Mr Ciak #30: La Bella e la Bestia, Storia d'inverno, Romeo e Giulietta
Creato il 12 marzo 2014 da Mik_94
Buongiorno
a tutti, cari lettori! Come state! Qui tutto bene. Oggi, per me,
un'intensissima giornata: la bellezza di sette ore complessive di
lezione. Invidiatemi pure, su. In questo poco tempo libero che mi
resta, vi parlo velocemente di alcuni film che ho visto di recente.
Fatemi sapere la vostra. Un abbraccio, M.
Due
paroline, proprio. Lo aspettavo da tempo e, per ingannare l'attesa,
qualche settimana prima dell'uscita del film, avevo letto il romanzo.
Una classica storia della buona notte, da leggere in due orette,
prima di andare a letto. Essendo il libro il rimaneggiamento della
sceneggiatura della pellicola, conoscevo i pochi nuovi sviluppi alla
perfezione, ma – benché fosse tutto a me già noto – un sentore
di magia è rimasto ugualmente. L'ultimo film di La bella e la
bestia aggiunge poco a ciò che è già stato detto. Visto al
cinema, però, fa la sua bella figura. Emotivamente un tantino
freddo, pur avendo a disposizione una delle storie d'amore più
affascinanti e romantiche di sempre, sopperisce a quel lieve distacco
– molto strano per il cinema francese, che con le storie d'amore ha
una lunga e fortunata tradizione – con un apparato visivo
splendido. Scenografico, barocco, mastodontico. Non ha nulla da
invidiare alle grandi produzioni americane ed è a quelle che il
regista ha come riferimento. Scelta potenzialmente giusta, scelta
potenzialmente sbagliata. Giusta, perché – visti sul grande
schermo – i mulinelli di neve ricordano Burton, le ricchissime
scenografie Il fantasma dell'opera, gli imponenti giganti
dormienti il recente film di Bryan Singer, i contrasti cromatici
Cappuccetto rosso sangue e Alice in Wonderland.
Sbagliata, perché – a volte – manca di personalità e, dunque,
quello che poteva essere un retelling da favola si classifica, nel
bene e nel male, come un semplice e accattivante intrattenimento, per
grandi e piccini. L'avrei apprezzato molto di più se il film fosse
rimasto fedele alle sue origini europee, e non solo perché il mio
amore per il cinema francese è saputo e risaputo... In un castello
tenebroso e costruito con cura impeccabile, la storia di Belle e del
suo scontroso aguzzino. La storia di un'amicizia, di un'intimità,
che si scopre pian piano altro. Nel cartone Disney, per esempio,
erano tanti i momenti di confidenza, di divertimento e di normalità
che univano due personaggi così diversi tra loro, mentre nel film
l'amore di Belle cresce attraverso i flashback che i sogni le
mostrano, e in maniera un po' ripetitiva. Pecca, questa, che ho
trovato nel film e nel libro. Immancabile, tuttavia, la mitica scena
del ballo: senza tazzine canterine in sottofondo, molto più
passionale e gotica, ma bella sempre, con la macchina da presa
coinvolta in volteggi da capogiro, tuffi dall'alto, panoramiche su
uno splendido mondo in decadenza animato da ricordi e simpaticissime
creature. Il regista – Cristophe Gans – non è nuovo a queste
atmosfere dark ed è proprio ai toni orrorifici, seppur
delicatamente, che presta maggiore attenzione. Dal bel Silent Hill
si è portato dietro la nebbia, dall'affascinante Il patto dei
lupi convincenti effetti speciali, creature ferine, il fedele
Vincent Cassel. Un Cassel che in questo film recita poco con il suo
vero volto: a lungo, infatti, in quest'ora e mezza, presta voce e
movimenti a una Bestia ricreata al computer riuscita e credibile. La
sua Bella, invece, è quell'angelo di Lea Seydoux. Lontana dalla
bravura mostruosa sfoggiata in La vita di Adele, ovviamente,
viene utilizzata per il suo viso dolce da principessa e le sue forme.
Tipicamente francese, lei, con il naso all'insù e la pelle bianca,
qui fa un po' da indossatrice, per valorizzare l'impressionante
lavoro di sarti e costumisti. Una Bella sempre impeccabile e ben
vestita: bella in verde, bella in rosso, bella nelle vesti di
contadinella e di regina. Bella sempre. Carina la cornice in cui è
inserita la storia: una mamma che racconta ai figli una fiaba... O
sarà, forse, una storia vera? La bella e la bestia si è
rivelato un film al di sotto delle mie aspettative, ma godibile, ben
fatto e recitato da due attori che, nonostante la differenza d'età,
sono particolarmente uniti. La storia la conosciamo, la fine la
conosciamo. Di nuova c'è la rappresentazione, che omaggia piccole e
grandi perle del cinema gotico con la solita leggerezza del cinema
d'oltralpe. Per goderne a pieno, consigliata la visione al cinema: il
perché di questo film è tutto lì, negli effetti visivi. Ma il
cartone Disney era un'altra cosa.
Ho
visto questo Storia d'inverno preparato al peggio. Forse uno
sbaglio, forse no. Avere qualche pregiudizio, a volte, aiuta. E in
positivo. Io ero preparato al peggio, infatti, e coloro che – lo
scorso 13 Febbraio – si sono fiondati al cinema per vederlo, magari
in dolce compagnia, erano semplicemente preparati ad altro. Perché
il trailer sembrava raccontare altro, perché – mi dicono – il
romanzo di Mark Helprin – così lungo, prolisso, importante –
racconta decisamente altro. Si ci aspettava faide sanguinose alla
Gangs of New York, attente ricostruzioni storiche, viaggi nel
tempo, epiche e solide storie d'amore: un capolavoro a sorpresa. Io,
un po' diffidente per natura, non mi ero lasciato incantare, anche se
quello che vedevo mi piaceva molto, anche se la Wings di Birdy
come colonna sonora, negli spot pubblicitari, era una meraviglia a
tutti gli effetti. Sono riuscito a vederlo a distanza di settimane,
quando tutti ne avevano già parlato – e male. Una cosa
lasciatemela dire: fossero tutti così i film brutti. Storia
d'inverno non è un film perfetto, ma, per me, che amo le storie
e alcune volte amo raccontarle, è un buon film. Suggestive
atmosfere, frasi e dialoghi da romanzo, elementi fiabeschi. Una
storia buona dentro, proprio. Che sa d'inverno, che sa di Natale. Tra
retelling e remake sparsi, il regista Akiva Goldsman propone una
fiaba tutta nuova. Alla fine, solo di quello si tratta. Ha un suo
particolare simbolismo, ha una sua particolare mitologia, ha un suo
particolare messaggio. Ha un linguaggio suo che, secondo me, è stato
ingiustamente oggetto di fraintendimenti. Inutile porsi troppe
domande: perché in La bella addormentata c'è il fuso, perché
in Biancaneve c'è la mela avvelentata? Qui ci sono stelle,
cavalli volanti, diavoli che accendono lampadine, grandi miracoli.
Basta avere cuore, fede, fantasia. Basta perdersi nell'illusione.
Basta crederci, e io – per quelle due ore – c'ho creduto. In
sala, tra un film e il suo spettatore si deve instaurare un patto
sacrosanto, altrimenti tutto scricchiola e ogni scelta sembra
assurdamente fuori luogo. Protagonisti sono Bene e Male, impegnati in
una lotta senza tempo e frontiere che, molto semplicemente, si
esprime attraverso classici contrasti cromatici: un cavallo bianco,
un cavallo nero; le lacrime “dei pochi uomini buoni”, le
catarrose risate dei cattivi. Protagonista è la luce, che balla,
gioca, recita insieme al cast, abbraccia i protagonisti nelle scene
più toccanti. E' un personaggio a tutti gli effetti, è una presenza
perpetua: perfino le scene girate al buio, così, grazie a un tappeto
di neve immacolata e a una ragazza che, in preda alla febbre, ci
cammina sopra a piedi nudi, sono piene di piccoli, pulsanti granelli
luminosi. Protagonisti sono Colin Farrell, che ha un bruttissimo
taglio di capelli ma un viso e un piglio adattissimi per questi film;
un appesantito Russel Crowe, che si limita a riprendere i gesti e le
espressioni del suo recente Javert; la bellissima e convincente
Jessica Brown Findlay, direttamente da Misfits e Downtown
Abbey. Ruolo piccolo, ma importante per Jennifer Connelly, che
troviamo dall'altra parte... nel presente. Il salto temporale ha un
suo prodigioso perché, ma, dopo una prima parte piena e attenta ai
dettagli, può effettivamente risultare un tantino frettoloso. La
storia, tuttavia, non si sbilancia del tutto e non si riempie, per
me, delle falle di cui tanti hanno parlato. Brevi le partecipazioni
del bravo William Hurt, del desaparecido Matt Bomer e di un
divertito e non completamente adatto Will Smith. C'è qualcosa di
Stardust, qualcosa di August Rush, qualcosa di Cloud
Atlas, anche se Storia d'inverno è un film più piccolo,
ma ugualmente piacevole. I miti greci di Pegaso e del katasterismòs,
la figura di un Lucifero che ha radici cristiane, una morale
elementare. Siamo stelle, siamo miracoli, siamo nati per aiutare il
prossimo...
Ci
sono storie e storie. Storie intoccabili e storie che, comunque siano
raccontate, non sanno sfiorire mai. Storie che non si dimenticano.
Romeo e Giulietta è una di quelle. Storia d'amore per
antonomasia troppo bella per esserne snaturata, anche nella più
infelice delle produzioni. Anche in una recita scolastica delle
elementari, scommetto che avrebbe un suo magico perché. Quella del
nostro Carlo Carlei è una trasposizione che, nella madre padria del
regista, non ha ancora visto la luce: ingiusto, perché lui ha
talento e affronta il capolavoro di Shakespeare con umiltà,
rispetto, calma. Forse un po' troppa. Il suo film è elegante e
reverente, ma osa poco. Non aggiunge nulla di nuovo e i paragoni con
gli illustri predecessori non reggono senza che il film perisca. Non
c'è un nuovo sguardo, non c'è nuova linfa. Non si cerca nemmeno un
nuovo punto di vista. La sceneggiatura rispetta le pause, i tempi, le
minime virgole e racchiude il film in una dimensione teatrale
suggestiva, ma potenzialmente nociva. Mai come in questo caso ho
percepito i tempi tanto ristretti e stringati. Che i due sfortunati
amanti s'innamorassero al primo sguardo per poi sposarsi il giorno
dopo lo sapevo bene, certamente, ma mai come adesso ciò mi è
pesato. La regia qualche piccolo virtuosismo lo osa: la macchina da
presa si concede raramente momenti di pausa; volteggia, esplora,
ammira, immortala i dettagli. Visivamente, infatti, il film di Carlei
è bello, molto. Lo sfondo della ricca Italia rinascimentale – così
piena d'arte, colori, sfarzo – è impeccabile e la grande opulenza
delle regge signorili, dei castelli, dei labirinti di rose non
risulta mai pacchiana, grazie a un gusto pittorico di gran classe.
Carlo Carlei immortala la sua Italia con eleganza, venerenziale
rispetto, ricercatezza: inquadra i personaggi in cornici
dettagliatissime, che omaggiano la grande arte e la grande bellezza
delle nostre case. Avrebbe potuto cercare, tuttavia, una nuova chiave
di lettura: il suo film, infatti, per quanto godibile e ben fatto,
non ha né la genialità di un Luhrmann, né la maestria che non
invecchierà mai di Zeffirelli. L'apparato tecnico è notevole:
maestosi scenari, ricchi costumi, una fotografia cristallina, una
colonna sonora incantevole che – magari troppo scolasticamente, a
volte, in unione al rallenty – sottolinea i momenti più
importanti. La storia è bellissima, le parole da cui è composta
sono bellissime e mentirei se dicessi che, sulle labbra dei membri
cast, non risultino convicenti. Oltretutto, quasi tutti d'origine
anglosassone, gli attori hanno un accento che è praticamente poesia
di per sé. Belli e bravi i protagonisti, ma solo se singolarmente
analizzati: insieme, infatti, non fanno scintille. Sono troppo
diversi, il feeling manca. Tra i due, il più convincente è Douglas
Booth: un Romeo dalla bellezza fuori dal comune, in relazione con il
quale la tanto osannata Hailee Steinfeld scompare. Lei è gentile,
delicata, fanciullesca, ma con lui ha poco in comune. Sono
diversissimi. Mi è sempre piaciuta, lei, per la sua bellezza
semplice, da ragazza della porta accanto, e per i suoi tratti ancora
da bambina, ma forse avrebbe avuto bisogno, accanto a sé, di un
Romeo meno aitante: nelle scene condivise, infatti, non mi sono
sembrati particolarmente armoniosi e non sono se un Romeo con la
faccia da stella del cinema – e anche piuttosto bravo, nel caso di
Booth – si sarebbe innamorato a colpo sicuro di una Giulietta con
il viso ordinario di un'adolescente ancora in attesa di sbocciare.
Dal gusto artistico, le ultime scene degli innamorati, giunti –
dopo quasi due ore – a un finale famosissimo, ma che sa emozionare
anche dopo secoli: rigidi, uniti, composti, come Amore e Psiche prima
del bacio. Tutto sommato, convincenti, anche se leggermente discordi.
Lui, che conosco poco e ha recitato soprattutto in TV sa sorprendere:
naturale, controllato, con una faccia che buca lo schermo. Da lei –
candidata agli Oscar per Il Grinta – mi aspettavo di più.
Tra la Danes e Di Caprio, invece, era pura magia: ricordate, no? Ottimi i
comprimari – un arcigno Lewis, un commovente Giamatti e una brava
McEhlone - ; destinato a vita breve il rancorso Tebaldo di Ed
Westwick; una spanna sopra i giovani colleghi il Kodi Smith McPhee di
Lasciami Entrare e
The Road, nei panni di un Benvolio mai così intenso, sensibile,
importante. Risultato non entusiasmante, prodotto mediamente
sufficiente. E la colonna sonora – meravigliosa - è già sul mio
iPod. Non brutto, per carità, ma il gioco era facile. Con un storia
simile, come poteva esserlo?
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