Mr Ciak #47: Hai impegni per Halloween? - Parte II
Creato il 27 ottobre 2014 da Mik_94
Poteva
Annabelle, la simpatica e terrificante comparsa dell'ottimo
The Conjuring, non
meritarsi un film tutto suo – con quel sorrisino vispo e quelle
belle guanciotte rosse rosse? Un anno esatto, ed è arrivata al
cinema. Sotto Halloween. Le premesse: pessime. Un modo come un altro
per far soldi, con un reboot annunciato come inutile e arrangiato.
Invece, preparato al peggio, ho scoperto in Annabelle
un gioiellino, tecnicamente
parlando. I colori pastello, le tracce audio che si impennano e fanno
sussultare, la macchina da presa come un imprevedibile terzo
incomodo, un'ambientazione vintage che è il suo vero asso nella
manica. Così agghindato a festa, riesce a sembrare con classe un
horror demodè, pieno di spifferi e eleganza. Orfano della presenza
del prodigioso James Wan, trova un importante sostituto in John R.
Leonetti: che ha avuto a che fare con l'autore di Insidious
& Co si nota anche al
buio. Quei movimenti di macchina, quella vita di freschi sposini,
quel gusto frizzante di giocare col cliché senza usurarlo. La storia
avvince e diverte, pur non essendo neanche alla lontana originale.
Annabelle
è la “sposa cadavere” della Bambola
Assassina con la mamma di
Rosemary's Baby, ma
i diavoli e le ombre libere, le scale a chiocciola e gli ascensori
che si aprono ai piani sbagliati sono di colui che il giocattolo
demoniaco ce lo mostrò per primo. Protagonista quasi assoluta,
l'adorabile e poco nota Annabelle Wallis (cavolo, si chiama così
pure lei!) - elegante come la Watts, bella come la Pfeiffer prima
della chirurgia. Lieve e scorrevole, classico e fatto bene, piacerà
a chi saprà cogliere e apprezzare le citazioni buttate qui e lì e a
chi, ad occhio, distinguerà l'omaggio dal fac-simile. Anche per
copiare ci vuole talento, e qui qualcuno ne ha parecchio. (6,5)
Caroline
sente di avere una colpa da scontare. Troppo candida per darsi alla
medicina, in un mondo che la vorrebbe più cinica, trova lavoro
presso la casa dei Deveroux. Due coniugi che, soli, vivono nel mezzo
di una palude, in una New Oreans che crede ai fantasmi, ai sortilegi,
alla magia nera. Lui, bloccato su una sedia a rotelle da un ictus, ha
rari momenti di lucidità. La moglie, arcigna e severa, stenta ad
accettare un'estranea in casa, un po' per posizione presa, un po'
perché – nel suo cuore d'acciaio – ha paura di dire addio
all'amore della sua vita. Ma c'è qualcosa di strano e quella casa
senza specchi, che vive in un passato in bianco e nero e si anima di
scricchiolii, nasconde un lugubre segreto. The
Skeleton Key,
pellicola di un decennio fa, è un film che, a discapito delle
aspettative, resiste coraggioso alla prova del tempo. In un ambiente
in cui si riciclano idee, in cui gli horror sono da vedere e
cestinare, il film di Softley sa farsi ricordare. Lo vidi, nel 2005;
l'ho rivisto adesso. Sapete che lo ricordavo? Questa volta, complice
un amore per la suggestiva America del Sud accresciuto di libro in
libro, l'ho apprezzato perfino di più. Snobbato, liquidato con
sufficienze ingenerose, per me ha atmosfere e temi che lo rendono una
piccola, preziosa gemma gotica. Fa il suo, certo, uno dei twistfinali
tra i più validi e meno noti di sempre. L'epilogo, scorretto e
imprevisto, resta impresso. Così è stato con me che, nonostante
tutto, ho potuto guardare il film da un'ottica diversa, godendomi
quelle punte perfette di ironia tragica, gli indizi e i doppi sensi,
i giochi non più imperscrutabili degli spettri. La colonna sonora,
immancabilmente blues, dà alla testa. E poi c'è una magistrale Gena
Rowlands che, a un anno dal romantico The
Notebook,
con autoironici richiami intertestuali, torna a parlare di amori che
non muiono e anime gemelle, ma con il fare di “mamma chioccia” (e
carceriera) della Misery
di Stephen King. Accanto a lei, una Kate Hudson giovane, bella e
convincente, che si lascia andare alla superstizione, mentre la
tensione e la paura crescono. Perché è quando hai paura che cominci
a credere. Un film cinico, sinistro e inquietante, dall'impianto
classico e dai risvolti originali, che ricerche meticolose in un
panorama fertile di miti, mostri e leggende e la fascinosa fotografia
di una magica New Orleans che perdura rendono assolutamente
intrigante a una prima visione; irragionevolmente irresistibile alla
seconda, alla terza, alla... (8)
Di
solito, i film italiani li evitate. Soprattutto se sono horror.
Invece questo Neverlake,
dopo averlo intravisto sul web, l'ho recuperandolo sapendolo pensato,
girato e prodotto da noi. Non è patriottismo. E' fiducia. Il film di
Riccardo Paoletti, girato in inglese e distribuito all'estero, ha un
cast di interpreti stranieri e una trama semplice che ruota attorno
all'esistenza di un lago etrusco, nelle campagne sperdute di Arezzo.
Riti, credenze, superstizione. Quello che un'adolescente americana,
dopo la morte della nonna, si trova a dover combattere, nel momento
in cui la convivenza con un padre che non conosce e la sua nuova
compagna è stata l'unica soluzione. Tranquilla e amante della
poesia, la protagonista conoscerà sulle sponde di quel lago che –
a volte – si anima, quand'è notte, una banda di bambini sfortunati
e malaticci che la vogliono come amica. Chi sono, e perché vivono da
soli in quello che ha l'aria di essere un orfanotrofio abbandonato?
Cosa nasconde Peter, un misterioso coetaneo che non potrà mai amare?
Neverlake, un
po' horror, un po' urban fantasy, è un prodotto modesto e dignitoso,
con difetti numerosi concentrati quasi tutti nella prima parte.
Dialoghi forzati e sottolineati da un doppiaggio da réclame
televisiva, una mancata relazione amorosa che fa parecchio il verso a
Twilight, un
mistero che all'inizio non prende. Accanto alle falle e alle
sbavature, però, c'è un finale a sorpresa interessantissimo, con
schizzi di sangue e di soprannaturale, che ha magia, emozione,
elementi gore. Cosette che mi sono piaciute, insomma. Non fa paura,
lo si guarda con occhi generosi perché con poco ha saputo fare
abbastanza, ma l'intento dell'esordiente Riccardo Paoletti è
lodevole. Nebbiosa la fotografia, originale il tema, tangibile
l'impegno. Un po' di cura aggiunta, la prossima volta, è il voto
complessivo sarà meritato ancora di più. (6)
A
me il musical piace un casino. Ma c'è, per ragioni risapute, anche
chi lo detesta. Gente che canta senza un perché, canzoni che vanno a
sostituire i dialoghi, una domanda che vedo sbandierata ovunque:
perché cantano continuamente? Io, per le rime, risponderei: è un
musical, e tu perché lo guardi? Okay, però: questa è un'altra
storia. Fatto sta che questo Stage Fright, teen horror sui generis fresco
e originalissimo nelle premesse, potrebbe mettere d'accordo sia chi
il genere lo apprezza, sia chi il genere non lo regge granchè.
Uccisioni, sangue sparso, siparietti musicali, musical un po' Disney
contro rock roboante e crudissimo: ecco come si fa la pace. Anche se non
ai livelli di Repo – The Genetic Opera, irripetibile e
geniale, il film propone un mix innovativo: lo splatter che arriva
sulla punta di un coltellaccio in un campus musicale. Si canta in
rima, e tanto, e come nell'opera lirica si muore pronunciando, nel
momento estremo, note su note. Lo si fa, però, con tanta autoironia
e con pezzi scritti dal nulla per l'occasione - dissacranti,
disgustosamente orecchiabili e allegri, cinici nelle viscere. La
trama prende e non, il finale te lo aspetti da metà in poi, ma la
simpatia del progetto si fa apprezzare. E si fa cantare. Il film che
fa a pezzi Camp Rock e High School Musical e
che trasforma l'odio dei detrattori in una specie di ammissione di
colpa. Il musical è bello, perché trasforma uno scialbo filmetto di
genere in qualcosa di più personale e curato. Divertito, canterino,
truculento. Un taglio da cui sgorga un talento che prende in giro sé
stesso. (6)
Una
famiglia americana in vacanza in Francia viene sterminata. Accusato
dell'omicidio, in una notte di luna piena, un boscaiolo del posto.
Un'avvocatessa investigherà, in un'indagine tra malattia mentale,
cannibalismo e licantropia. Ci sono interessi in ballo: che la
Polizia parigina voglia mandare dietro le sbarre un innocente? Wer,
diminutivo del sostantivo “werewolf”, è un horror discreto.
Nonostante il nome del regista sia collegato all'orrido L'altra
faccia del diavolo,
l'autore dell'altrettanto dimenticabile Stay
Alive è
un tipetto che ama l'horror e, soprattutto, il suo mestiere. E' uno
che si impegna come può. Al giorno d'oggi, impossibile trovare un
horror originale; raro trovarne uno fatto con un pelino – perdonate
il gioco di parole – di buon gusto. Wer
è
un aggiornamento della storia dell'Uomo
lupo
The Wolfman nella
campagna francese, all'era del found fotage. Ignorantissimo, ho
pensato di trovarmi davanti alle stesse scene traballanti di un Rec;
invece
la pellicola di Bell si aggrappa alle telecamere dei commissariati,
alle immagini trasmesse dai telegiornali internazionali, ai cellulari
e all'irrinunciabile, vecchia macchina da presa. Scorrevole e pulito,
strizza poco l'occhio alla moda del “più traballi e più
spaventi”, come la chiamo io, e gioca con il dramma giudiziario,
con il fantastico, con la leggenda. Con uno stile che non dà il mal
di mare e un input dei più semplici e accattivanti, Wer
intrattiene
e diverte pure, con il sangue nelle dosi giuste, l'azione, il trucco
artigianale. Naturale la recitazione richiesta al modesto cast, in
cui spiccano volti del piccolo schermo: A.J Cook, Vik Sahavy (il
mitologico Lester di Chuck),
il francese Sebastian Roché. Un film su un abominevole uomo lupo non
particolarmente abominevole. (5,5)
Durante
le vacanze, una giovane studentessa rimane nel suo campus
universitario. Ha in mente una seratina tranquilla, televisione e
nanna. Questo finché, completamente sola, non si scopre braccata,
tra le aule, le stanze e i corridoi, da una setta che miete vittime
tra le più giovani. Le ragazze come lei – quelle belle, fortunate,
intelligenti – non sono al sicuro. Fronteggiarli o lasciarsi andare
a un destino di morte? Kristy,
diretto dal regista del controverso Donkey
Punch,
è una caccia all'uomo (o alla donna) che dura pochissimo e non si
farà troppo ricordare, ma malaccio non è. Lineare nella struttura,
prevede – come da copione – i carnefici diventare, a mano a mano,
vittime di una paura che si scopre, per Justine, istinto di
sopravvivenza. Manca la cattiveria, quella che fa danni, e il finale
è troppo frettoloso, senza un testa a testa, un confronto tra loro:
le bellissime Haley Bennett (Scrivimi
una canzone)
e Ashley Greene (Twilight).
La prima, invantevole e anche notevolmente brava, con qualcosina della collega Jennifer Lawrence, è la donzella in
pericolo. L'altra, altrettanto avvenente ma talentuosa molto meno,
convince poco nei panni di un'assassina tutta piercing e ispirazione
punk. I maschi sono di contorno, ma è il conflitto tra le due,
purtroppo, a mancare. Finisce in un filo di fumo e via. Un'erede
delle scream
queen
di una volta, la tensione che c'è anche se tutto è assai
prevedibile, una fotografia curatissima e la Weinstein, sicurezza, a
produrre. Un thriller tollerabile anche dai più deboli di stomaco.
You're
the next e
Stangers
in
versione matricole, con il pop nelle cuffie. (5,5)
James
Franco e Kate Hudson sono una bella coppia, ma con una brutta casa,
una brutta macchina, una brutta situazione finanziaria. Arrivati a
Londra, dopo la mancata nascita di un figlio e il fallimento
dell'impresa di lui, si arrangiano come possono: lui è un architetto
che fa l'imbianchino, lei è maestra elementare, e il piccolo
appartamento che hanno dato in affito, per racimolare qualcosa, viene
occupato da un mezzo criminale che, tirata la quoia per overdose,
lascia un mare di soldi e più di qualche guaio. I coniugi Wright, in
quella Londra grigia e ostile, sono bravi ragazzi che,
improvvisamente, avranno a che fare con gente cattiva. Due
trafficanti in lotta, la polizia, i creditori. Cosa faresti per non
rinunciare a duecentomila sterline sporche di sangue? Good
People non brilla per
originalità, no di certo, ma con alla regia un regista danese dal
nome impronunciabile, autore di disparati sceneggiati e polizieschi
che non hanno mai trovato un angolo presso i nostri distributori,
risulta un prodotto gradevolissimo e ben confezionato. Fotografia
cupa, una durata che vola, un epilogo con spruzzi di sangue,
sparachiodi e trappole incorporate. I personaggi o sono completamente
buoni, come il poliziotto Tom Wilkinson che prende i protagonisti
sotto la sua ala protettiva, o completamente cattivi, come l'Omar Sy
di Quasi Amici che
gioca a fare il mafioso. Un po' banali, tanto prevedibili, ma
interpretati da buoni attori che, con copioni anche stringati,
risultano credibili, chi più e chi meno. Good
People, thriller al tempo
della crisi, è un film d'azione appassionante e nella media, comodo
in scarpe e sceneggiature di seconda mano. Senza infamia e senza
lode, con due protagonisti avvenenti e uniti, che si danno – per
amore – alle fughe e al brivido. (6)
Un
paio d'anni fa, era uscito al cinema un filmettino dell'orrore di
quelli estivi estivi, che vedi e dimentichi, perché anche il sangue
si lava via, alla fine. Godibile e divertente, si era rivelato un
intrattenimento sufficiente. E per una volta, all'apparenza, non si
voleva marciare su un forzatissimo sequel. Questo accadeva nel
lontano 2006, quando io seguivo con mio fratello gli incontri di
wrestling e la presenza del gigantesco Kane – due metri e tredici
-, nei panni dell'assassino di turno, ci aveva convinti a guardarlo.
See no evil, da noi Il collezionista di occhi, non era
male. Otto anni dopo... Io non guardo più il wrestling, e figuratevi
se ho ripensato ancora a quel film in particolare. Sbuca dal nulla un
seguito, mio fratello chiede lo guardiamo?, io dico di sì,
ritornando con la testa a un periodo in cui andavamo più d'accordo e
ci divertivamo di più. Guardando questo film, è intervenuta nel bel
mezzo della visione un po' di sana nostalgia. In casa nostra, non la
alimentano i filmini di matrimonio, ebbene sì, ma gli horror.
Possibilmente quelli trash. See no evil 2, arrivato tardi e
atteso da pochissimi, è inutile come lo si immagina, ma vagamente
dignitoso. Personaggi che ti auguri muoiano dal primo all'ultimo,
gente che ci dà dentro negli obitori, killer che resuscitano
dall'aldilà con mamme che – dalla tomba – continuano a dettare
legge. Solita cosetta, ma guardabile, anche se sai già come va a
finire e le uccisioni non sconvolgono. Attrici starnazzanti, super
fighi che si piegano sotto il colpo delle accette, volti del piccolo
schermo prestati alla classica Lionsgate. L'atleta della WWE,
paradossalmente, è uno dei pochi attori convincenti. Prepariamoci
all'invasione dei sequel. Jacob Goodnight come Jason e Michael Myers? Ma sì. E lo dico perché non voglio fare incazzare Kane. (4,5)
7500
è un film anonimo, anche se non
inguardabile. A pesare è il nome, alla regia, di una delle
potenziali grandi firme del cinema dell'orrore. Dov'è Takashi
Shimizu, creatore e regista di The Grudge?
Scendono i titoli di coda, dopo un'ora e diciassette, e spunta il suo
nome. In 7500 di suo
c'è forse solo quello. Certo, ci sono le mani bianchicce che sbucano
fuori, gli spauracchi, le ombre e i fantasmi, ma la pellicola sembra
il prodotto di un cineasta alle prime armi con la passione per Final
Destination. Non male per un
esordiente, fiacco per un regista che gli appassionati stimeranno
molto. La storia è quella di una ghost story ad alta quota. Dal
trenino fantasma, all'aereo degli orrori. Ma i salti dalla poltrona
li creano soprattutto le turbolenze, gli effetti speciali fabbricano
perlopiù nebbioline fitte e perpetue che danno tanto l'effetto del
ghiaccio sintetico, il cast non resta impresso. Qualche nome noto
c'è: Ryan Kwanten (True Blood),
Amy Smart (Crank),
Jamie Chung (Sucker Punch),
Jonathan Schaech (Obsession).
Compito semplice, il loro, che però convince in un finale che vira
verso l'ovvio dramma. Tra Lost,
Passengers e Red
Eye, un film troppo veloce per
pesare: quello il suo pregio. Elementi mitologici inseriti a forza,
ma piacevoli. Volti noti. L'impressione di averlo già visto altrove
che è per sempre. (4,5)
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