Mr Ciak #28: Philomena, Nebraska, Dallas Buyers Club, Blue Jasmine
Creato il 15 febbraio 2014 da Mik_94
Buongiorno
a tutti, amici miei. Come state? Io continuo a lottare con la
Filologia, ma è quasi fatta, per fortuna. Dieci giorni precisi e
sono libero: addio sessione invernale. Oggi, con Mr Ciak, altra
parata di stelle, altro appuntamento dedicato alla vicinissima notte
degli Oscar – aspettatevi, inoltre, un post con i miei pronostici e i
miei preferiti in lizza, nelle prossime settimane. Quattro film
imperdibili, ma diversissimi tra loro. I primi due, per me, si
accontenteranno giusto di qualche premio minore: sono film
validissimi, ma quest'anno la concorrenza è immensa. Dallas
Buyers Club spero che, almeno, vinca due statuette: McConaughey e
Leto migliori attori, perché non c'è storia. Blue Jasmine,
inoltre, sicuro come il sole, farà guadagnare alla bravissima
protagonista un meritatissimo Oscar: io
tifo per la Streep, lo sapete, ma anche la Blanchett è una
fuoriclasse. Quali avete visto? Quali vedrete? E le vostre
preferenze? Un abbraccio a tutti, M.
Io
adoro i film coi vecchietti. E Judi Dench è una delle vecchiette più
adorabili, dolci e talentuose che ci siano. Mi ricorda la mia nonna.
Piena di rughe, di fragilità, di spine invisibili agli occhi. Questo
Philomena è un po' come loro. Una commedia agrodolce, che
pizzica e commuove, che racconta vecchie storie e immagina nuovi
inizi. La ricerca di un figlio perduto cinquant'anni prima, un
viaggio tra Irlanda e America che strappa qualche bella risata e
qualche bella lacrima. Pieno zeppo di amarezza, denuncia, eppure
ricco di sentimento, poteva essere un film più facile, un film più
strappalacrime, ma il regista – Stephen Frears – sceglie una
strada tutta sua. Tutta originale. Tra un diario di bordo e un album
dei ricordi, un'intervista lunga un film e un reportage, Philomena
è una storia vera struggente e intensa, dalla regia ottima e dal
temperamento assai british. Paesaggi nebbiosi, una natura appesantita
da umidità e rugiada, conventi pieni di lapidi come in un libro di
Dickens, quasi. Di inglese, inoltre, ha il pungente umorismo e gli
strepitosi interpreti, Judi Dench e Steve Coogan, impegnati nella
ricostruzione di una storia sconvolgente, ma immensamente piacevole
da seguire. Quella di orfani senza nome venduti all'America,
strappati a madri con pochi anni e troppi presunti peccati. Lui
unisce classe, una faccia da schiaffi, distacco e cinismo a un finto
cuore di roccia. Impara a essere il figlio che Philomena ha perso.
Lei, poi, è immensa: naturale, espressiva, bellissima. Gli occhi
come fiordalisi, le lacrime sempre dietro le palpebre, la battuta
sempre pronta. E' prolissa, con la tendenza agli spoiler, l'amore per
gli Harmony, il coraggio di una persona che ha perso tutto, ma non la
fede. Lei crede, lei perdona. Lei crede nel perdono. Una commedia
superba, dunque, con dialoghi impeccabili e un ritmo sempre
sostenuto. Un originale approccio – anche un po' naif - verso un
tema che crea ancora rabbia, ancora omertà. Una grande storia di
vita vissuta, che fa tenerezza, per poi spaccarti il cuore in due. Un
tripudio di amori, sensazioni, attimi, retto da un'interprete che,
anche se in là con gli anni, ha la forza di un pugile e la
spigliatezza di un bimbo. Non da Oscar – perché, secondo me, se
vincerà, si accontenterà giusto di premi minori – ma da vedere.
Non ho dubbi.
Capita,
a volte, di trovare, nella posta elettronica, email improbabili con
splendide ed improvabili notizie. Fake a cui qualcuno potrebbe
credere. E chi non vorrebbe credere, in fondo, di aver vinto una
barca sproposita di soldi? A Woody capita con la posta, ma con quella
normale. Gli annunciano una presunta vincita e lui, con la sua
camicia a quadri, è pronto ad andarla a riscuotere. A piedi. In
Nebraska. Con tanti anni sulle spalle, tanti debiti da ripagare, due
figli a cui assicurare un po' di felicità, il sogno di un furgone e
di un compressore tutti nuovi, anche se non ha più la licenza di
guida da secoli e un compressore l'aveva, prima che il suo rivale di
gioventù – quarant'anni prima – glielo rubasse. Una macchina si
accosta al lato della strada: è David, il figlio. Quello è l'inizio
della loro avventura. Lo spettatore viaggia sul sedile posteriore per
tutto il tempo, seduto accanto ai fantasmi di troppe bottiglie di
birra consumate, a rancori inespressi, a frammenti di rimpianti.
Bruce Dern è un intenso, stupendo, coinvolgente Woody: risponde per
monosillabi, uomo pieno di silenzi, di dolori tenuti nascosti, di
dignità. La guerra in testa, metà della famiglia a due metri sotto
terra. L'ispirato e sorprendentemente bravo Will Forte è suo figlio,
David. Il rapporto tra di loro retto da un furgone che è status
symbol. L'atto del guidare come un collante tra due generazioni
lontane: un'arte che si trasmette da padre in figlio, poi, alla fine,
da figlio in padre. Candidata agli Oscar accanto al molto più bravo
Bruce Dern, la frizzante, irriverente June Squibb. Una moglie con un
caratterino tutto pepe, con un vocabolario più variegato e colorito
di quello di uno scaricatore di porto: malizia da vendere,un passato
pieno di focosi amanti che – difficile crederlo, ora come ora –
si contendevano spavaldamente le sue grazie. Parla (e male) per tutti
e di tutti. Gli uomini della famiglia, invece, parlano poco: il
necessario. Si salutano dicendosi addio, mai arrivederci. Hanno, come
luoghi di incontro, il bar e il cimitero. Un bianco e nero
rilassante, malinconico, bello, culla i personaggi di questa
magistrale commedia diretta dall'Alexander Payne del – secondo me –
sopravvalutato Paradiso Amaro: fotografia incantevole,
dialoghi senza pause, protagonisti ottimi, colonna sonora folk tre
le parole. Si parla di anziani e io mi emoziono. Si parla di anziani
e la comicità si fa triste. La vita ti trascina e tu non sei,
infatti, più padrone di niente. Lo capisci tardi. Non hai più
possesso della tua famiglia, dei tuoi cari, dei tuoi beni, del tuo
vecchio compressore, del tuo destino. Si passano gli ultimi anni a
cercare un senso, come fa il protagonista con il suo “biglietto
d'oro” di Willy Wonka. La carica vitale degli anziani. Il loro
candore, la loro schiettezza, la loro ruvidezza, la loro mesta
allegria in una piccola perla che ruba consensi e parole superflue.
Dallas Buyers Club è una sorta di documentario, dal taglio decisamente cinematografico, che ci conduce straordinariamente nel peggio degli anni '80, all'epoca dell'AIDS e delle spietate lotte tra case farmaceutiche, in un Texas rurale e polveroso, in cui l'ignoranza, la fatica e la grettezza fanno da padroni incontrastati. Ron Wodroof è il prodotto corrotto di quella mentalità, di quella gente: razzista, omofobo, avaro, volgare. Lavora come elettricista e, per scommessa, cavalca tori, rischiando di spezzarsi l'osso del collo un giorno sì e l'altro pure. Si buca, fa sesso non protetto, beve fino a dimenticare sé stesso. Ignora platealmente i giornali che parlano delle piaghe dell'HIV, perché quella è una cosa da “froci” e lui, pieno di donne e banconote sporche, è un uomo vero. Poi sta male, sviene in una pozza di muco e sangue e si risveglia in ospedale: nel suo sangue, oltre alla droga, un mostro che sta mettendo in ginocchio la comunità gay, Hollywood, e adesso anche lui. Gli restano da vivere 30 giorni scarsi. Contro ogni pronostico, vivrà molto più a lungo del previsto e farà della sua vita un piccolo, grande miracolo. Il personaggio di Ron è scolpito nella roccia, e da uno scultore decisamente capace e attento ai dettagli. Sembra vero: è vero. Forse è un dannato, un peccatore, forse è un santo fuori dagli schermi, ma la sua vita è storia. I suoi mille viaggi, i suoi infiniti imbrogli, le sue interminabili imprecazioni hanno fatto di lui il simbolo perfetto di una lotta contro la morte e la malattia: un paladino politicamente scorretto, ribelle, sgradevole, commovente; uno spacciatore di medicinali di contrabbando e di felicità in pillole che tentò di salvare sé stesso e gli altri, per una nobiltà d'animo tenuta accuratamente nascosta e per un piccolissimo, diciamo così, tornaconto personale. Lungo il suo viaggio, una giovane dottoressa – interpretata da una convincente e affascinante Jennifer Garner in camice bianco – e Rayon, un transessuale dal cuore buono e dal corpo fragilissimo che lo cambierà nel profondo, grazie a un'amicizia autentica e inattesa. Il loro rapporto – fatto di alterchi e battutacce, spintoni e rari abbracci – è il cuore del film: la cosa più emozionante che c'è. Dallas Buyers Club, infatti, è tanto coerente da non giocare mai la carta della commozione facile: è crudo, duro, sporco, ma pacatissimo. Sano. Trova un soffio di vita quando la fine sembra vicina, scopre una cura segreta quando sembrava bisognasse semplicemente lasciarsi morire. Non mi ha comosso, non mi ha lasciato con l'animo più leggero o più pesante, ma mi è piaciuto. Decisamente. Perché è una storia vera, racconta senza peli sulla lingua e senza cornici superflue. Perché sa avvincere e far dimenticare una regia non sempre impeccabile, ma traballante. Soprattutto, perché è retto da due attori grandiosi, per descrivere i quali mi ci vorrebbero nuovi aggettivi: Matthew McConaughey e Jared Leto. Il primo, nel ruolo del protagonista assoluto, l'abbiamo visto troppo spesso in commedie romantiche troppo stupide: sorridente, in forma smagliante, affabile. Lo troviamo, qui, senza i suoi muscoli e i soliti ruoli: la consacrazione di un talento lampante. Magrissimo, brutto, brusco, McConaughey ha una forza incredibile, che si scambia per disperazione, ma che forse è attaccamente istintivo alla vita. Nei panni di uno dei comprimari, Jared Leto: colui che sa far tutto. Tra pubblicità di profumi e fantastiche canzoni, Leto è una delle voci più belle del rock, uno degli uomini più belli sulla faccia della terra e, questa volta, anche uno degli attori più bravi e sorprendenti. Dimesso ed emaciato come il suo collega, con braccia sottili come fuscelli e un corpo da bambino, è un transessuale brioso e malinconico, divorato lentamente da un male che non ha toccato solo i suoi occhi: azzurri ed espressivi, comunicano un mondo intero. In un film anche piuttosto lungo, ha ben poche scene, ma buca lo schermo senza sforzo alcuno e resta impresso, con la maestria dei grandi, con i sogni e le debolezze di una ragazza a metà che, anche se con la fine a un passo, continua a stringere i denti: delicato, buffo, duttile, struggente. Come quella famosa tempesta di farfalle, in una delle memorabili sequenze conclusive.
Ho
scoperto Allen di recente, e ho imparato a conoscerlo meglio di anno
in anno. E' un omino strano e buffo, dalla personalità spiccatissima
e dal gusto ineccepibile, con a carico grandi capolavori e grandi
fiaschi. In realtà, l'ho scoperto da Match
Point in poi e dovrei
recuperare, all'interno della sua filmografia, i migliori dei suoi
film, suppongo. Di lui ho visto un po' del peggio e un po' del
meglio, a periodi alterni. Alla fine, sono arrivato qui. Sono
arrivato a Blue Jasmine,
a metà strada tra New York e San Francisco, su un ponte sospeso tra
la gioia e l'abisso. Nella casa segreta di Woody. Perché questo, tra
i più recenti, è forse il più alleniano
dei suoi film: quello
che più è suo.
Tragicomico. Divertente, ma tristissimo. Malinconico, ma autentico.
Si ride, ogni tanto, ma per crudeltà: per contemplare, dalla nostra
poltrona comoda, le scandalose sciagure degli altri e le loro
altrettanto scandalose menzogne di benessere. Blue
Jasmine è una commedia
borghese dall'impianto fortemente teatrale, girata in interni
all'inizio lussuosi e alla moda, poi similissimi a quelli dei nostri
comuni appartamenti di periferia. Una tragedia dal sapore comico o
una commedia dal sapore tragico che, tra frecciatine impregnate di
veleno e morsi mortali inferti dai tipici parenti serpenti, parla
della crisi economica, ma dal punto di vista di coloro che ci hanno
messo con le spalle al muro. Nuovi ricchi, senza capacità, ma pieni
di pretese egoistiche, che baratterebbero il mondo per un bacio
appassionato, o per un capo firmato. Nuovi ricchi che, quando tutti i
nodi vengono al pettine, si scoprono essere i nuovi poveri. Jasmine
ha sempre vissuto d'apparenze e di luci, poi i riflettori si sono
spenti sulla sua vita da regina e lei, spaesata, ha scoperto che il
suo castello stava per essere pignorato: via il suo trono, via i suoi
gioielli, via un marito che era semplicemente status symbol. Le resta
solo il nome altisonante e fintamente esotico che si è scelta e sua
sorella, Ginger: così semplice, così provinciale, così diversa da
lei. Allen realizza un ritratto vagamente cubista di due donne – e
di due mondi – a confronto: ad accomunarle è una vita che, ormai,
non è più clemente con nessuno. Si è insieme in questa catastrofe
finanziaria, sentimentale, psicologica, che ha fatto della prima una
segretaria part-time; della seconda, una ragazza madre che lavoro
come commessa in un piccolo supermarket. I problemi di Ginger –
interpretata dalla fresca Sally Hawkins – appaiono decisamente
familiari. Quelli di Jasmine da alieni, invece, diventano
inaspettatamente un po' nostri. L'ultima scena, girata su una di
quelle panchine tanto care al regista, è di una tristezza cosmica e
assoluta. Cate Blanchett è regale, sconcertante, vigorosa.
Incredibile lei, un po' meno quei personaggi maschili delineati poco
e male. Allen tira fuori il meglio e il peggio di lei e ne fa un
personaggio nevrotico come i suoi soliti, ma delicato come pochi: uno
Charlot al femminile che parla da sola in un parco, con un (ultimo)
tailleur griffato come frac e un (ultimo) trolley Louis Vuitton come
bastone da passeggio. Spesso dico che una grande attrice non può
fare di un piccolo film un grande film. Spesso sbaglio. La Blanchett
è classe; la Blanchett è una lezione ambulante di grande
recitazione.
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