[Spider-Man & Spider-Pork]
C'è una grande confidenza con Garfield, un'affinità che gli effetti speciali non possono riproporre: sullo schermo si completano. Che belli che sono. Accanto alla dolce Sally Field, i chiacchierati villains. Chiacchieratissimi. Il trailer ne mostrava una marea e io temevo il “dannoso pericolo minestrone”. Non capite cosa intendo? Riportate alla mente la caoticità del dimenticabile Spider-Man 3: una soap in tutina rossa e blu. Webb, invece, è piuttosto intelligente e lavora con gente piuttosto intelligente. Il regista di 500 giorni insieme – che è il mio film preferito non ve lo ripeto, dai – è bravo con il dosaggio degli effetti speciali, ma ancora di più quando si tratta di maneggiare i cuori con delicatezza. Ci sono scene da sganasciarsi dalle risate, scene romantiche in pieno stile young adult e cattivi che – pur facendo brutti danni – sono mossi da un'inconfondibile umanità. Il Rhino di Paul Giamatti è un fugace cameo – ma lui e il suo accento russo compariranno certamente nel sequel: non vedo l'ora – e, a proposito di accenti farlocchi, c'è anche uno scienziato pazzo rigorosamente tetesco, ja. I villains, questa volta, sono due e entrambi (ri)nascono all'ombra delle misteriose trame della Oscorp. Jamie Foxx diventa blu e minaccioso, ma prima della mutazione genetica che lo renderà l'Electro del (brutto) titolo italiano, è un novello ingegner Fantozzi, con una nuvola di sfortuna che lo segue, capi odiosi, fisse imbarazzanti – i poster degli One Direction stanno a una quattordicenne, come quelli di Spidey a lui.
Ciao
a tutti, amici! Rieccomi, rieccomi. Non era mia intenzione proporvi
un appuntamento di Mr Ciak a così breve distanza dall'altro, ma sono
stato al cinema – ieri sera – e volevo parlarvi del film che ho
visto. Una recensione scritta di getto, e forse non del tutto lucida.
Mi dicono che ho lasciato la mia severità – ma l'ho mai avuta?! -
sulla poltroncina rossa della sala, insieme agli occhialini 3D. Passo
a riprenderla dopo. Ho visto, in vita mia, una manciata di film ispirati ai
fumetti: ad esempio, la trilogia di Batman – non uccidetemi! - mi
ha annoiato un tantino (tanto), Thor - col tocco di
Branagh - mi è stranamente piaciuto, L'incredibile Hulk (no,
non quello di Ang Lee) mi ha diverito. Ma, quando si parla di
Spider-Man, potrei mettere su un fanclub. Avrei voluto parlarvi di
L'amore bugiardo, ma sarà per un altro giorno. Ho in mente
una recensione tutta particolare, preparatevi. Un abbraccio e buon 25
Aprile, M.
Si
chiama Amazing, questo Spider-Man, e non a caso. Amazing lo
è davvero, di nome e di fatto. Non penso di essere di parte. A me i
film d'azione non piacciono, come non mi piacciono i fumetti e i film
da fumetto. L'uomo ragno
fa eccezione, però: l'ha sempre fatta. Il perché è facile.
Peter Parker è uno di noi. Il secondo capitolo del reboot diretto
dall'ottimo Marc Webb lo sottolinea per benino, lo mette in mostra,
lo sfoggia con orgoglio. Ancora più del buon Tobey Maguire,
l'allampanato Andrew Garfield è uno di noi. Non è una bellezza:
capelli rossicci, naso pronunciato, gambe lunghe e magrissime, il
fisico asciutto del ciclista. Mi piace per quello. Perché è Peter
Parker, perché è te, perché è me. Rappresenta la rivincita del
nerd medio. Le mie compagne di classe, magari, potevano prendere a modello la Anne Hathaway di Pretty Princess. Non so. E' un po'
il sogno di tutti togliersi gli occhiali, darsi una pettinata e
sbocciare. Noi ragazzi abbiamo Spider-Man, invece, ed è
esattamente la stessissima cosa. Mette a tacere i bulli, esce con la
ragazza più ambita della scuola, ha un'avventurosa doppia vita.
Grandi poteri, grandi responsabilità. Un figo. Tornano gli stessi
protagonisti del vecchio film e vecchi nodi vengono al pettine.
Quello che nella trilogia di Raimi era un po' lasciato al caso, qui
ha finalmente un posto tutto suo: il destino e le verità dei coniugi
Parker, la rancorosa inimicizia del giovane Harry Osbor, gli
antagonisti, Gwen. Emma Stone è una Gwen adorabile, il caso è
chiuso. La rossa tutto pepe di Easy Girl ha
la frangia bionda, questa volta, ma quegli occhi da cerbiatta che la
accompagnano in ogni suo progetto lavorativo. Dà un'impronta
personale al suo personaggio e lo plasma, seguendo le linee
sterminate della sua ironia, le curve brusche della sua
testardaggine, le necessità della donna moderna. Gwen non è Kristen
Dunst. Non se ne sta lì a struggersi o farsi salvare. Ha polso
fermo, genio, lingua lunga – nella vita di coppia, così come nel
cuore dell'azione.
Rappresenta
l'acqua cheta che rovina i ponti, la vendetta dell'uomo qualunque.
Piacevolmente fumettoso,
suscita empatia e simpatia e strizza velatamente l'occhio alle
colleghe di Gotham Catwoman ed Edera Velenosa e, perché no, anche
alla Elsa di Frozen.
“Let it go”, e così fu. Via a una pioggia di scintille e a
sferzate furiose di energia che spengono tutte le luci di New York.
Meglio ancora, la rivelazione Dane DeHaan – già superlativo in Giovani Ribelli.
Dopo lo scialbo Osborn Jr. di James Franco, il suo – qui - è un
personaggio che non si dimentica. Timido e minuto sui Red Carpet,
DeHaan, con una macchina da presa davanti, sprigiona un carisma che è
radioattivo, innato. Il look da dandy e la paura di morire giovane,
le parole scherzose rivolte a Peter e i suoi viscidi suggerimenti...
Green Goblin è un burattinaio astuto e affascinante, con movenze da
giaguaro e occhi di ghiaccio. DeHaan, anche in un ruolo da
comprimario, è una potenza. Ha un'aria perenne aria di sfida,
sprezzo, la sicurezza naturale di chi potrebbe rubare attenzioni e
posto di lavoro anche al protagonista. Il talento di Garfield,
invece, s'annida in quei minuscoli dettagli che creano legami ad ogni
passo: il poster dei film di Besson e Antonioni alle pareti, i panni
stinti in lavatrice, le Converse, i selfie sul cellulare (che, tra l'altro, è il
mio stesso banalissimo Sony Xperia), gli I LOVE YOU colossali scritti
lungo il ponte di Brooklyn. Crea legami con la Stone, che si è
innamorata di lui davvero; con quei rivali che lo sfidano e lo
divertono; con lo spettatore che vorrebbe essere nei suoi stessi,
identici panni. Come accade nei romanzi, anche in The
Amazing Spider-Man 2 il nostro
eroe è messo a dura prova. E' un secondo film, è una fase di
passaggio, ma – più a fuoco del primo – mi è piaciuto un mondo.
Buffo, adrenalinico, intimo, emozionantissimo. Nel finale, circondato
da bambini ammutoliti, ero lì a torcermi le mani. Dopo averlo visto,
mi raccomando, tornate a dirmi quanto è bella l'immagine dello
schizzo di ragnatela che si allunga ancora e ancora, fino ad assumere
la forma di una mano tesa... Quanto? Ritorno all'ultima
frase, comunque. Ero al cinema, ieri, ed ero circondato da bambini. La sala era
un asilo. Tutti che ridevano, tutti che tremavano di paura, tutti che
si commuovevano. Nel lontano 2002, con i miei genitori e mio fratello
per mano, ero anch'io un bimbo come loro. Spider-Man era il mio eroe
preferito, e lo è ancora adesso. Ha cambiato faccia, regista,
target, ma è sempre uguale a sé stesso, per fortuna. L'esigenza di
un remake lampo si spiega semplicemente. Certe avventure sono troppo
magiche – e nostalgiche, e lunghe - per avere fine definitiva. Webb
– togliete una “b” e avrete la parola “tela” - ci parla di
un tempo che ha valore qualitativo, e non quantitativo, e di un
personaggio che il tempo non ce l'ha. Non è soggetto a scadenze,
Peter, anche se il film si apre e si chiude nel cigolare degli
ingranaggi di un orologio. Costoso e superfluo il 3D. The
Amazing Spider-Man è da andare
a vedere con la famiglia in completo, ma per quattro biglietti, con
il 3D, ci vorrebbe una specie di mutuo. Lasciate perdere! Dopo un
po', non ci fai nemmeno più caso alla terza dimensione. L'unico
scopo degli occhialini, in realtà, è nascondere la
lacrimuccia-uccia-uccia (eventuale?) che, a fine visione, vi si
raccoglierà agli angoli degli occhi. Davanti alla scena di un
bambino con un costume cucito a mano che sfida un gigante di metallo,
come nella storia di Davide e Golia. Il vero brivido che arriva a
scoppio ritardato. Quella singola immagine che è tutto Spider-Man. (8/10)
a)
Un'infermiera sexy, innamorata di una sua collega, uccide a colpi di
bisturi tutti coloro che ostacolano il loro amore. Nel tempo libero,
è una sexy serial killer di uomini fedifraghi. Nurse 3D
è di un trash che diverte. Violentissimo, senza veli e senza pietà,
ma con quel pizzico di grottesca ironia che non guasta. Idiota,
consapevole di esserlo. Tra San Valentino di sangue e
Attrazione Fatale, una commedia nera partorita dalla
fantasia del maschio medio: lunghe docce, giarrettiere, baci saffici,
infermiere dalle gambe chilometri e dai fianchi morbidi. Un bagno di
sangue, per personaggi senza vestiti e senza pensieri. Un thriller
erotico, che mostra decisamente troppo per essere di classe, ma con
un pregio alto un metro e 73 abbondante: Paz De La Huerta. Volto
inedefinibile, fisico statuario, vitino da pin up degli anni '80,
voce conturbante, curve sterminate. (3/5)
b) Il biopic sullo stilista, lontano dall'agiografia, si concentra sui
lati più umani. Le trasgressioni, l'infedeltà, le droghe, la
passione con Bergè. Da non amante del genere, ho trovato alcuni
passaggi ripetitivi e noiosi, ma impeccabile la "confezione". Francese
fino al midollo. Degno di essere ricordato per l'ottima prova del
giovane Pierre Niney, che con passione interpreta un artista pieno di
debolezze, manie, tic, e per il feeling con il collega Guillaume
Galliene (già ottimo in Tutto suo madre). Entrambi
provenienti dal mondo della commedia, si adattano alle esigenze del
copione in maniera esemplare. (2/5)
c)
Tema semi-serio, messo in scena con
personaggi pessimi. Mentre De Luigi e la Casta si divertono, i
comprimari sono fuori luogo. Come le poche gag comiche, che
funzionano, ma se considerate altro dalla storia raccontata.
Significativa e originale la scena finale, meno il resto, che oscilla
dal film sentimentale – e con successo – all'irritante melodramma
– e con meno successo.Qualcosina, per il resto, si salva. Ma poteva
risultare molto
meglio la descrizione di questa simpatica barriera linguistica,
culturale, sessuale. (1,5/5)