri partiti, adesso che il tema delle alleanze si è raffreddato, difende il proprio diritto a tenersi la quota di stipendio che ritiene. E, infatti, se Tacconi non manca di criticare l'allineamento imposto («qui per non sbagliare bisogna stare fermi e zitti»), il dissidente della prima ora Tommaso Currò, un altro in bilico, si è messo a difendere il diritto di fare un bonifico più basso degli altri. E intorno ai nuovi ribelle cresce un'area grigia, silenziosa, ma critica verso i dogmi del capo.Dai pontieri come Giulia Sarti, a deputati come Walter Rizzetto o Aris Prodani, o ancora Tancredi Turco, Elena Fattori e Francesco Molinari, dati da molti cacciatori di teste dei partiti tradizionali come «possibili tranfughi» di domani. Fuoriusciti e fuoriuscendi, comunque, tutti accusati di questa specie di tirchieria, o ansia di arraffo. È capitato anche alla deputata Paola Pinna: subito dopo le sue critiche pesanti all'aria da «psicopolizia» che c'è nel movimento, il suo profilo su Wikipedia è stato oggetto di varie modifiche (poi cancellate) che tentavano variamente di aggiungere il seguente concetto: ha tradito la fiducia degli elettori in nome della diaria. Un'insistenza che tradisce un'ossessione (i soldi) del tutto impermeabile alla obiezione che sempre più spesso viene rivolta ai M5S: teneteveli, i soldi, ma fate il lavoro di parlamentari per cui siete pagati.
«Stiamo facendo grandi cose in commissione, di cui pochi si accorgono perché i giornali scrivono solo di presunti litigi», è la risposta di prammatica, data in questo caso dal deputato tarantino Cosimo Petraroli. Già, perché in tante discussioni e psico riunioni di autocoscienza, l'unica cosa che resta sempre ferma è la prima linea. Quella dei Roberta Lombardi e Vito Crimi prima, e degli attuali capigruppo Riccardo Nuti e Nicola Morra adesso. Tutto regolare, tutto previsto, nessun problema di democrazia interna. Anzi, i fedelissimi come Paola Taverna, Alessandro di Battista, o Roberto Fico, dell'uscita delle «mela marce» sono addirittura contenti.
(di Tommaso Cerno e Susanna Turco - l'Espresso)

Espresso


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