Oscar 2016
12 candidature
Il
Nuovo Mondo è una terra per combattenti, un'arena ghiacciata e
impervia per soli uomini. Vi si muove in sincronia, passando
attraverso boschi intricati, fiumi gelidi e lande deserte, un gruppo
di esploratori britannici. A ogni passo, c'è la paura di un agguato:
i nativi, che reclamano il loro territorio messo a ferro e fuoco dai
colonizzatori; i rivali francesi, sempre in competizione; i compagni
d'avventura, perfino, se sei stato ferito nel corpo e nell'anima e
abbandonato lì fuori, tra infinite insidie, perché i furbi scappano
a gambe levate e gli onesti, che annaspano nel loro stesso sangue,
restano fermi. Questo il destino di Hugh Glass, che ha fatto bene a
fidarsi degli indigeni – da una di loro ha avuto un figlio, Hawk –
e male, invece, a fare affidamento sull'avaro Fitzgerald: straziato
da un orso bruno, viene lasciato all'addiaccio, solo, sebbene abbia
ancora un po' di fiato in corpo. Non abbastanza, comunque, per
denunciare un delitto che lo tocca da vicino e gridare giustizia.
Revenant, lunga epopea americana, è una storia di morte e
rinascite, contro le bestie selvagge, la pochezza dei nostri simili e
un inverno rigido, che non perdona. E non perdona il protagonista,
che arranca e si arrangia, lotta e cerca casa, mosso da istinti
basici e necessari: vita e vendetta. L'ultima fatica di Alejandro
Gonzàlez Inàrritu, reduce dai fasti – da me non condivisi – di
Birdman, è una novella Odissea. Un estenuante viaggio
omerico, che va ad inserirsi in quel filone cinematografico che ha i suoi esempi
celebri in Balla coi lupi e
L'ultimo dei Mohicani. La violenza che macchia il candore di
un rosso arterioso – e non c'è confine a separare l'amico dal
nemico, il buono dal cattivo – e tutte le sfide atroci dei survival
di ogni dove. L'uomo in guerra contro i quattro elementi e che,
creatura a sangue freddo, si adatta: nella
scena più forte, ad esempio, DiCaprio smembra un cavallo e usa il
corpo dell'animale a mo' di coperta termica. Ma per tutto il tempo,
nel film che tutti acclamavano ancora prima di assistere alle
proiezioni ufficiali, c'è un fastidioso senso di già visto –
anche se nessuno, finora, aveva fatto bene come il messicano che ogni
cinefilo doc porta sul palmo della mano. Revenant ha
una regia straordinaria e un lato tecnico che sconvolge per la
potenza e la solerzia. La fotografia, per descrivere la quale ci
vuole proprio quel “mozzafiato” che la mia prof delle superiori
consigliava di evitare, mostra una pellicola dalla realizzazione
travagliata – leggevo che Inàrritu e il suo cast hanno lavorato in
situazioni impossibili, solo con l'ausilio della luce naturale – e
di indicibile cura. DiCaprio, ormai osannato a
priori per consolarlo dai dispetti dell'Academy, regala una sentita
prova fisica: bravo come lo è stato anche in lavori passati, dunque poco sorprendente. Questa volta, trionferà il suo lavoro di
introspezione – ha poche battute e il ruolo dell'eroe tutto d'un
pezzo –, anziché il mimetismo altrui? Con lui, messi a dura prova
dai climi pungenti ma agevolati dalle indicazioni dell'onnipresente
Alejandro, il giovane Will Poulter, con i lineamenti così comici e
un'intensità finora sconosciuta; Domhnall Gleeson, che ho bollato
come promettende da un po'; uno spregevole Tom Hardy che,
fuoriclasse che non è altro, ruba la scena al protagonista
moribondo. Però le due ore e trenta di visione, tante sì, ma non
pesano particolarmente, sono state in poltrona tutte un continuo: questo mi
ricorda Il gladiatore –
i flashback ovattati in cui Glass ripensa alla moglie -, quello Robinson
Crusoe – non manca, infatti,
il provvidenziale savage savant. Questo Cold Mountain –
il ritorno e i presagi di sciagura -, quello Gangs of New
York – il sanguinoso conflitto
conclusivo. E se ricorda un po' questo e un po' quello, vorrà dire
che Revenant, impeccabile nella resa, fin troppo antiquato e freddo nell'ideazione, si
scorderà in fretta? O, banalmente, farà lo scalpo
ai rivali? Come lo scorso film premio Oscar di Steve McQueen, che dava tante
di quelle scudisciate eppure non lasciava il segno, lì per lì mi ha soddisfatto, ma sospetto che non stenterò, tra dodici mesi, a
trovargli un più valido rimpiazzo. Un'americanata con tutte le concessioni del caso - quante sofferenze per il povero Leo, e altrettante inspiegabili, colossali botte di fortuna - con solo la direzione artistica a fare la differenza. (7,5)
Oscar 2016
migliore attore non protagonista
Gli
Stati Uniti sfidavano la Russia, in Rocky IV. Questione
politica, poi sportiva. I russi erano alti, biondi, spietati. Gli
americani, invece, benché ci fossero sembrati guerrieri nei film
precedenti, erano in schiacciante svantaggio. Nel round conclusivo,
Rocky non si era fatto però buttare al tappeto; vani i “ti
spiezzo in due” dell'avversario. Ma quello precedente, di
round, aveva riservato ai protagonisti di una saga che unisce
generazioni lontane una sconfitta e un lutto. Apollo Creed, con i
suoi famosi pantaloncini a stelle e strisce, era morto sotto i pugni
del nemico straniero. Zio Sam era stato messo KO. C'era stata,
puntuale, la rivalsa. Perché quello, essenzialmente, predicava
Rocky: cadere e rialzarsi, sfidare tutti i pronostici. E li ha
sfidati Silvester Stallone, settant'anni a luglio, agli scorsi Golden
Globes: il meritato premio al miglior attore protagonista, mentre gli
snob non se ne capacitavano e la concorrenza si sfregava le mani, per
la partecipazione aCreed. Storia di un figlio nato
fuori dal matrimonio, con il pugilato nel sangue, che segue le orme
di quel padre che non ha mai conosciuto. Un'operazione commerciale
come tante, immaginavo, prima di trovare il buon Silvester anche in
lizza per i prossimi Oscar. Ci avevano già provato dieci anni fa,
con un sequel
tanto nostalgico quanto spento, con un protagonista vedovo e
amareggiato, un ristorante da mandare avanti, un'ultima sfida in cui
sotto sotto non credeva lui per primo. Non aveva più l'età.
Stallone, così, cede sceneggiatura e macchina da presa a Ryan Coogler, acclamato per Fruitvale Station, e
abbandona gli scontri corpo a corpo per spiegare i trucchi del
mestiere, ormai saggio e stanco, a uno di famiglia. “Zio”,
lo definisce Adonis Creed, incurante che la loro pelle non sia dello
stesso colore e che sia prematuro raccogliere la sua eredità.
L'eppure convincente Michael B. Jordan, infatti, ha un personaggio
acerbo e poco memorabile, a cui manca tutto quello che Rocky, ancora
prima di diventare ufficialmente mentore, aveva insegnato ai suoi
spettatori. Gli abbiamo voluto bene perché era umano, improbabile e
un po' tonto, forse per tutte quelle botte in testa o forse no. E io
ci sono legato, pur non amando il genere, perché incarna il senso
delle seconde opportunità in cui credo fermamente. Adonis, figlio
d'arte, ha il gioco facile: un fisico statuario, un cognome che gli apre tante porte e, tra il pubblico, una fidanzata musicista
e un coach leggendario. Non è un ragazzo di strada, nonostante
un'infanzia in riformatorio. E non si sviluppa una reale empatia nei
suoi confronti, con una presunta vittoria che nessuno mette in dubbio
e una situazione sentimentale – la vicina di casa di cui s'innamora
è destinata a perdere l'udito – che non sfiora. Gli si preferisce
senz'altro il granitico Jake Gyllenhaal, pugile mancino in Southpaw,
che mi aveva commosso con il vuoto lasciato dalla sua personale
Adriana, una bambina di cui riconquistare la fiducia, le magie delle
fenici che rinascono. Così dicendo, non negherò però che Creed
emoziona e coinvolge, tra
strizzate d'occhio, citazioni e immancabili tappe nei luoghi simbolo
della serie originale. Se convince, è solo per la partecipazione straordinaria di questo
inimitabile italoamericano che qui intristisce e sorprende, perché
anziano, infermo, abbandonato a se stesso. Le visite alla tomba di Adriana, le
immagini di repertorio, il lasciapassare per gli omaggi più sentiti – ed ecco Jordan in tuta grigia che cattura galline per allenare i riflessi o che,
nella corsa per la vittoria, coinvolge un corteo di motociclisti e
sostenitori. I gradini scalati in passato, ancora, che sembrano
impraticabili; una scalata. Ma, per tutto il tempo, chi aiuta chi? La
classica umanità di Stallone, al giro di boa con il suo personaggio
cult, amico immaginario suo e nostro, vince a mani basse contro i
muscoli del nuovo protagonista e l'idea di un fatale lascito.
Stallone è spalla, su carta, ma in realtà è linfa vitale
dell'intero progetto. Che funziona alla perfezione come capitolo complementare, meno come reboot. Provano a limitarlo, a fargli fare il
grillo parlante, ma Rocky – nella fragilità, nelle ossa che
cigolano, nella ricerca di futuri eredi al titolo –
non si lascia mettere in un angolo. L'allievo, al contrario, non ha gli occhi della tigre. (6,5)
Golden Globes 2016
miglior film straniero
Nell'attico
di un grigio condominio, in un grigio Belgio, vivono una madre
remissiva, un padre padrone e un'adolescente ribelle. Del figlio
maggiore, un hippy, è vietato chiedere. La testarda Ea non potrebbe
sbirciare nell'ufficio disordinato del normativo genitore, mettere il
naso fuori. La segreta via di fuga in un tunnel al di là della
lavatrice, elettrodomestico profondo tanto quanto la tana del
Bianconiglio, e un atto di estrema disubbidienza – rivelare agli
uomini la loro data di morte – la porteranno nel mondo e a
intavolare una discussione a muso duro con papà, l'Onnipotente. Noi
crediamo in Lui – o, almeno, c'è chi ci crede –, ma lui crede in
noi? La nuova commedia del regista dello splendido Mr. Nobody
siede alla destra del Padre e nella prestigiosa cinquina dei
migliori film stranieri ai Golden Globes e, dopo il capolavoro
Alabama Monroe, mostra un Belgio diverso senz'altro, leggero,
ma a suo modo in ghingheri. E Bruxelles, base prescelta dal divino
Benoit Poelvoorde, io la immaginavo – insieme alla fuggitiva Ea -
meno cupa, più soleggiata; sarà davvero il posto giusto per cercare
l'ispirazione per un nuovo Nuovo Testamento e completare la squadra
degli apostoli? All'appello, ne mancano sei, e sono tipi infelici,
fuori posto, vinti. Scrive le loro storie un profeta clochard e a
leggercele, all'alba della fine del mondo, è la gemella di Amèlie
Poulain, bambina dalla voce schietta e dirompente. Una “piccola
principessa” che, mentre i più imparano a morire, imparerà a
vivere, pianificando amori e realizzando sogni nel cassetto. Dio
esiste e vive a Bruxelles è un apologo blasfemo, dissacrante, da
lacrime agli occhi, che fa riflettere e indispettire. Poi stare bene.
Ritocchi a fantasia al dipinto dell'Ultima Cena, qui affollatissima,
che non farebbero storcere il naso né al ricordo di Leonardo, né al
credente più osservante: la scrittura è brillante, l'immagine è
surreale e c'è innegabile poesia nel provocare. Perché in ogni
persona risuona una melodia segreta e la protagonista procede con gli
abbinamenti, con le "corrispondenze di amorosi sensi", e alla regia
l'irresistibile canaglia Van Dormel fa altrettanto. Dio è morto,
cantava qualcuno. O, come dico spesso, dorme e si è voltato
dall'altra parte. Il regista belga aggiunge, di suo, che le troppe
birre, le giornate inoperose e lo sport, in tivù, conciliano la
sacra pennichella post Creazione. E che, soprattutto, il Grande Capo
avrebbe bisogno di un vice; magari di un centrino ricamato qui e lì,
di un tocco femminile. Ogni tanto le stuatue piangono; sui
Cristi in croce appaiono espressioni di sofferenza. Qual è
il prodigio? Il miracolo che manca, come diceva Troisi, sarebbe
piuttosto questo, vedere una Madonna che ride. (7)