Mr Ciak #22: Questione di tempo, Separati Innamorati, Carnage
Creato il 13 novembre 2013 da Mik_94
Ciao
a tutti, amici miei. Oggi, anche se a distanza di pochi post rispetto
all'appuntamento precedente con la rubrica, torno ad essere Mr Ciak e
a parlarvi di tre film che meritano moltissimo. Quindi, non
perdeteli. Tre film sui sentimenti – e sui sentimenti più
disparati – che vantano cast fantastici, grandi registi e piccoli
colpi di genio. Per una volta, potete – rullo di tamburi! -
trovarli tutti in italiano. Questioni di tempo è al cinema
dalla settimana scorsa e, mi raccomando, non perdetelo: altrimenti si
vede che non ci meritiamo Checco Zalone, mah! Separati Innamorati,
invece, è passato parecchie volte su Sky, mentre l'ultimo –
Carnage – non è propriamente una novità e anche sui canali
del Digitale Terrestre, precisamente su Iris, l'hanno dato più
volte. Io vi abbraccio tutti e vi do appuntamento ai prossimi giorni,
con la recensione di Il richiamo del cuculo. Lo sto leggendo
lentamente, con la speranza di godermelo come si deve. A presto, M.
La
moglie dell'uomo che viaggiava nel tempo, come molti lettori
ormai sapranno, è praticamente il mio libro preferito. Il mio libro
preferito in assoluto. Molti, quando mi domandano di cosa parli, si
sentono rifilare una risposta ambigua, ma che, secondo me, rispecchia
perfettamente il meraviglioso esordio della Niffenegger: quel
romanzo, infatti, è l'amore vero. Punto. E io, romantico in
incognito, amo l'amore. E amo i viaggi nel tempo. E' per
questo che so che avrei amato dal primo istante About Time –
Questione di tempo. Finalmente
l'ho visto e, come da programma, l'ho adorato senza riserve. Sarà
che a me questi film fanno sempre un certo effetto, bho. Anche Click
– con quello scemotto di Adam Sandler, infatti – mi aveva
emozionato non poco. Questa delicata e brillante commedia britannica
vive, respira, ride. Pulsa di ricordi, emozioni, gioie, dolori e
momenti irripetibili. Ha un cuore che pulsa e che batte, in cui
scorre, senza freno, vita pura. E poi fa ridere, ma tanto: adorabile,
adorabilissimo, adorabilerrimo. Mi
verrebbe voglia di fare un salto a ieri sera e di rivederlo tutto da
capo, come se fosse la prima volta; il primo colpo di fulmine.
Coglierei tanti dettagli, appunterei tante piccole perle, mi godrei
meglio ogni momento. Guarderei il protagonista e, con un moto di
riconoscenza, affetto e stima verso l'ex Bill Weasley, direi: Ah,
però. Guarda. Sono più bello io, quasi quasi! Domhnall
Gleeson, oltre ad avere un nome di battesimo impronunciabile, non è
bellissimo, vero. Alto, dinoccolato, magro come un chiodo. Ma è
convincente, bravissimo, fresco come un verde filo d'erba appena
raccolto. Nuovo, genuino, buono. Similissimo a me, con il suo fare
sbadato e insicuro che lo rende maestro di brutte figure; imperfetto,
con quelle mani che non sa mai dove mettere e quelle parole che, pur
essendo un avvocato dilettante, non sa dosare, e nemmeno un po'. Mi
lamenterei della presenza di Rachel McAdams e dei suoi ruoli sempre
uguali – vedi La memoria del cuore e
The Notebook, Un
amore all'improvviso e questo - ma vederla accendersi come per magia e illuminare il buio mi
ammutolirebbe all'istante: per questi ruoli è perfetta. Sarà merito
del suo sorriso bellissimo: uno dei più incantevoli di tutta
Hollywood... uno dei più dolci del mondo. Mi perderei sulle note
della delicata How Long Will I love you dell'angelica
Ellie Goulding e mi stupirei nuovamente davanti all'ingresso trionfale
di una sposa in rosso, con Il mondo di
Jimmy Fontana come marcia nuziale e una pioggia da antico testamento
a far volare addobbi, fiori, vestiti; addirittura invitati. Mi godrei
la regia aggraziata, matura e impeccabile del grandissimo Richard
Curtis, papà di Mr Bean e di gemme quali Love Actually e
Nothing Hill. Il tutto
sullo sfondo di un'Inghilterra grigia, piovosa, ma di uno splendore
raro e abbagliante. Questione di tempo si
avvale di una struttura che gioca con le ripetizioni, che fa
stringere i denti, inumidire gli occhi, vibrare le corde giuste.
Parte come una commedia brillante e originale e, nella seconda parte,
vira verso il film sentimentale, ma con una naturalezza che lascia
storditi, meravigliati. Senza fiato. Le cose capitano e basta. Il
destino non si cambia: la persona giusta s'incontra, i veri amici
restano, i genitori vanno via, noi cresciamo anche se fuggiamo dalla
maturità e dal dolore a gambe levate. Bisogna vivere dell'oggi e del
domani, mai diventare schiavi di ciò che faceva parte del nostro
ieri. Mi ha ricordato un po' One Day:
stesso invito al carpe diem, stesso romanticismo fatto di mille
parole di troppo e di pochi gesti, stesso immancabile umorismo
british, stesse segrete verità. Basta un armadio per viaggiare nel
tempo. Basta un film per portarci lontanissimi dal pianeta terra.
Niente effetti speciali, niente magie: i miracoli della vita, i
miracoli dell'amore. I miracoli del buon cinema.
Questo
non è il solito film da cinema. E questo film, almeno da noi, al
cinema non ci è mai arrivato. Non
so quanta gente avrebbe richiamato in sala e non so la modesta
posizione in cui si sarebbe piazzato al botteghino. Perché, se il
titolo italiano promette una simpatica commedia romantica
all'americana, Jesse & Celeste Forever,
in realtà, è tutt'altro: un film sull'amore
che non diventa un film d'amore.
Tutto qui. Se non sbaglio, in Italia, il film dev'essere passato –
per la prima volta – su Sky, con il titolo Separati
Innamorati, nel tentativo
disperato di destare l'attenzione di un po' di pubblico: gli attori
non erano tra i più noti o amati del mondo e, soprattutto, gli
sceneggiatori avevano messo a punto una trama che portava ad essere
il loro film una strana creatura inclassificabile. C'erano la storia
di Ti odio, ti lascio, ti..., ma
l'amarezza struggente di Blue Valentine.
C'erano i sorrisi, ma la dura verità che faceva puntualmente
capolino giusto dietro l'angolo. C'era una trama che si sarebbe fatta
o amare o odiare, senza mezzi termini. Ho scritto che questo non è
un film da cinema, perché nessuno andrebbe a vederlo con gli amici
o, tantomeno, con la fidanzata di turno. Non si ride, non si piange,
ma si pensa. E per la riflessione, vi dico la verità, il salotto di
casa nostra mi sembra pensatoio più adatto di una sala strapiena. E'
il silenzio che serve, in giuste e dosate proporzioni. So che state
pensando: Ma gli italiani s'impegnano per trovare titoli
tanto brutti?! Separati Innamorati suona
stupido, discordante, paradossale. Ma Jesse e Celeste sono
esattamente così, per me: stupidi, discordanti e paradossali allo
stesso modo. Si divertono come vecchi amici, si stuzzicano, cantano a
squarciagola in macchina con complicità e armonia, vivono più o
meno nella stessa casa, si salutano ogni mattina e ogni sera con un
sonoro Ti Amo. La
coppia perfetta, e invece no! I nostri protagonisti non stanno più
insieme da un bel po'. Si sono conosciuti all'università, si sono
sposati e, con un solo balzo, hanno saltato la temuta crisi del
settimo anno: non ci sono mai arrivati. Si sono separati prima e
adesso, come se nulla fosse successo, con le carte del divorzio
ancora da firmare ufficialmente, sembrano vivere un secondo,
platonico innamoramento. Sembrano amarsi più di prima, senza più il
matrimonio – tomba dell'amore? - ad unirli. Loro sono felici e per
nulla confusi da quella strana situazione, ma non tutti capiscono il
gioco infantile a cui stanno giocando senza stancarsi mai. I loro
amici di sempre, a un passo dal commettere il loro stesso errore
(sposarsi!), li invitano a cominciare a vivere nuove vite, a
incontrare nuova gente. Jesse e Celeste si promettono che non ci
saranno gelosie, rimpianti, scenate patetiche; si promettono che
rimarranno amici. Fino a quando uno dei due si scoprirà felice
accanto a un'altra persona e l'altro, colui che rimane, cercherà in
tutti i modi di trovare, a sua volta, la stessa felicità perduta: in
una sorta di stupida gara da bambini già persa in partenza. Separati
innamorati è una commedia
indipendente atipica, onesta, realistica e agrodolce. Una commedia
americana spogliata di ciò che tanto piace alla gente: un lieto
fine, uno svolgimento ovvio, un amore riconquistato a suon di grandi
ed eclatanti gesti, romanticismo. E' la vita – quella vera – non
contemplata dalle sceneggiature odierne. Tutto è retto da lunghi
dialoghi e, anche senza l'ausilio di flashback banali e fumosi, gli
attori sono tanto bravi da lasciar percepire cos'era di quella coppia
prima dell'avvento imprevisto e drammatico del “disinnamoramento”.
Tutto è molto ordinario e tutto è molto originale, come la scelta
di non affidarsi ad attori apparentemente nati per quei ruoli:
Rashida Jones e Andy Samberg non sono i bellissimi Zooey Deschanel e
Joseph Gordon-Levitt, no, eppure sono perfetti così, nella loro
imperfezione. Sorprendenti. Perché lui, con quella faccia da scemo
che mi fa sempre ridere in Brooklyn Nine-Nine,
sa essere sorprendentemente intenso, dolce, sensibile, serio. Perché
lei, vista accanto allo stesso Samberg in I love you, Man,
sa essere spietata, inerme, allegra, triste, umana. Significative le
preziose comparse di Elijah Wood e Emma Roberts, due strane figure
che orbitano, con la loro allegria e le loro debolezze, attorno ai
frantumi del cuore di Celeste: lui, nei panni di un frivolo e
volgarotto amico gay; lei, una delle attrici più convincenti e
complete della sua generazione, nei panni, invece, di una pop-star
preoccupantemente simile a Kesha. Per ricordare che l'amore è anche
altro, e non una sdolcinata commedia di Garry Marshall. Per ricordare
che l'amore – alla fine – è anche questo casino qui...
Brutta
bestia, i critici cinematografici. Tra me e loro, solitamente, c'è
un tacito patto: siamo d'accordo, infatti, sul fatto che non andremo
mai d'accordo. Mai, o quasi. Più esaltano un film, più stento a
farmelo piacere. Più tessono le lodi smaccate di un regista, più
tendo a trovare ostici e oscuri i film di questi cineasti tanto amati
universalmente. Ma, mentre Kubrick è un mistero che ancora non
capisco come risolvere e la Coppola è – per me – ancora la
regina incontrastata di pellicole pretenziose e sopravvalutate, il
rapporto con un altro mostro sacro del cinema, Roman Polanski, ha
conosciuto i suoi momenti decisamente positivi. Carnage
è uno di questi momenti positivi; un film che mi è piaciuto, sì.
La staticità mi snerva, la monotonia logora ogni mia resistenza e –
con chissà quali pregiudizi – ormai due anni fa, nel 2011, non
misi in cima ai film da vedere l'ultimo lavoro del regista di Il
pianista, La nona porta, Rosemary's Baby. Non
c'era niente che mi attirasse. Non quattro attori grandissimi
rinchiusi tra le quattro mura di un appartamento piccolissimo. E poi,
vista la mia tipica sfiga, avevo scommesso che il film sarebbe durato
la bellezza di tre, quattro ore. In due anni sono cambiate tante
cose, e sono cambiato un po' anch'io. Dopo averlo nominato in una
lezione di Storia del cinema e su consiglio della mia fidata amica
Silvia, mi sono seduto in poltrona – una domenica sera – e mi
sono dedicato alla visione di questo film. Un film piccolo, che –
con mia grande gioia e sorpresa – durava appena un'ora e sedici. Un
film d'autore. Tralasciando la prima e l'ultima scena, ambientate nel
verde di un parco newyorkese, tutto il resto si svolge tra il salotto
e la cucina, il bagno e l'ingresso di un appartamento arredato con
classe e gusto. Due coppie di genitori hanno deciso d'incontrarsi lì,
davanti un caffé e un pezzo di torta, per parlare dei loro figli
turbolenti: uno di loro, infatti, ha spaccato una mazza di legno sul
viso dell'altro, rompendogli labbro e denti. Che disdetta! Cose che
capitano, tra bambini svegli! Per fortuna, tra persone civili, tutto
si può risolvere, con un richiamo o un semplice ammonimento. Tra
persone civili, però... Dietro i loro sorrisi bianchi, i loro
vestiti cuciti alla perfezione, il loro fare lezioso, quei quattro
adulti per bene sono pronti a far esplodere in mille pezzi le loro
maschere fasulle. Sono, in realtà, belve in incognito. Polanski
porta sul grande schermo Il dio del massacro,
una commedia della scrittrice Yasmina Reza, e lo fa mescolando
orrore, ironia, inquietante realismo. Il suo film è una bomba ad
orologeria, i cui disastrosi e stranamente comici effetti sono
praticamente assicurati. Fa uno strano effetto, regala sensazioni
completamente contrastanti: fa ridere, fa pensare, lascia attoniti,
spesso. In questo gioco di vizi privati e pubbliche virtù,
in questa foto della moralità e dell'immoralità borghese, si
lasciano guardare ad occhi sbarrati quattro attori meravigliosi.
Credibili ed incredibili, convincenti e sconvolgenti: Jody Foster,
Kate Winslet, Christoph Waltz, John C. Reilly. Tutti li conosciamo,
tutti li associamo sempre ai ruoli che li hanno resi grandi. Eppure
la Winslet non è più l'angelica fanciulla di Titanic;
la Foster – la più grande del cast, per me – non è la
coraggiosa psicologa di Hannibal Lecter;
Waltz non è il soldato cattivo di Bastardi senza gloria o Reilly il fedele e sciocco Amos del musical Chicago.
Sono quattro pazzi furiosi, senza freni e senza grazia. Quasi senza
copione. Mitici loro, incredibilmente affascinanti le alleanze e le
gelosie che – in poco tempo – si creano tra le coppie. Carnage
è una commedia teatrale, tesa, nerissima, grottesca eppure
realistica. Un horror in abiti borghesi con prove attoriali da Oscar.
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