Mr Ciak #49: Resta anche domani; Due giorni, una notte; Dracula Untold; What If; Dieci Inverni; Eliza Graves; Jessabelle

Creato il 22 novembre 2014 da Mik_94

I libri sono sempre superiori ai film, e dove sta scritto? Questo è l'anno delle smentite. Colpa delle stelle, The Giver. Due esempi bastano per dire che certe storie funzionano meglio al cinema che sulla carta. Pensavo fosse questo anche il destino di Resta anche domani - una lettura toccante e fresca che, a causa dello stile, era volata via, conquistandosi le consuete tre stelle. Ma c'era il film in arrivo e mi mandava vibrazioni positive. Quel trailer conciliava le lacrime, e ogni tanto le lacrime fanno bene. A me piace emozionarmi. A sorpresa, invece, mi sono accorto che Resta anche domani non è il terzo titolo da aggiungere alla mia lista di eccezioni. Il film non mi ha pienamente convinto, ma si lascia guardare con piacere, pur essendo potenzialmente noioso in un punto o due. Il difetto? E' troppo generoso. Ma anche il libro lo è, solo che il discorso è diverso. Ci sono tanti capitoli, c'è tanto tempo per dire le cose. La trasposizione cinematografica vorrebbe accontentare tutti, ma non può; fallisce nell'impresa e il tempo passa lento. La struttura alla rinfusa funziona poco al cinema, generando ripetizioni in un montaggio che si rivela macchinoso. I personaggi secondari risultano ben caratterizzati, ma si toglie spazio agli adorabili familiari della protagonista per mettere sotto la luce dei riflettori una coppietta di bellissimi adolescenti che si fa volere bene; che ruba il tempo, ma non le giuste attenzioni. La violoncellista Mia, narratrice di rara sensibilità e empatia, risulta un tantino leziosa qui, perfettina; ma ha il volto dell'incantevole Chloe (non so mettere la dieresi sulla "e") Moretz e passare due ore in sua compagnia è cosa tollerabile. Il suo partner, Jamie Blackey, è un Adam meno da sogno e più vero. L'attore, notevolmente talentuoso, sorprende con una vocalità interessantissima. I sei anni di differenza tra lui e la protagonista non si notano neanche. L'inedita accoppiata violoncello-chitarra, inoltre, ci regala una acustica di Today che ha meritato un posto istantaneo sul mio iPod. La trasposizione, invece, scorre via con la lentezza del miele, ma non causa carie preoccupanti, né conquista un posto permanente e duraturo sullo scaffale dei film sentimentali. Gli attori convincono (bravissima la Mireille Enos di The Killing, tra l'altro), la colonna sonora è degna di nota (e anche se i protagonisti sono liceali sono assenti pezzi dei One Direction, occhio!), ma la regia di R.J Cutler rende il film un prodotto che, ad intermittenza, si accende e si spegne. In gioco, c'è la potenza del melò, un genere che vive di un'intensità che esige di essere costante: sempre. Tutto questo, però, non impedirà a me e Chloe di convolare presto a nozze. Mettiamolo in chiaro! (6)
Il giorno in cui perde il lavoro, Sandra inizia a piangere. E per non piangere davanti ai suoi bambini, si barrica dove nessuno può vederla. Lì ritrova, nei cassetti della biancheria, nei mobiletti dei medicinali, dietro i reggiseni e gli spazzolini in più, quelle pillole intrappolate in una scatola arancio che l'hanno fatta stare bene qualche tempo prima, quando il mondo le è crollato addosso e lei si è accucciata sotto una frana rovinosa. Qualcuno l'ha aspettata. Ha aspettato, sì, che si risollevase, e iniziasse a mangiare, e riprendesse a sorridere. Un marito con cui non fa l'amore, anche se l'amore c'è; due figli che crescono a vista d'occhio; una casa – sogno di una vita, frutto di sacrifici – che richiede spese e spese. Altro, invece, non l'ha aspettata. Un lavoro che, alla fine del tunnel, oltre la soglia della disperazione, è evaporato; svanito. La fabbrica che non ha atteso la ripresa lenta di Sandra e per lei, così, c'è altra disperazione in agguato. Che senso ha la sua vita se non può fare nulla per la sua famiglia? Perché svegliarsi, abbandonare il pigiama, trovare la voglia di respirare? Due giorni, una notte è il dramma di una giovane donna allo sbando, la sua missione impossibile dal venerdì pomeriggio al lunedì mattina. Un weekend appena per tentare di convincere i colleghi a rinunciare a mille euro e lasciare che lei, dopo quel fine settimana di pellegrinaggio porta a porta, ritorni alle sue otto ore giornaliere nel grigiore della periferia industriale. I fratelli Dardenne riportano il neorealismo al cinema: fanno, infatti, un cinema che non è cinema, con una pellicola di un'intensità impressionante ma una trama che, pur appassionando, ha la peculiarità rischiosa di svilupparsi in maniera schematica. La protagonista deve fare la stessa domanda a quindici persone e prestare ascolto: come risponderanno al suo appello? Come risponderesti tu? Eroina per caso, un incanto di nome Marion Cotillard. Che si dimentica, qui, di essere una delle donne più affascinanti del cinema mondiale e, tutta ossa sotto quella sottile canottiera rosa, con i capelli stopposi e il trucco invisibile, scompare per scoprirsi fragile, potentissima, impressionante. Senza urlate scene da Oscar o manierismi, con una strada dritta da percorre e quindici vite da condividere. Due giorni, una notte – film da me attesissimo – è tutto ciò che la copertina annuncia, ma anche di più. Un dramma umano, cristallino, solidale, reale e struggente, che ti fa disperare per le chiamate rifiutate, le porte sbattute in faccia, i citofoni ignorati, i “no” nudi e crudi e per quegli impensati, commoventi gesti di gentilezza che, sollievo, ti accarezzano l'anima. Che il lieto fine ci sia oppure no, allo spettatore finisce per importare poco o niente. C'è sollievo. C'è fiducia nei nostri simili. Perché c'è chi dice “no” e chi dice “sì”, perché c'è chi sa che una persona non ha prezzo e che mille euro non ti renderanno definitivamente più felice. Il cinema francese è così, un gran bel mistero. Guardando il film ero affranto e rilassato insieme: quando ti abbandona, dopo un'ora e mezza, sei leggerissimo. Un palloncino colorato contro la crisi. Sandra ha imparato a guardare negli occhi gli altri, a chiedere aiuto anche se si vergogna, a palesare le sue fragilità e tu hai imparato ad ascoltare. Alla domanda, adesso, sapresti cosa rispondere. Quanto vale un essere umano? (7,5)
Io sono uno spettatore privo di pregiudizi. Anche se sapevo che Dracula Untold non era il film dell'anno, né il degno epigono del capolavoro di Coppola, l'ho visto, perché nei pomeriggi morti della mia domenica – scorrevole, innocuo e ben fatto com'è – ci stava bene. Qualcuno aveva apprezzato. E io? Non posso dire di averlo odiato. Non gli si vuole male e, con calma e sangue freddo, si ammette una cosa: è un reboot; è logico che il personaggio della leggenda abbia una nuova vita. La pecca dell'esordio di Shore è che cambia le carte in tavola, pur non dandoti nulla di innovativo. Vlad mi diventa un edulcorato personaggio da fumetto, un supereroe ante litteram. A questo punto, non sarebbe stato utile raccontare la vera storia del personaggio? La sete di sangue, la guerra santa, il prologo reale di una storia fantasy? Domande buttate al vento, le mie. L'inedita vicenda del film è molto poco inedita. Una storia d'onore e potere come mille altre, ma con un protagonista che – con il suo nome noto – attira spettatori. Si poteva chiamare anche in un altro modo, per quel che valeva. Appesa al chiodo la sua carriera di assassino, Dracula si rifugia nel suo regno, finchè la minaccia del nemico non lo porterà alla via del vampirismo per proteggere chi ama. Il nuovo Dracula, però, non ha sfumature. E' monocorde, capace solo e soltanto di lodevoli intenzioni, senza cicatrici profonde. Personaggio da fiaba, non diventa mai l'antagonista, proprio come la Jolie in Maleficent. Non c'è tormento, non c'è pathos: allo spettatore, sedotto dagli ottimi effetti visivi, importa poco di quel che succede intorno. Sotto il vestito bellissimo non c'è altro. E i costumi, curati, sono belli davvero: roba chic che H&M non porterà mai, tipo. Sono un bel vedere anche Luke Evans e Sarah Gadon, che però comunicano poco, imbrigliati in personaggi angelicati, eterei, senza carisma o autentica umanità. E' un The Amazing Dracula-Man più che un Dracula Untold. Ci sono Gwen Stacy che cade, il morso del “ragno”, nemici con la faccia da schiaffi. Ma mentre Spiderman sa farti ritornare bambino, lo stesso non si può dire di Dracula Untold. Non ci sono più i bambini di una volta – e i cattivi di una volta – e l'eroe dark della Universal non saprebbe intimorire neppure quelli. (5)
Wallace e Chantry si conosco a una festa di amici di amici. Lui, disperato e alquanto patetico, vive nella soffitta della sorella e fa lavori noiosissimi, dopo una mancata laurea in medicina e un tradimento che gli ha frantumato il cuore in un centinaio di minuscoli pezzi. Lei, fidanzatissima, vede quell'omuncolo dall'accento inglese come un amico. Ma perché ogni tanto vorrebbe solo dargli un bel bacio sulla bocca e farlo tacere così, nel modo più dolce? E perché è gelosa se quella mezza ninfomane della sua sorellina ci prova spudoratamente con lui? Cioè, lo dico. Io ho sentito che avrei adorato What If sin dalla locandina. Guardatela: loro due agli estremi di un tavolo, saliera, ketchup e maionese di mezzo. Immaginavo un Harry ti presento Sally in miniatura: sveglio, intraprendente e parlato fino allo sfenimento. Tutto è filato liscio, come da programma. Michael Dowse dirige una commedia che ha personalità. Metropolitana, romantica e assurdamente adorabile. Una pellicola che vive di animazioni lampo, giochi di parole e poesie scarabocchiete sui frigoriferi delle case altrui, sulla regola dell'amico, l'amore a prima vista, i panini da Guinness, i discorsi sull'ultima cacca di Elvis, le svolte che ci fanno crescere. Frizzante, colorato, divertentissimo, ha il suo dolce e immancabile lieto fine, gag esilaranti e dialoghi sopra le righe, assurdi come piacciono a me, che sono gioellini di destrezza e scrittura. I protagonisti spiccano. Radcliffe è sempre più convincente: lo guardo e, miracolo, non penso più ad Harry Potter. Penso a Daniel Radcliffe e basta, che sta diventando davvero un bravo attore. Accanto a lui, la Zoe Kazan di Ruby Sparks: messa al mondo per film del genere, lei; una versione allampanata e maliziosa della quasi omonima Deschanel. (6,5)
Camilla e Silvestro sono come tutti i ventenni di questo mondo. Impacciati, insicuri su come muovere i primi passi lontani dal nido, invincibili. Con la stupida convinzione di avere tutto il tempo o quasi davanti a loro. Perché non rimandare, dunque? Perché dirsi di piacersi, perché perdersi e rincorrersi, perché dare un lieto fine alla loro storia d'amore dal primo minuto in cui un'inquadratura li rende vicinissimi? Tanti punti di domanda, una scusa grossa e banale. C'è tempo. Precisamente dieci anni. Precisamente dieci inverni. I protagonisti del film d'esordio di Valerio Mieli si risvegliano dal loro letargo quando fa freddo. Vivono per la neve, i denti che battono, gli abbracci per scaldarsi, i letti condivisi per contendersi il calore di un'unica coperta. Lui perde il vaporetto, lei lo ospita a casa sua: condivideranno lo stesso letto, in uno dei più rigidi dicembre che Venezia ricordi, ma senza toccarsi mai. Si separeranno la mattina successiva, per poi sfiorarsi e scontrarsi nei due lustri successivi. Inquadrati soltano quando il fiato si condensa, le piazze si svuotano e le strade si imbiancano: nel loro habitat naturale. Dieci Inverni ha una struttura che ricorda One Day e un'idea del romanticismo, con dialoghi pungenti e ripensamenti continui, che fa venire in mente Le ho mai raccontato del vento del Nord. Niente di originale sotto il sole, se non fosse per un minuscolo dettaglio: è una pellicola italiana. Atipica, completamene nuova. Di una delicatezza e un candore non contemplati dalle nostre parti. Caratterizzati in modo buffo e trasognato – lui che alleva lumache, lei che sogna la Russia – sono personaggi a metà tra l'adorabile e l'alieno. Gli anni che volano, le strade che ci portano dove non vogliamo, il cuore che non conosce le scorciatoie ma sa qual è l'unica destinazione valida. Un film sentimentale dai colori assai tenui, in cui sale e miele si stemperano così, un po' come capita. E Michele Riondino e Isabella Ragonese, adesso insieme in Il giovane favoloso ma all'epoca sconosciuti, sono quasi più abbaglianti di tutta quella neve. A non piacermi del tutto, l'epilogo. Forte l'impressione che un film così particolare meritasse una chiusa più, come dire?, audace. (6,5) Un medico di grandi speranze e il suo apprendistato presso un manicomio. L'incontro con la follia, quella vera, che i manuali accademici non mostrano. Le pratiche inumane e la crudeltà, le bugie spacciate per cura, le identità negate a forza. Ma nello Stonehearst Asylum niente è come sembra. Raccontano una verità diversa dalla sua una bellissima paziente chiusa tra quelle mura da un marito normativo e i malati bloccati nelle segrete che, di notte, chiedono aiuto. Nello Stonehearst Asylum i pazienti si sono ribellati e hanno preso possesso dell'ospedale, facendo di infermieri e dottori i loro sottoposti, in un gioco di prospettive al contrario. Per ripagarli con la loro stessa moneta e per dimostrare che il concetto di follia è pura convenzione. Fare il doppio gioco, confondersi con gli altri, non innamorarsi delle promesse carezzevoli di Eliza Graves: sarà un complesso e lungo soggiorno quello di Edward Newgate nel manicomio in cui gli equilibri vengono sconvolti. Eliza Graves, tratto da un racconto del maestro Edgar Allan Poe, è un prodotto più che notevole per chi, come me, camperebbe di quelle fumose atmosfere. Suggestivo, misterioso, vagamente inquietante, è il gioco del gatto con il topo, ma anche un dramma – tra grottesco e denuncia - con elementi con cui vado a nozze. L'ho apprezzato per due motivi, principalmente: Kate Beckinsale, bellissima creatura immortale destinata a non invecchiare, con i suoi quarantuno anni che non si vedono, e le impressioni gotiche di cui è interamente impreziosito. Ricorda i vecchi horror della Hammer e diverte, sul finire, con uno o due colpi di scena inseriti con sapienza. Bravo, al solito, Jim Sturgess e, accanto a lui, grandi attori che compongono un buon cast. Qualche scena di troppo, una bellissima storia d'amore e pazzia destinata a un epilogo romantico, la voglia di omaggiare un genere spesso bistrattato con un American Horror Story: Asylum senza cattiveria, ma con savoir faire. (7-)
Dopo un tragico incidente che le ha stravolto la vita, Jessabelle – una giovane donna che ha perso suo marito e l'utilizzo delle gambe, nella violenza dell'impatto – va a vivere con suo padre, un uomo burbero e iracondo che vive nelle paludi della Louisiana e a cui il nonno di Heidi, in confronto, fa un baffo. Bloccata su una sedia a rotelle, la protagonista viene a conoscenza delle sue reali origini e, grazie a una serie di vecchi nastri, crea un contatto con la madre, morte di cancro quando lei era una bambina. Dalle videocassette, quella donna che vive solo nel passato riesce a predirle un futuro terribile e ad avvertirla. In quella casa c'è una presenza che vuole qualcosa da lei. Finché è in vita, sarà di troppo. Jessabelle, parente alla lontana di Annabelle, con la nuova stella di porcellana dei film dell'orrore ha poco in comune, rima a parte. Kevin Greuter – regista di alcuni dei Saw più dimenticabili – non ha un grammo della personalità di James Wan e si nota, la cosa, in una regia scolastica e priva di guizzi. Nonostante tutto – nonostante l'originalità latiti, nonostante la mente corra a The Ring, al tailandese Alone e, soprattutto, al fascinoso Skeleton Key – sapete che Jessabelle non dispiace? Personalmente, mi sono interrogato su Hollywood e i suoi spudorati plagi – remake lampo non dichiarati: così va meglio? - ma la trama ha fascino e il colpo di scena finale funziona. Peccato che, svelato quello, si sappia già com'è che andrà finire. In un film di qualche anno fa accadeva lo stesso, e per motivi pressoché identici. Ma, da inguaribile amante delle atmosfere e delle leggende di New Orleans, quello sfondo umido e cupo ha permesso che non borbottassi troppo. La rossa Sarah Snook è una protagonista senza carisma, ma che eppure si sforza, e il simpatico lavoro di bricolage degli sceneggiatori sfocia in un epilogo amarognolo, prevedibile e tutto, ma d'impatto. (5,5) 

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