Mr Ciak #37: Maleficent, Across The Universe, Revolutionary Road
Creato il 19 giugno 2014 da Mik_94
Ciao
a tutti, amici! Vi scrivo da uomo libero. Ieri, ufficialmente, ho
dato il terzo ed ultimo esame di giugno. Fortunatamente, ho chiuso il
mese in bellezza: è stato piacevolissimo seguire quel corso, un po'
meno studiare e leggere tre libri interi... in tre giorni. Immerso
nel cantautorato italiano, nel beat, nella rivalità Beatles-Rolling
Stones, in compagnia del fenomeno De Andrè e dei giovani vip del
Piper, ho rivisto Across
the universe, un
musical perfetto ambienato ai tempi del flower power e della guerra
in Vietnam. Dovrò rivederlo più spesso. Ormai sono in fissa. La
colonna sonora, dopo anni, è ritornata sul mio iPod! Ennesimo
filmone, Revolutionary
Road,
di cui avevo la recensione sul computer da una vita. Dopo cotanta
bellezza, anche un film più recente, ma meno bello, decisamente:
Maleficent.
Apre il post giusto perchè è ancora nelle sale. Brutto non è, ma
l'ho trovato trascurabilissimo: gran peccato. In fondo, brevi commenti sugli altri film visti. Ed alcuni sono carinissimi. A prestissimo, M.
Retelling
rivolto quasi esclusivamente ai più piccoli. Lo attendevo, come
fanno i bambini, ma aspettandomi qualcosa di adulto. Invece
Maleficent mette
una croce sulla storia della vecchia e amata villain di La
bella addormentata e
punta ad altri toni, scopi, colori. Tanti effetti visivi, zero ombre,
bontà nascosta nei personaggi più crudeli in circolazione. Della
Malefica del cartone restano il nome tenebroso, corna e mantello, la
passione per le entrate trionfali. Gli autori ne fanno un personaggio
tutto diverso, in una riscrittura educata, ma senza coraggio. In
pieno stile Disney. Qualche siparietto comico, creature fantastiche
animate al computer, una morale femminista vicinissima a quella dei
recenti Brave
e Frozen.
Le principesse non hanno bisogno di principi azzurri, il bacio del
vero amore ha una sfumatura diversa, il colpo di fulmine è un mito
da sfatare. Il film è fatto di donne, ed è fatto di una superba
Angelina Jolie dai profili perfetti e dal sorriso ammaliante. La sua
Malefica mostra che cattivi non si nasce, si diventa. Impara, a sue
spese, che l'amore è una bugia. E la scoperta fa male. E' uno
strappo, una violenza fisica. Lascia la protagonista sola e senza
ali. La nuova consapevolezza la schiaccia forte, a terra. La
maledizione più famosa del mondo dell'infanzia scaturisce dal
dispiacere di una donna innamorata che ha scoperto che l'anima
gemella non esiste. C'è una scena precisa in cui il dramma della
donna si percepisce in maniera forte: un risveglio traumatico e
solitario, che è il destarsi da un metaforico stupro. La Jolie
trasmette quello smarrimento: sa farlo. Peccato che gli autori
abbiano voluto puntare ad altro. Quell'attimo perfetto di
struggimento cede spazio a un piccolo incanto ad alto budget. La
maledizione pronunciata non si può spezzare e quella bambina bionda
s'incammina rapidamente verso i suoi sedici anni, un fuso, un sonno
ininterrotto. Se l'amore non esiste, allora chi potrà destarla?
L'ingresso nel castello è fortissismo. Ricalca con cura le orme del
cartone originale e la Jolie ha di Malefica gli zigomi marcati, i
gesti languidi, la voce suadente, l'abito scuro. Quel sorriso torvo
poi si fa dolce. La sua freddezza diventa desiderio di maternità. E
la vendetta personale di quella donna a cui l'amore ha tolto l'aria e
la libertà, in poco più di novanta minuti, si fa fiaba. Avrei
preferito una fiaba nera, ma non si può avere tutto. Delicata e
imbambolata Elle Fanning, che si limita ad essere la principessa un
po' leziosa dei cartoni. Parla con gli uccellini, sorride senza un
perché, non canta giusto perché non vive in un musical. Le tre fate
– divertite ma non per questo divertenti – le avrei fatte fuori
con una spruzzata generosa di insetticida. Interessanti Sam Riley e
il suo personaggio. Brenton Thwaites più inutile di Sam Claflin in
Biancaneve e il
Cacciatore – e io che
credevo non fosse umanamente possibile! Penserò a questo Maleficent
così: un libricino illustrato, solo in live action. Piacevole, pur
applicandosi il minimo indispensabile. Poco. Tanto c'è sua grazia
Angelina Jolie che regge quello che può essere retto. (5/6)
Mi
sono accorto che parlo troppo. Eppure di alcuni film non parlo
abbastanza. Di quello splendore assurdo che va sotto il nome di
Across the universe non vi ho parlato mai. Ha sette anni e, ogni volta che lo
rivedo, lo riscopro diverso. Più bello, pulito: più profondo. Così
la cotta si rinnova. Mi concedo due ore in compagnia di certe
canzoni intramontabili, dei fuochi d'artificio spettacolari di quel
genio di Julie Taymor, di colori abbaglianti che si sposano e non
c'entrano niente tra loro, e Across the universe mi si pianta
nuovamente nella testa. Finisco per ricordarlo, canticchiarlo,
ballarlo. Ci penso su per giorni. La canzoni d'amore più belle di
tutti i tempi avevano un'altra storia da raccontare, quella di un
ragazzo che, come, me “amava i Beatles e i Rolling Stones”.
L'incontro, lo scontro, il magico mondo di Hey Jude e della
sua Lucy in the sky with diamonds; i loro ideali, le loro
guerre, i loro Paesi separati da un viaggio in nave senza ritorno.
Non ci pensate mai, voi, ai protagonisti delle canzoni? A volte io ci
penso, sapete? A che fanno, a chi erano, a se si incontravano tra le
tracce dello stesso disco. Allora avevo12, 13 anni e sono
state le loro stesse creature, i loro stessi capolavori, a farmeli
conoscere. La musica dei Beatles mi ha fatto conoscere i Beatles.
Parlava da sé, parlava di sé. Artefice di questo circo umano,
sfarzoso e avveniristico, una regista americana che prende le
immagini, le assembla e compone schegge di capolavori che non
dimenticherai. Across the universe non è solo un musical del
passato che viene, bussa, e ti parla del Vietnam con il linguaggio
del futuro. E' poesia visiva. Visivamente straordinario, emotivamente
esplosivo. Jude, vent'anni, arriva negli Stati Uniti su un
mercantile, per conoscere il padre, fermamente convinto – con la
sua arte, le sue passioni – che nulla cambierà il suo mondo.
Nothing's gonna change my world. Invece, in una New York
roboante e caotica, scopre l'amicizia di Max, l'amore di Lucy, il
flower power e la bellezza di cantare una canzone tutti stesi in
un prato, il fumo in spirali che sale e sale verso il cielo blu. Tra
le nuvole, gli angeli, gli aerei da guerra. Sono tante le sequenze
bellissime. La straziante “Let it be”, che una voce di donna
arrabbiata intona al funerale di un bimbo nero in una bara bianca.
L'onirico tuffo in mare di “Because”, quando i protagonisti si
trasformano in sirene e il colore è quello delle luci al neon. Il
mash-up pazzesco tra la nostalgica “Across the universe”, con i
vagoni di una metropolitana mezza vuota, e la grintosa “Helter
Skelter". La migliore: “Strawberry Fields Forever”. Una macchia
rossa che sembra un frutto di stagione, un Pollock-macedonia, l'ombra
minacciosa delle immagini di violenza in tivù, fragole che piombano
come bombe nucleari. Posso solo descriverlo. Non posso dirvi com'è.
L'unica chiave possibile è guardarlo. Psichedelico, coraggioso,
originalissimo, mette in conto bagni di effetti visivi ma non scorda
il cuore a casa. Al tempo, i giovani in rivolta davano fiori ai
poliziotti; volevano che le pistole sparassero petali e che i corpi
potessero fermare i carri armati. Si mettevano su palazzi di
diecimila piani e, dall'alto, cantavano l'essenziale. Facevano
voltare le ragazze per strada, facevano tornare l'anima gemella
all'astronave madre, dicevano “All you need is love”. Gli attori
sono performers dalle voci perfette. Jim Sturgess, al suo esordio,
era un Jude delicato e fragile, magnifico; Evan Rachel Wood era e
resta stupenda; Joe Anderson - una scoperta con la faccia di Jared
Leto - dovrebbe comparire sugli schermi più spesso. Dana Fuchs è la
gemella di Janis, Martin Luther il fratello di Hendrix. Ho la pelle
d'oca. I peli delle braccia che si rizzano come gli aculei di un
istrice. Devo stare da solo, quando lo guardo: lo so a memoria e,
puntualmente, canto tutte le canzoni. E poi potrei commuovermi così,
per inerzia, da una canzone all'altra. Da un momento all'altro. E'
uno dei tanti esempi per cui il cinema mi piace. Impossibile non
vederlo e dirsi però vorrei farne parte anch'io. Portare il
caffè al cast, fare le fotocopie dei copioni, starmene in disparte e
guardarli provare. Esserci mentre gli strani e imprevisti miracoli
dello spettacolo accadono. (9)
Leonardo
Di Caprio e Kate Winslet: ritornati insieme dopo dodici anni, e io
che mi ero perso il loro ultimo incontro. Cosa era successo a Jack e
Rose in quell'arco di tempo? Che ne era stato di loro, delle loro
speranze, della loro tanto sognata America? In una versione
alternativa della storia, in un film parallelo a quello di Cameron,
loro ci erano arrivati. Erano arrivati insieme all'ombra della Statua
della libertà, salvi dai relitti di una nave alla deriva che di
indistruttibile non aveva nulla. Loro erano indistruttibili, loro
erano innamorati. Sulla scialuppa, spazio anche per Jack. Una vita,
di lì in poi, da costruire insieme. Revolutionary Road è il
metaforico proseguimento della loro storia. E' il resto della vita
che non hanno mai vissuto.
Una vita difficile, anche per due che, come loro, si amano. A volte,
però, l'amore non basta. Un paio di lustri, due figli e mari di
sigarette spente dopo, sono diventati April e Frank Wheeler: coniugi
perfetti in un perfetto quartiere che parla di rivoluzione. Una casa
bianca con tanto di steccato, aiuole intorno, qualche amico fidato:
un grembiule da cucina lei, una professionale ventiquattr'ore lui.
Ruoli ben definiti, fissi, con la moglie che lava, stira, cucina e il
marito che provvede, col suo faticoso lavoro, ad alimentare quella
bella favola. Sopravvissuta al naufragio, anche Kathy Bates: solare,
chiacchierona, querula. La fata madrina, quasi, di quel matrimonio
(in)felice. Ma il destino è destino: una catastrofe chiama un'altra
catastrofe. E un altro disastro è in agguato. Questa volta l'iceberg
cresce in mezzo a loro e avvistarlo, anche se con la sua punta di
ghiaccio solidissimo squarcia la tappezzeria, il divano, il soffitto
del salotto, non è facile. Sam Mendes porta sullo schermo l'omonimo
romanzo di Richard Yates: l'anti-Titanic. Impressionante la direzione
del cast, stupenda la scelta degli attori protagonisti. Due ragazzi
cresciuti nella stessa casa, ma non insieme. Sempre belli, sempre
affiatati, ma innamorati non più. Questi Jack e Rose sono diventati
il prodotto di quella cinica borghesia che, mezzo secolo prima, su
una nave, voleva condannare il loro amore. E non c'è canzone di
Celin Dion che possa farli ballare, nessun pericolo vitale che possa
renderli vicini. Eppure sono gli stessi; eppure – ancora una volta
– la sceneggiatura li vuole alle prese con un viaggio, ma inverso.
Dall'America all'Europa. Un viaggio impossibile, ma a causa di
tempeste che avvertono solo e soltanto loro. Loro e un pazzo,
interpretato da un grande Michael Shannon, che vede e sente tutto. Di
Caprio e la Winslet si confermano due interpreti magistrali, due
degli attori più grandi della loro fortunata generazione. Glamour
come un tempo, bravi ancor di più. Lui, con il viso da bambino di
sempre, balla nei suoi completi troppo grandi: gioca al papà
impegnato, ma è un gioco che non gli piace. Si vede dalle rughe
minuscole sulla sua fronte liscia. Lei, più matura, materna, se lo
strappa da sé a forza: saggia, adulta, affascinante anche con la
ricrescita scura e i vestiti da casalinga disperata. Un drammone
dall'amarissimo gusto teatrale, intriso d'amore avvelenato e rabbia,
che attori monumentali, sfuriate sublimi e dialoghi realistici
rendono bellissimo. Atrocemente bello. Un buon non-San-Valentino a
me, e a voi. (8)
-
Dal Messico, una commedia dolcissima e toccante. La storia non
originalissima di un papà all'improvviso che, per quella bambina
all'inizio indesiderata, diventa l'uomo più coraggioso della terra.
Tema noto, intreccio che forse vuole osare un po' troppe cose.
Serietà e slapstick si mischiano: Instructions not included diventa In fuga per tre, con cenni al realistico Kramer
contro Kramer e le sporadiche animazioni di Tim Burton.
Inaspettato il colpo di scena finale, che emoziona per la sua
assoluta e assurda imprevedibilità. Un colpo al cuore. Bruttina la
colonna sonora, che fa tanto telenovelas. Invece, buono il cast. Eugenio Derbez è
simpaticissimo, la piccola Loreto Peralta incanta con i suoi occhi
giganteschi e una certa somiglianza con la bella Kristen Bell. Imperfetto,
straripante, lungo, ma consigliato. (3/5)
-
Parentesi british con Notting Hill. L'ho sempre visto a tratti, ma
mai fino alla fine per davvero. Non mi perdevo niente, devo dire. La
prima parte è ottima, con bei siparietti comici e dialoghi
brillanti, ma la seconda è bruttissima. Non "surreale, ma
bella", bensì irritante. Bravo Hugh Grant, ma la Roberts la
preferisco adesso, a quindici anni di distanza: invecchiata,
migliorata, alle prese con drammi molto impegnativi. Esilarante il
mitico Rhyf Ifans. Canzone cult: When you say nothing at all.
(2/5)
-
Il
remake di un film horror di qualche decennio fa: Patrick.
Che creatura strana che è. Oscilla tra scelte di estrema classe e
scelte estremamente trash. La forte contrapposizione tra la
fotografia scura e curatissima, la meravigliosa colonna sonora
firmata dall'immortale Pino Donaggio e l'idiozia di alcune svolte
lascia straniti, molto. Ha il fascino dei vecchi noir, ma elementi
splatter e grotteschi che lo rendono una specie di "Attrazione
Fatale" in salsa paranormal. Chi è Patrick? Il fratello di
"Carrie", che di Satana - però - ha il sonno. Ironia nera,
un pizzico di squallore, qualche morte fantasiosa, attori discreti.
Ha un suo perché.
(2,5/5)
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