Mr Ciak #50: Gone Girl, Lo sciacallo, Magic in the moonlight, St. Vincent, The Babadook
Creato il 12 dicembre 2014 da Mik_94
Vi
avevo detto che stavo lavorando a una serie di post, e questo è il
primo. Un nuovo, ricchissimo appuntamento con Mr. Ciak. Ci sono film imperdibili, vi avverto. Tre di
questi, Gone Girl, Lo
sciacallo e
St.
Vincent,
sono tra le pellicole in lizza per i Golden Globe: i titoli sono
stati annunciati proprio l'altro ieri, e la curiosità è alle stelle. Qui si
parla della straordinaria prova di un Jake Gyllenhall che risulta più
brutto e più bravo; dell'attessima trasposizione di L'amore bugiardo e di una Rosamund Pike da paura; dell'ultimo lavoro di un Woody Allen in
ottima forma; di una commedia più o meno indipendente; di un horror a cui però quest'etichetta, per
una serie di ragionevoli motivi, sta strettina. Leggete. Fatemi sapere la vostra. A presto
e buona visione, M.
Amo
pianificare, ma l'amore fa male. Pianifico dall'estate scorsa di vedere Gone
Girl.
Il conto alla rovescia era partito da quando avevo letto l'ultima
riga del romanzo e mormorato un semplice wow che diceva tutto. L'amore
bugiardo era
uno di quei libri che ispirano e, prestato al grande schermo,
diventa uno di quei thriller puri, onesti, di parola, che vanno alla
radice stessa del termine thrill:
“fremere”, “appassionare”. Stai
seduto e ti agiti nella tua poltrona. In sala
potrebbe partire una tifoseria da stadio. Quando scoppia la guerra,
meglio sapere da che parte schierarsi. E
Gone Girl è
guerra fredda. Un piano criminale a prova di sentimento. Al
contrario, i miei piani erano destinati a essere stravolti, quella
volta, senza troppa premura. Posticipato, il film meno per famiglie
dell'universo conosciuto è slittato da ottobre a dicembre: la
ragazza scomparsa, col suo volto di porcellana, che fa capolino dai
poster delle commedie di Natale. Qualcuno lassù ha uno strano senso
dell'umorismo. Per festeggiare il mio trenta all'esame di Inglese,
quel giorno avevo sopperito alla mancanza dell'ultimo Fincher al
multisala di fiducia con Skype e gelato. Vedete, pensavo a Gone
Girl
come un matto: una volta che incontri Amy Dunne è così.
L'ho trovata bellissima, algida e fastidiosamente perfetta nei tratti leziosi dell'inglese Rosamund Pike. Finalmente. C'è
mistero in lei, ha segreti che solo il suo caro diario sa. Il
regista sceglie inaspettatamente questa bionda che viene da lontano. E le
affida un film. Gone
Girl è
essenzialmente cosa di donna, e lei – scrollandosi di dosso tutta
una serie di calibrati ruoli da comprimaria – si mette al centro
della scena, le spalle dritte, il mento in su, il collo da cigno
teso, e sembra dire: questo è tutto mio. Spavalda e egocentrica,
insospettabile e forte, la Pike è una sorpresa che spiccherà nella stagione
dei premi. Diverte, terrorizza, seduce come la Stone dei tempi d'oro; se non fosse per un
dettaglio: il lontano da cui viene non è solo Londra. Lei è una
delle bionde di vetro di Hitchcock, ghiaccio che va a fuoco. Chi le
avrà fatto del male? Per Barbare D'Urso impenitenti e Salvi Sottile
d'America, è opera di un mostro. Quel marito aitante e sospetto. Ben
Affleck è Nick Dunne. Un ragazzone buono, con i
modi bonari e il sorriso un po' beota di cui tutti si fidano, e che
merita tutto il bene e tutto il male del mondo: un ruolo intenso come
questo, ad esempio, e le accuse di un'agguerrita ex come Jennifer
Lopez. Tra moglie e marito non mettere il dito, si dice, ma a loro
rischio e pericolo nel film si intromettono il significativo
personaggio della sorella di lui, due poliziotti, un improbabile salvatore di donzelle che ha il
volto familiare di Neil Patrick Harris: moncherini tranciati restano di loro. Personaggi scaltri, simpatici,
che fanno da giuria a un processo in un salotto borghese. L'istituzione del matrimonio chiamata in giudizio. Ci si
toglie le maschere, la farsa è svelata, ma a questa cinica fiera dei
sentimenti umani non puoi che occupare un posto in primissima fila
per non perderti un attimo. Un coccio di cuore lanciato in aria, uno
sparuto rimasuglio di fiducia, un lapillo fumante di romanticismo. Gone
Girl è
un teatro dei burattini che smantella tutto ciò che è perfezione
apparente, anche se alla perfezione penso sia vicino. E da una
leggenda come David Fincher chi osava aspettarsi qualcosa di meno? La
cattiveria e la potenza della storia non avrebbe lasciato
indifferenti neanche nella più misera delle trasposizioni, invece il
regista di Fight
Club
e Seven
mette
al servizio del genio creativo della Flynn le certezze
di una carriera infinita. Si parlava di cambiamenti e nuovi colpi di
scena, ma chi ha letto il romanzo non troverà nulla per cui stupirsi
ulteriormente. Per chi non l'ha letto, invece, invidia: è
un campo minato, un'autopsia a cuore aperto della convivenza, e
sperimenterete quell'assurdo miscuglio di brividi e risate che vorrei
provare ancora. Gone
Girl è
una tragicommedia dal gusto vagamente teatrale, in cui una
principessa delle nevi che si scopre irresistibilmente sboccata e un
amplesso che si conclude in un gustoso bagno di sangue arterioso non
tolgono grazia al resto. A metà tra un raffinato La
guerra dei Roses e un orrorifico Revolutionary Road, è come una prima notte di nozze in cui il tuo amico, lì sotto, fa cilecca.
Un incubo all'ombra dei fiori d'arancio. Cos'altro è una storia
d'amore se non lo spunto perfetto per un thriller, chiedeva Donato
Carrisi al suo pubblico? In entrambi i casi si fanno vittime.
Nell'amore come nella morte – da notare le due sole lettere di
differenza – ci sono carnefici e martiri. Attenti a non incollare l'etichetta sbagliata sulla persona sbagliata. Attenti a come dite basta così, lasciamoci. Ma anche, o soprattutto, sposiamoci. (9)
Ha
un nome comune, un'età indefinita, un passato sconosciuto. Non sai
chi fosse quel Lou, prima che l'arte di arrangiarsi facesse di lui un
uomo senza scrupoli. Ha rubato, ha truffato, ci ha provato a cercarsi
una professione onesta. Ma l'onestà non ti dà un tetto sopra la
testa, le strade della violenza sì. In una metropoli mai così
inospitale e aggressiva, lui va in cerca di morti e crimini e vende
al miglior offerente le immagini che la sua fidata telecamera
immortala. Il titolo del film, perfetto, lo chiama
Lo sciacallo. Lui
è un animale a sangue freddo che gira intorno alle nostre carcasse,
in cerca di cibo, quando è notte e i telegiornali acquistano e
rivendono il dolore degli uomini. Un personaggio sgradevole, ma che
ti suscita odio e simpatia insieme. Per la tenacia, la volontà
inossidabile, i modi gentili da venditore porta a porta. Parla per
frasi fatte, ha un sorriso sghembo sul viso magrissimo che vorrebbe
mettere a proprio agio e invece no, vive di brutte notizie e brutta
televisione. Nella sua casa spartana, giusto uno schermo piatto e un
portatile. I portali per una conoscenza assoluta e il nutrimento per
un sogno di gloria: il suo nome nei notiziari. Jake Gyllenhall,
ineditamente brutto e in preda a un'inquietante delirio di
onnipotenza, è un ottimo attore che qui si rivela eccelso. Naturale
come nessuno, non ti fa pensare alla sua trasformazione fisica, che
eppure all'Academy non passerà certamente inosservata: lui ipnotizza
per le movente e la gentilezza studiata, per il continuo specchiarsi
nella telecamera e la camminata unica, per il fatto che il suo
squallido protagonista flirta continuamente, come chi vende a caro
prezzo un prodotto e sa farlo. Gli occhi all'infuori, i battiti di
ciglia mancati, il corpo spigoloso di un individuo che è brutto
dentro e fuori. Usa il plurale
maiestatis,
fonda un'azienda di cui è capo e unico impiegato, è l'incarnazione
dell'aggettivo intermedio – mi aiutate a cercarlo? - tra “matto”
e “genio”. Il
The Wolf of Wall Street
dei disperati. Passato da noi quasi inosservato, Lo
sciacallo era
un film da me attesissimo, e non ha deluso le aspettative. Anzi, si è
superato. Efferato e beffardo, macabro e divertente, oscilla tra la
commedia nera e il thriller, grazie a una regia impeccabile e
adrenalinica e alla costruzione di un protagonista da brividi. Non fa
sconti. Immorale e tagliente, ha l'anima di una satira spietata sullo
spietato mondo del giornalismo e il look, nelle sequenze finali, di
un GTA
al
cinema. Un esordio alla regia che ha del miracoloso, un Jake
Gyllenhall da manuale. Beccare un altro gran film, con l'anno che ormai ha i giorni contati.
Qualche fortuna anche per me, ogni tanto. (8)
A
Natale, in sala, c'è il cinema d'autore che piace un po' a tutti.
Dopo Blue
Jasmine,
una tragicommedia sul declino di una quarantenne in banca rotta e
sull'ascesa di una Cate Blanchett folgorante, l'occhialuto regista
americano torna con qualcosa di più lieve. Salta indietro nel tempo,
si sposta nel magnifico sud della Francia. Fa suo il fascino
sfavillante degli anni trenta e, tra mistero e amore, mette così in
scena una deliziosa commedia romantica vecchio stile, con colori
vivissimi e due attori particolarmente divertenti e divertiti. Magic
in the moonlight ha
spiccato senso del gusto, toni che vanno dal cinico al tenero,
tonalità di verde e giallo che i padri fondatori della commedia non
hanno, purtroppo, mai potuto contemplare. Una fotografia bellissima
che, tra rampicanti rigogliosi e onde azzurre, incornicia una Emma
Stone più incantevole del solito. Risplende di luce propria, con i
suoi occhi da cerbiatto, e non è difficile capire cosa abbia fatto
innamorare a prima vista il lucido personaggio di Colin Firth: lei è
un adorabile peperino in abiti trasparenti, lui è il perfetto
incrocio tra il principe azzurro e il bastardo incorreggibile. Una presunta medium e colui che ha il compito di
smascherarla, la magia contro la scienza: e se l'amore sovvertisse
ogni convinzione? Magic
in the moonlight è
un piacevole omaggio a un filone cinematrografico che ha fatto la
storia del cinema. Pianificato con cura e nascosto dietro un velo trapunto di
semplicità. Quello è il trucco da maestro di questo grazioso
spettacolo di luci e battibecchi. Allen,
lontano dai suoi classici drammi umani, ma non per questo privo della
sua originale poesia, ci riporta all'epoca in cui le commedie erano
in bianco e nero e avevano donne fatali, lunghi corteggiamenti e rari
atti d'amore, scenari esotici e dialoghi instancabili, piccoli colpi
di scena e ispirate strizzate d'occhio ai gialli britannici. Ritorna
al brio di Scoop e accontenta chi, dopo l'indimenticabile Midnight
in Paris,
sognava che ritornasse nella più suggestiva delle cornici. Il
risultato: un nostalgico, gradevole Lubitsch a colori. (6,5)
Io
amo molto due cose ancora. I film con i vecchietti e quelli, come li
chiamo io, ad altezza bambino. St.
Vincent è
una commedia indipendente che ha entrambe le cose. Un adorabile
brontolone come protagonista e un bimbo che gli fa da spalla e da
apprendista. La trama è la solita. Potremmo definirlo un About
a Boy
della terza età. Ma c'è qualcosa nel film scritto e diretto da
Theodore Melfi che, boh, ti fa scendere la pace nel cuore. Il
personaggio principale si chiama Vince e di professione non fa il
santo, ma il baby sitter a scrocco. Fuma, beve, bestemmia, frequenta
“le signore della notte” e, in tutto ciò, dà un'occhiata al
figlio della sua nuova vicina. Un tipetto solitario e preso di mira
dai bulli, che ha disperatamente bisogno di un amico e di un papà.
Nasce un'amicizia. In cambio di dodici dollari all'ora, è vero, ma
nasce un'amicizia. Quel misantropo che ha una moglie che lo guarda
negli occhi e non lo riconosce più, lo stesso uomo che vuole più
bene al suo gatto che al prossimo, sarà la guida spirituale
dell'indifeso Oliver, in una delicata fase di passaggio che nessuno
dimenticherà. St.
Vincent:
quando i santi sono i tuoi vicini di casa; quando il film è uguale a
mille altri eppure ti conquista ugualmente. Non ci sono grossi
misteri. Quel che St.
Vincent
ha rispetto ai suoi simili sono l'amore per il politicamente
scorretto, personaggi dolcissimi, la naturale grazia di far scivolare
la commedia nel dramma e il dramma nella commedia. Retorico
poco, emozionante sempre, brilla grazie a protagonisti perfetti.
La materna Melissa McCarthy, lo sfacciato e tenero Jaeden Lieberher,
un'inedita e spassosa Naomi Watts, che recita per tutto il tempo con
il pancione e con un marcatissimo accento russo. Lei è la Maddalena,
per chi se lo stesse chiedendo, di quel Gesù in pensione. Re
assoluto, con le corone di spine della vecchiaia e il calvario di un
matrimonio cancellato dall'alzheimer, un Bill Murray magnifico che
porta la pellicola ai Golden Globe. E questo Up
in carne ed ossa non vincerà, ma qualcosa di miracoloso
c'è. Un po' piangi e un po' ridi e, con gli occhi luccicanti e il
sorriso a trentadue denti, a fine visione, potresti vederti tra le
ciglia una specie di arcobaleno. (7)
La
maternità è la croce di Amelia. Quando le ore di lavoro passano,
bisogna prendersi cura di Robbie. Sette anni, e le marachelle, e gli incubi, e i guai
con le maestre, e l'energia che non si esaurisce. Amelia cerca di
essere una buona madre per quel bambino che gli altri reputano
cattivo. Finchè un libro misterioso non spunta alla loro porta e le
favole della buona notte non saranno più le stesse. Il terrore sta arrivando e Babadook non è
il solito mostro. Come The Babadook non è il solito
film dell'orrore. Dopo Wolf Creek II, torno ad inchinarmi ai
registi australiani. Perché siamo al cospetto di qualcosa di
sorprendente, pur nella sua grande semplicità. Diretto
dall'esordiente Jennifer Kent, tra il dramma e il gotico, questo film
è un gioiellino. Lo guardi e ti vengono in mente grandi titoli e, immerso nella mente
della protagonista, una donna dalla sessualità repressa e dai
problemi rrisolti, pensi che non sono paragoni esagerati. Ha il ritmo
forsennato dell'ossessione. Lo stordimento dell'emicrania. Gli occhi
rossi di un'insonnia infinita. Tu, spettatore, cammini tra i pensieri
della protagonista e ti fa paura. Capire quello che potrebbe fare
lei. Capire quello che potresti fare tu al suo posto, intrappolato in
quel legame di sangue che ti suggerisce drastiche risoluzioni. Il suo
bambino irrequieto fa tenerezza e orrore, mentre lei – bestia in
trappola – prega. Per scacciare il mostro o per chiamarlo in suo
soccorso? La regia sfavilla; il tema, cattivissimo, strizza l'occhio
al bellissimo The Others; la pellicola, in tutta la sua
interezza, è retta da un'attrice mostruosamente brava. Non ho
aggettivi per questa sconosciuta Essie Davis, che assilla e
preoccupa. Fa tremare la cura con cui il suo personaggio è pensato e
l'impegno che lei ci mette: ad urlare, a piangere, a trasmettere
prima dolcezza, poi squilibrio. Lei, ancora più di un mostro
originalissimo, che fortunatamente evita di crearsi un “franchising”
tutto per sé. The Babadook è un film fragile e simbolico,
fatto della stessa sostanza di cui è fatta l'ansia. L'ho apprezzato,
per il lato tecnico all'avanguardia e per il lato umano profondo come
un pozzo. Un dramma di fantasmi di padri e involucri di madri, che
parla del modo in cui devi nutrire i tuoi demoni. Altrimenti poi
mangiano te. Il tuo cuore, quello che ti rende buono e giusto. The
Babadook dà istruzioni su come aprire le porte del passato, per
farci la guerra e la pace. Le sorprese sbucano dagli armadi, da sotto
i letti, dal nulla. Questo film è una delle più curiose acquattate
nell'oscurità. (7,5)
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