Mr Ciak #27: Her, I segreti di Osage County
Creato il 29 gennaio 2014 da Mik_94
Ciao
a tutti, amici. Oggi, con Mr
Ciak, una parata di stelle. Un appuntamento da Oscar. Letteralmente. Vi
parlo, infatti, di due film in lizza per il più ambito dei premi. I
segreti di Osage County –
da domani al cinema, non perdetelo – e Her,
in arrivo solo a marzo, purtroppo, da noi. Esprimo le mie preferenze,
visto che ci siamo. Tifo per la Roberts.
Ovviamente, tifo anche per la Streep, ma penso che – per un soffio
– le ruberà il premio la pur sempre bravissima Cate Blanchett. In
quanto a Her... Non penso che l'ottimo protagonista vincerà, ma i premi
per la miglior sceneggiatura e per la colonna sonora originale – a
mio avviso – sono suoi: io opeterei anche per il miglior
film,
ma io sono io. Un abbraccio a tutti e a presto, M.
Lui
scrive lettere per lavoro. E nessuno scrive più lettere.
Lui
e lei
parlano. E nessuna coppia sa parlare più per davvero.
Vivono
di parole, loro
due, e attraverso le parole. Quelle la cui importanza è andata
perduta, quelle che il vento ha portato via, quelle che il web ha
tratto in salvo tra le maglie strette della sua rete preziosa.
Theodore Twombly, il protagonista, passeggia all'ombra di uno skyline
che non riconosciamo. Gioca con videogame che sono avanzatissimi e
intelligenti ologrammi interattivi. S'innamora follemente del
processore del suo portatile. Vive in un mondo di fantasia e quella
di Jonze è una piccola cartolina dal futuro, arrivata con largo
anticipo, da poste – magari – in cui non sarà più necessario
fare la fila e litigare con le annoiate impiegate di turno. Eppure
questa è una storia all'antica, costruita secondo un alfabeto che
non passa mai di moda e attraverso l'elementare sintassi del cuore
umano. Spike Jonze è bravo con le immagini, ma è ancora più bravo con le parole.
Her è,
infatti, un geniale, toccante e delicatissimo paradosso: in un futuro
ipertecnologico, preferisce le lettere – anche se dettate a un
computer con il compito di metterle nero su bianco – agli sms, alle
email, ai Tweet. Lettere, quelle romantiche, appassionate,
autentiche, che nessuno, purtroppo, è solito scrivere più. Her
è
una lunga lettera aperta, una dichiarazione d'amore a una donna mai
nata e a una relazione mai esistita. Un duetto di grandi voci passate
alla radio. Anche visivamente, questo è un film che colpisce. Per
quei realistici e sorprendenti effettivi visivi: così inusuali per
una commedia malinconica su un malinconico individuo e una
malinconica città. Ma avrebbe potuto essere anche un film... cieco.
Come l'amore tra Theodore e Samantha. Proprio così, cieco:
una nuova etichetta, inventata dal sottoscritto, tutta per Jonze. The
Artist
era il ritorno al muto: si parlava con i volti, con l'espressività
del primo piano. Her,
più che vederlo, lo senti. Perché il protagonista non può vedere
la donna che ama, ma la sente, sì. L'ha cercata quando era solo e
depresso. E lei l'ha fatto ridere, emozionare, sospirare; l'ha
cullato dolcemente e, con la stessa voce, gli ha offerto una strana e
sensuale notte d'amore. Theodore è circondato da donne, nella sua
vita ci sono troppe “lei”. Ha un animo sensibile, da ragazza.
Sarà per questo che non riesce a farsi amare con facilità. Una lei
– Rooney Mara – l'ha lasciato. Un'altra lei – Olivia Wilde –
gli ha chiesto quello che lui non poteva darle. Un'altra ancora –
un'incantevole Amy Adams – gli ha fatto compagnia, come amica.
Scarlett Johansson è l'ultima lei. Quella del titolo. Una voce e
basta. E' sexy, è amichevole, è viva e Scarlett, paradossalmente,
non è mai stata tanto brava ed intensa. Lei non doppia, recita. Non
ha la voce perfetta di chi doppia film per professione: il suo timbro
è ruvido, maturo, unico. Sembra sempre che si sia appena svegliata
da un lungo sonno, o che abbia appena pianto. Non si mostra nemmeno
per un attimo, ma sa farsi guardare lo stesso. Ho letto un commento
che mi ha fatto parecchio sorridere: “La
Johansson che non mostra le tette?!”. A
parte che non le ha mai mostrate, ma è così brava che ti fa vedere
pure quelle, e tutto quello che c'è da vedere. Quando smette di
parlare, ti spezza il cuore. Ti senti solo come un cane. Più solo di
prima. Grande protagonista un grande Joaquin Phoenix: spontaneo e
convincente, con i suoi occhialetti da intellettuale, i capelli
spettinati, la barbetta sfatta. Lo immaginavo come un impiegato
insoddisfatto pieno di nevrosi, solo e disperato. Vagamente patetico.
Invece, Phoenix va oltre. Fa del suo personaggio un romantico, un
incallito sognatore, un Romeo a metà. Lui fa vedere il mondo a
Samatha, lei insegna a vedere il mondo a lui. Tra loro, una storia
d'amore bellissima come lo sono tutte le storie d'amore impossibili. Una barriera insormontabile
a dividerli – la realtà stessa – ma i momenti familiari di una
coppia normalissima, che ha un suo inizio, un suo svolgimento, una
sua fine, con tanto di sesso, gite, gelosie, amicizie comuni a
carico. Immensamente immensa la colonna sonora, che, tra l'altro,
prevede anche un brano cantato dalla stupenda Scarlett. E la colonna
sonora di questo film non stupenda non poteva non esserlo. Samantha
ha grandi sentimenti e, ovunque si trovi, li esprime componendo
melodie. Le stesse che ascoltiamo per tutto il film, come leitmotiv.
E' uno di quei pochi casi, inoltre, in cui la visione in lingua è
d'obbligo. Io amo i nostri doppiatori, ma, con il doppiaggio,
verrebbe meno l'interpretazione incredibile (e invisibile) di
un'attrice in stato di grazia. Necessario, inoltre, spezzare una
lancia a favore della nostra Micaela Ramazzotti: sto leggendo
commenti stupidi, offensivi, inutili. La scelta dei nostri produttori
è stata presa, inutile girare il dito in una piaga che non c'è.
Trovo giusto l'aver dato la parte a un'attrice – che la Ramazzotti
piaccia o meno, e a me spesso piace – e non a una doppiatrice di
professione. Quello di Samantha è un ruolo che va reinterpretato da
zero, nell'edizione italiana. Il doppiaggio di una professionista
sarebbe fin troppo perfetto e sarebbe un errore, per me. La voce di
Scarlett è bella, perché è indescrivibile, fumosa, sua. Tra Lars
e una ragazza tutta sua,
S1m0ne
e il romanzo Tu,
per ora #persempre –
ma decisamente meglio – Her
è un film che mi preoccupava un po'. Non ero sicuro che mi sarebbe
piaciuto. Temevo qualcosa di sperimentale, cervellotico,
intellettualoide: una pellicola alla Gondry. Di Gondry, forse, ha i
colori accesi, la fotografia impeccabile, ma non l'artificiosità.
Jonez firma un piccolo capolavoro, pieno di saggezza e grazia.
Poetico, geniale, ed indipendente, senza essere ermetico, chiuso a
riccio. Un film raro, assoluto, da ascoltare e vivere in prima
persona. Un film raro sul Red Carpet di questo 2014, dove tutti fanno
troppo chiasso. Di Caprio e Scorsese urlano, la Blanchett e Allen
piangono e ridono come pazzi, la Streep e Wells si danno a strepitosi
e rumorosi virtuosismi, poi arriva – dal nulla – una commedia che
dice tutto, ma sottovoce. Wow.
La
famiglia è un disastro che costruiamo con le nostre stesse mani. E'
un pandemonio che, stranamente, desideriamo ci metta a soqquadro la
vita. E' una sostanza chimica pronta a infrangere la sua ampolla di
vetro e ad esploderci in faccia, se non leggiamo attentamente le
istruzioni, prima dell'uso. Chi non ha mai assistito a scenate
isteriche, con tanto di rivelazioni, piatti in frantumi, rancori
portati in superficie, pasti più fastidiosi dell'ortica? La famiglia
del Mulino Bianco è da lasciare alle pubblicità, ad Antonio
Banderas e alle sue galline tutte ubbidienti. La verità è brutta da
guardare, vergognosa da ammettere, noiosa da mostrare. Per fortuna
c'è chi ha fegato e, nel giorno più sacro e ipocrita dell'anno, non
si accontenta di mostrare cartoline riciclate in cui tutti sorridono:
a pochi giorni dal Natale, in America, è uscito
I segreti di Osage County,
diretto da John Wells – produttore, tra l'altro, dell'imperdibile
Shameless,
una pazza serie TV su un'adorabile famiglia di pazzi. Wells, sempre
con un piede in una pozza di follia e l'altro in un mare di cinismo,
porta sul grande schermo la pièce teatrale del premio Pulitzer Tracy
Letts, e lo fa potendo contare su un cast stellare e su uno script ai
limiti della perfezione: senza intoppi, senza pause, senza pudore. La
sua, infatti, è una commedia familiare al sapore di vetriolo. Nera
come il carbone, acidissima, squilibrata, eppure verissima:
un'autentica riunione di famiglia, lungo una tavola rotonda che
diventa un campo di battaglia all'ultimo sangue. I
segreti di Osage County è
uno scontro tra tre generazioni agli antipodi, una pellicola che
odora di grande teatro e brilla di grandi dive... il nuovo Carnage.
Si ride, si ci dispera, si urla come pazzi, si piange per
l'imprevedibile onda durto di brutte parole non misurate. Siamo in
presenza di una commedia borghese, realizzata negli interni di una
casa troppo grande e troppo vuota: le sequenze d'apertura ci
informano che ci troviamo nell'America del Sud. Fa troppo caldo per
avere dubbi di alcun genere. I turisti scappano, i campi si seccano,
ma alcuni ritornano. A volte, ritornano. La famiglia Weston si è
riunita a forza, per il funerale di un patriarca che ha tirato la
cuoia: si è suicidato, il nonno, come uno di quei poeti maledetti
che ha sempre ammirato. In occasione delle sue esequie, si
rincontrano sorelle lontane, generi nuovi e cognate vecchie, madri e
figlie ai ferri corti a dir poco. A capo tavola, Violet, che ha il
cancro alla bocca, fuma come un turco, spara generosamente proiettili
di malignità e che, come scusa, tira in ballo le pillole da cui
dipende: non sono loro a parlare, è la sua bocca feroce, impastata
di droghe, con tanto di prescrizione medica, e d'amarezza. Passa
dalle lacrime alle risate, da un'isterica gioia alla disperazione più
nera e lo fa con un'incredibile, sublime, naturale maestria che ormai
è assodata: le dà il volto Meryl Streep e, ancora una volta,
sempre, è da Oscar. Scende in campo lei e non ce n'è per nessuno:
perché la Streep è Dio, è una colonna portante dell'Academy, è
un'interprete degna non di una statuetta, ma della beatificazione. E'
un film fatto di virtuosismi, questo, è lei è la Maria Callas delle
attrici: una bravura che non è mai ostentazione, ma lucidissima
follia, potenza creatrice e distruttrice. Il suo personaggio è
tristissimo ed esilarante e, usciti dalla stessa penna, ci sono
personaggi altrettanto intensi e resi grandi da attori altrettanto
padroni della scena. Il set è come una tavola senza angoli e i punti
di vista si moltiplicano ogni volta: non c'è una sola scena madre.
Tutti sono protagonisti e tutti hanno diritto a una scena madre: a
una sfuriata violenta, a un colpo di scena, a un input vitale che non
li renda semplici macchiette. Nello stesso imperdibile film, l'attesa resurrezione del “mito”
Julia Roberts: finalmente in un film degno d'attenzione, giustamente
nominata agli Oscar. Per me, lei è sempre stata la ragazza della
porta accanto, l'attricetta da commedie romantiche: penso a Il
matrimonio del migliore amico,
mai a Erin
Brockovich.
Invece è più vecchia, più matura e, pienamente consapevole di sé,
riesce a tenere testa alle monumentali improvvisazioni di quel mostro
della Streep. Tra le attrici in lizza per il premio, la Roberts è la
più protagonista delle “non protagoniste”: ha i suoi personali
virtuosismi, ha le sue personali battute, ha un ruolo cardine in due
ore di tale peso e portata. Potranno risultare antipatiche, troppo
sicure, eccessivamente impeccabili, loro due, ma mostrano cos'è
recitare. Cosa significa versare sangue, sudore e lacrime su un
copione pieno di battute così memorabili. Il grande cinema è per i
migliori, e loro – soprattutto grazie alla stupenda Meryl - lo
sono. In questo film, in tutti gli altri. Soprattutto a Osage County.
Divertentissimo, struggente, emozionante, realista, brutale, corposo.
Tra il miglior – o il peggiore? - Polanski, il melò vecchio stile,
il Tornatore di Stanno
tutti bene.
Imperdibile. Un incantevole calvario.
Il
capitale umano (2/5): un film che ha fatto parlare tanto e bene
di sé. Secondo me, troppo. L'ultimo film di Virzì – regista di
cui ho adorato La prima cosa bella e Tutta la vita davanti
– è strutturato meravigliosamente, ma il risultato finale è
arrangiaticcio e scialbo. Lo stampo è televisivo, i personaggi sono
semplici caricature. Si parla della nostra Italia, con finta ferocia
e toni vaghissimi: è ambientato da noi, ma poteva svolgersi anche a
Londra, per quel che valeva. Tanto, stiamo tutti sulla stessa barca
che va alla deriva. Irritante Bentivoglio.
Last
Vegas (2,5/5): dopo Il grande match, arriva questa
versione di Una notte da leoni per pensionati. E che
pensionati: quattro grandi attori che, anche se in un film semplice e
divertente, si mostrano perfettamente all'altezza delle aspettative.
Sono autoironici, si prendono in giro, prendono parte a un film che
scorre piacevole, ma si dimentica. Tra anni e anni – spero per loro
che siano secoli – quando queste quattro stelle non ci saranno più,
magari, riguarderemo questo Last Vegas e ci emozioneremo un
po'.
Bad
Grandpa (3/5): in lizza agli Oscar per il miglior trucco, Bad
Grandpa è una commedia originale e esilarante, in cui il limite
tra genialità e idiozia non c'è. Il viaggio per l'America di un
nipotino sveglio e di un nonno oscenamente brontolone, in realtà, è
realizzato attraverso una serie di bizzarre candid camera legate tra loro,
fino a formare un racconto, capace di far ridere tanto e riflettere
sui lati di un'America che difficilmente viene mostrata. Il
protagonista – il mitico Johnny Knoxville della squadra di Jackass
– è irriconoscibile, ma idiota e simpatico come sempre. Ovvio!
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