Mr Ciak #44: Sin City 2, Tutto può cambiare, Maps to the stars, Third Person
Creato il 26 settembre 2014 da Mik_94
Ciao
a tutti, amici! Eccomi ancora una volta con un appuntamento di Mr
Ciak, a parlarvi di alcuni film molto, molto attesi. Caso strano
perché, nel post di oggi, ogni film parla di un aspetto diverso
dell'arte: il fumetto, la musica, il cinema stesso, la letteratura.
Tra occasioni mancate e piccole delusioni, però, non ve ne
sconsiglio nessuno. Non del tutto. Dal sequel di Sin City,
dopo due anni di attesa, ci si aspettava più impegno; il ritorno del
regista di Once, per me, è stato graditissimo: Tutto può
cambiare mi ha stampato un sorriso in faccia che non va più via e ho
adorato la colonna sonora; Maps to the stars, dopo alcuni
scivoloni da parte del regista, potrebbe forse essere il ritorno vero
di Cronenberg - un po' satira, un po' parodia; Third Person,
al cinema da noi il prossimo 23 ottobre, mi è piaciuto, ma non mi ha
completamente soddisfatto. Quali vedrete? Quali attendevate? Un
abbraccio e buon weekend. M.
Io
facevo la quinta elementare quando Sin City arrivò al cinema. Dieci anni fa, quasi. Si parla di un seguito
da allora. Piccolino, ero
rimasto molto affascinato dai bulli, le pupe, le poppe, le auto, gli
squarci di colore nel buio. La potenza visiva di Sin City era
impressionante, per il me di allora, come per il me di adesso. Anche
questo secondo capitolo, giunto la bellezza di due lustri dopo, è un
gioiello per gli occhi. Eccitante, avvolgente, adrenalinico, non
stanca mai: è il noir che incontra il fumetto. Una meraviglia per
chi apprezza le belle cose. E le belle cose, qui, non latitano. Il
motore del film, infatti, sono le donne. Donne per cui vale la pena
uccidere: coloro che borbotteranno, perché no, Gesù piange se fai
pensieri come questo, saranno messi a tacere da uno o due primi piani
da infarto. Sin City 2 è pieno di pensieri sporchi, colmo
fino all'orlo di lussuria; sanguinante e vagamente erotico: a Gesù
non piacerebbe. Del primo ho un ricordo positivo, ma tutto fumo. Era
più complesso, lungo e articolato di questo che, con i suoi novanta
minuti, risulta un compitino che i suoi lati positivi ce li ha, anche
se la stringatezza di alcuni passi ne mette in dubbio l'autenticità.
Il nuovo film di Robert Rodriguez, girato spalla a spalla con Miller,
è furbissimo, ammiccante, letale. Lo vedi e, per un motivo o per
l'altro, che vuoi dirgli di male? I contenuti scarseggiano e i tre
episodi, autoconclusivi, hanno ritmi altalenanti: il primo ruba
attenzione agli altri. Li mangia in un boccone. Cosa ci si poteva
aspettare da Ava Lord, la mangiatrice di uomini: la dea del sesso, la
femme fatale... la mia amata Eva Green. Sin City fa miracoli
con il suo corpo tutto forme. Gioca con i suoi nudi, mette a punto
ombre perfette a nascondere quello che solo Bertolucci ha mostrato,
fa del vedo-non vedo opera d'arte. I suoi occhi verdi lampeggiano, la
sua voce è roca, e per Josh Brolin non c'è scampo. Non è casuale
l'assonanza con Ava Gardner. Per Eva: dieci più! Dopo le sue, hanno
inizio e fine le vicende di Joseph Gordon Levitt – un giovane
fortunato al gioco, sfortunato in tutto il resto – e quelle della
bella Jessica Alba, stripper mossa dalla sete di vendetta e da anni
di meditazione. A unire i personaggi, un saloon in cui ogni notte c'è
una rissa, quel piantagrane di Mickey Roruke, squillo di periferia
armate fino ai denti e dal vestiario assai ridotto. Sin City
risulta un'antologia pulp, che pare scritta da un Ellroy in preda ai
fumi dell'assenzio: la durata ridotta permette lo sviluppo di uno
scarso numero di vicende e, per forza di cose, alcune risultano più
sviluppate (e accattivanti) delle altre. Fiacche quel del buon
Joseph, frettolose quelle della Alba, seducenti quelle della Green e
del collega Brolin. Tra i cameo tanto cari a Rodriguez, Lady Gaga,
Juno Temple, Ray Liotta e la mia portinaia. Scherzo, lei era in
Machete Kills, creduloni. Una donna per cui uccidere è
come la vendetta del personaggio di Nancy: un'attesa e bang! Un
attimo, poi cala il sipario e si sloggia dalla sala. Spassoso, tutto sommato, e inevitabilmente
ipnotico. Eva Green, ebbene sì, sono recidivo, su Vanity Fair, ha
affermato, parlando del suo censuratissimo poster: un paio di tette
non hanno mai ucciso nessuno. Dolcezza, le bugie non si dicono. Qui, mettono K.O il resto. (6,5)
C'era
una volta Once. Minuscolo, quieto, imprevisto, era arrivato
agli Oscar, zitto zitto, cantando cantando. Non lo vedo da una vita,
ma lo ricordo di una fragilità splendida. Non sentivo da una vita il
nome del suo regista, John Carney, ma quest'estate in America –
dopo il silenzio – è tornato. Il primo film americano di un
irlandese. Cose che, con la fama, succedono: i cambiamenti. Con la
fama ci si perde un po'. Di questo parla il suo film, che invece non
si perde. Tutto può cambiare è una commedia indipendente
personalissima, anche se con il film precedente ha in comune note,
pentagrammi e basta. Il cinema che parla delle strategie
discografiche, della musica, dei sogni messi all'asta, di mode che ci
vogliono tutti ammiccanti e tutti uguali sa intrattenere, perfino
divertendo. Ha lo sguardo di chi New York la vede davvero per la
prima volta. Quello del turista poveraccio che può permettersi solo
gli angoli, non il lusso. Quello di un appassionato vero, che ne
conosce i segreti e li regala ai passanti, insieme a un sorriso.
Sguardi spaesati, incantati, contemplanti: così si conoscono Keira
Knightley e Mark Ruffalo. I traditi, i senza radici. Lei, cantautrice
inglese giunta in America con un sogno; lui, produttore grassoccio e
negligente che ha fallito come padre e ha fallito come
professionista, nell'istante in cui abbandona il suo ufficio in una
scena madre alla Jerry Maguire, ma senza Renée Zellweger
adoranti al seguito. La musica lo salva, in un bar in cui gli
strumenti iniziano a suonare da soli: in una visione ad occhi aperti
con al centro una musa schiva dall'accento britannico. Il nuovo film
di Carney è di un'intimità vista da lontano; una sorpresa che
lascia i classici “momenti da film” ai titoli di coda, come se
non avessero importanza; una commedia che evita accuratamente
qualsiasi momento romantico. Gli attori sono naturali, anche come
cantanti. Escono con camicie stinte ed abiti a fiori, pinocchietti e
jeans con le toppe, e la loro trasandatezza non penso sia studiata:
la loro voce, insieme ai vestiti, è spiegazzata. Mentre camminano,
non c'è quasi macchina da presa che ascolti le loro critiche sui
tizi che si fanno crescere la barba perché fa figo; sulle
adolescenti con quegli orribili pantaloncini a vita alta che mettono
in mostra la mercanzia e uccidono la femminilità; sulle case
discografiche che rubano soldi e identità. Keira Knightley,
introversa e delicata, canta canzoni che sono come lei: esili, ma con
carattere da vendere. Però quante smorfie che fa... Adam Levine, in una vaga parodia di se stesso, fa bene
quando è su un palco con i Maroon 5, ancora meglio quando è da solo
con una chitarra in mano. Ruffalo, be', maestro di versatilità, dopo la prova potentissima in The Normal Heart e la parentesi "supereroesca" con The Avengers.
Sbirciare l'ipod per conoscere l'altro, incidere pezzi per strada,
avere come sottofondo la City e Frank Sinatra: Tutto può cambiare
è un'orecchiabile fiaba acustica, che conosce il traffico, il
rumore, le seconde opportunità, artisti che si mettono comodi e ti
dedicano una canzone. Lost Stars (per sentirla, qui) come Falling Slowly, agli Oscar? (7+)
Mi
piace Cronenberg. O almeno credo. Mi è piaciuto Maps to the
Stars. O almeno credo. Hollywood va a fuoco e il fumo arriva fino
a qui e rincoglionisce. Non vedo a un palmo dal mio naso: in cielo
però si vedono ancora le stelle, ma è tutto un imbroglio. Sono cose
morte, anche se fanno una luce fortissima. Cronenberg ci dà un
cannocchiale e ci lascia spiare le vite su cui tutti fantasticano. Il
ritratto che ne viene fuori è impietoso e bollente, cinico e malato. Una commedia nera che vive di dialoghi perfetti e di
gallerie senza fondo popolate da personaggi stralunati e grotteschi.
Tutti comunicano qualcosa, tutti rappresentano una fetta di un
meccanismo a torta, che rimpinza crudelmente i diabetici, tiene a
stecchetto gli anoressici, vizia i bulimici, tenta i golosi. La
pellicola, ciarliera e caotica, ha personaggi irrisolti che
rimuginano su rapporti irrisolti, stretti dai nodi dell'incesto e del
malessere. Si scrivono dal nulla personaggi che incarnano la materia
umana di cui sono fatti i sogni e i rotocalchi. La recitazione
richiesta al cast non è delle più naturali, ma i protagonisti sono
tanto bravi da non rendere quei personaggi macchiette da vignetta
satirica. Cusack non spicca, Robert Pattinson ha una particina inutile come lui, tra gli uomini, è il piccolo Evan Bird a farsi ricordare: un
enfant prodige che, a tredici anni, ha già problemi di droga
e un'attiva vita sessuale. Misterioso il filo che lo lega alle
vicende della bravissima Mia Wasikowska, che sfoggia aria dimessa, il
viso segnato, scatti schizofrenici. Trionfatrice a Cannes, una
Julianne Moore fuori controllo, che fa il suo meglio e il suo peggio:
una diva volgarotta e vuota – tutto il contrario della
professionista che la interpreta - che si è arresa alla chirurgia
estetica, ma non all'idea di essere rimpiazzata. Bipolare e isterica,
fa notizia per avere denunciato le molestie di una madre morta che
continua ad apparirle con il fare languido e inquietante della Sarah
Gadon di Cosmopolis. Un film imperfetto, che culmina in un
epilogo onirico e mozzato, ma giustissimo. Non immaginerei altro
finale. Per chi è rimasto colpito dalle potenti immagini iniziali di
quel The Canyons che – per me - non era del tutto da
buttare. Per chi sogna uno spregiudicato Viale del tramonto
nell'era di Scientology. Tante chiacchiere, tanto veleno, tanto
fuoco in petto. (7)
Tre
città, una luce accesa, infinite storie. Qual è il confine tra
fatti e immaginazione? Qual è la distanza esatta tra
New York, Parigi, Roma? Third Person. La terza persona: quella
che Liam Neeson, autore vincitore del Pulitzer, usa per mantenere il
distacco dalle trame che inventa, saccheggiando la vita sua e delle
persone che ha conosciuto. La terza persona è quella di troppo,
l'ombra che si allunga su rapporti destinati a mantenersi imperfetti.
Quella che impedisce a una disperata Mila Kunis di abbracciare il suo
bambino, per un tragico errore che ha commesso e che James Franco non
perdona. Quella che ha sottratto la figlia a Moran Atias, una bella
rumena che, in una città eterna ed indifferente, trova l'aiuto
finanziario di Adrien Brody, un turista straniero con un lutto
segreto e conti in sospeso con criminali che trafficano in una Puglia
inospitale. Ancora, quella che allontana una sexy e fragile Olivia
Wilde dalla stanza d'albergo in cui Neeson, in cerca di una musa
eterna, vorrebbe tenerla per sé. Dopo Crash, Haggis propone
al suo pubblico un'altra storia lunga, lenta, appassionante. Fatta di
mille hotel di lusso, centinaia di individui, soldi spesi in rose
bianche e vasi di cristallo, inchiostri a fiumi e parole a cui
ripenso. Un dramma corale, con donne bellissime e pericolose, che non
perdonano noi uomini, ma nemmeno loro stesse. Hanno anime pesanti e
paura dell'acqua alta. Il suono del pianoforte non si zittisce mai,
neanche quando – in una bettola romana – si sente in sottofondo
una Tatangelo o un Biagio Antonacci, con il limoncello in bicchiere e
uno Scamarcio con la ritrosia verso gli zingari. Il montaggio è dei
più sapienti e la direzione di un professionista lega e scioglie le
storie, grazie a un cast ottimo in cui tutti e nessuno sono
protagonisti. Una parola giusto per Moran Atias, italiana d'adozione,
che si tiene tutti i vestiti addosso – al contrario della Wilde –
e si dimostra all'altezza della situazione: con la lingua inglese, la
collaborazione con star affermate, un personaggio scontato.Third
Person è un film che sembra non esplodere mai, ma che chi ama la
scrittura – e la maledizione e il miracolo che rappresenta –
comprenderà pienamente. Uno sguardo su un mestiere, sull'espiazione,
su furti di vite che possono garantire l'immortalità o la completa distruzione. (6,5)
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