Una mamma prigioniera, un figlio che non ha mai visto l'esterno. Dopo la fuga, il miracolo impensato di una seconda infanzia per il piccolo Jack - tra i narratori più dolci in cui mi sia mai imbattuto – e anche per noi lettori. A volte, troppo presi dal resto per accorgerci di quanto sia azzurro il cielo e di quanto grande, ma spaventoso sia invece il mondo. Là fuori, piccoli principi - sui loro pianeti a forma di capanno degli attrezzi - e orchi famelici. Mi era piaciuto raccontarvelo come una fiaba, a parole mie. Un ricordo per un ricordo, scambio equo, e una panoramica personalissima su undici metri che racchiudevano tutto l'amore e tutta la speranza di questa nostra folle umanità. Nella Stanza, c'è però chi ci ritorna. Ho letto il bestseller di Emma Donoghue a dicembre e l'ho incoronato senza doverci pensare su romanzo dell'anno; dalla mia palla di vetro, da petto e stomaco che scalpitavano all'unisono, vi avevo anticipato la sua necessaria presenza alla notte degli Oscar, dopo la calorosa accoglienza a Roma e il premio alla migliore attrice protagonista ai Golden Globes. Lo avevo letto in cerca del meglio – sull'innocente Jack, così minuto eppure così forte, il fardello di un triste inizio e delle mie aspettative astronomiche – e, di lì a poco, avrei visto la trasposizione cinematografica a cura di Lenny Abrahmson, già autore del dissacrante Frank, con simile ansia. Se Revenant era un'americanata senza fantasia e Brooklyn una commedia retrò dallo scarso mordente, in Room cercavo la potenza e l'originalità di cui il cinema indie è naturalmente capace. Il miglior film della competizione, o almeno il mio - amante, al contrario dell'Academy, del cinema di nicchia, più della sostanza che della forma e di emozioni che, nel tempo, non ti tradiranno. Room, rimaneggiato, è altrettanto struggente e trasognato. Una trasposizione rispettosa e calzante di un racconto che si articola in due parti: la vita dentro, sotto chiave, e l'avventuosa conquista del fuori. Ma dove si sta meglio e dov'è più facile volersi bene? Per vivere in questo mondo, ci vogliono gli occhiali scuri, la crema solare, un cappello a forma di orso per ripararsi da una pioggia scrosciante che no, non ci affogherà. Bisogna farsi gli anticorpi, contro l'insensata crudeltà del prossimo. Allo spettatore, invece, per sopportarla – la vicenda infatti sconvolge, ma i toni sono quelli delicatissimi in cui confidavo sin dall'inizio - basta guardare gli occhi blu dello straordinario Jacob Tremblay, grandi e stupiti, mentre contempla un cielo di un colore sconosciuto, ritagliato tra i fili del telefono, i rami secchi, la ruggine del pick up del padre assassino. Ancora in cattività, ma presto libera, una intensa Brie Larson: la notevole somiglianza fisica, la confidenza e l'intimità di un piccolo set, di una piccola stanza, rendono i due attori metà combacianti e parenti di sangue. Lui, ancora più di lei, è un ometto da applausi: inspiegabile la sua mancata candidatura. E Leo, al posto tuo, avrei avuto paura del prodigioso Jacob. Si sorride, inteneriti. Si piangono fiumi di lacrime, ma sono sincere, e scorrono più per le cose belle che per quelle brutte. E nel dramma madre-figlio di Abrahmson, nonostante la rabbia e il disgusto, c'è davvero tanto per cui gioire: l'amore non ha confini, la stanza è un buco arredato alla bell'e meglio, ma il film del regista irlandese sa essere immenso. Ciao Ma', sii forte, e ciao Jack, di mezza spanna già più alto. Sapete che in sala sta per passare una perla tutta schegge e speranze che parla niente meno che di voi? Arriverci Letto, arrivederci Armadio, arrivederci Specchio; a tutti, addio. Anche a te, cuore, che ormai dici di voler restartene lì, per un altro po'. (8,5)
Siamo negli anni ottanta e, in una commissariato di Boston, c'è una mamma interrogata, insieme al figlio. Il bambino è stato molestato - e da chi, all'epoca, non ti saresti aspettato mai. Il suo aguzzino indossava l'abito talare. Ma il crimine non poteva essere denunciato: si seppelliva la verità sotto mucchi e mucchi di sabbia, se poteva creare scandali mediatici. Per il sacerdote, il minimo indispensabile della pena: il trasferimento presso un'altra parrocchia. E lì, come riveleranno i coraggiosi giornalisti del Globe, altre vittime innocenti, altri occhi chiusi, altre menzogne. Sono trascorsi quasi vent'anni e siamo precisamente agli inizi del nuovo millennio, quando nella redazione di un quotidiano locale arrivano un nuovo direttore e, dal passato, uno scoop. All'incirca, le statistiche dimostrano che il sei percento dei sacerdoti, almeno una volta, ha abusato di un loro piccolo parrocchiano: un chirichetto, il bambino più timido che frequenta il gruppo del catechismo, un fragile dodicenne che ha confessato al parroco gli ingenui sospetti sulla propria omosessualità... Fatte le debite proporzioni, nel capoluogo del Massachussets dovrebbero essere quasi novanta i preti tacciati di pedofilia. Invece, risultavano dieci scarsi quelli implicati in lunghi casi giudiziari che si erano conclusi o con l'omertà, o con un irrisorio risarcimento danni. E gli altri ottanta a piede libero, ma mai denunciati? Cos'era stato, soprattutto, di quei minori che per vergogna non avevano chiesto prima giustizia? Spotlight, presentato in anteprima a Venezia, premiatissimo e nominato nelle maggiori delle categorie, è un thriller che ruota intorno alle indagini di un manipolo di tenaci reporter statunitensi, invischiati in un caso che sfugge, disgusta, mette a dura prova i nervi. All'inizio, hanno pochi nomi e tanti nemici. L'indagine è circostritta e delicata. Da metà in poi, lo scandalo pedofilia supererà i confini nazionali e, nel mirino, il vicino di casa, il vecchio insegnante di religione, il Vaticano. E la Chiesa che, potente e corrotta associazione a delinquere, intima che si faccia al più presto silenzio. Tom McCarthy, ispirandosi a un'indagine Premio Pulitzer, scrive e dirige un film d'inchiesta che ha, dalla sua, insieme a una storia spinosa e quantomai attuale, un cast d'eccezione. Prevalgono la dimensione corale, la portata della notizia e la ricerca dei sopravvissuti al tocco ignobile di alcuni adulti, piuttosto che le singole storie dei giornalisti in azione. I riflettori saranno puntati, dunque, sui dati nudi e crudi e sui resoconti delle vittime, non su prove attoriali piene di discrezione, tatto e naturalezza – Keaton, Schreiber, Tucci e Crudup non sono meno soprendenti, infatti, del sempre grande Ruffalo e di un'anonima Rachel McAdams. Le vittime, bambini bisognosi e taciturni a cui un cattivo sacerdote, un orco, aveva rubato l'innocenza e, peggio, la Fede nel prossimo. Non ci sono religioni giuste o sbagliate, non c'è un Padreterno che vendica in questa vita – e nell'altra? - i torti subiti: la colpa, conferma il lucido e analitico McCarthy, è degli uomini. E lo fa con uno stile cronachistico, valido e incalzante, ma con il taglio di un documentario. Spotlight, percio, seppure fruibile e schietto, è un film d'inchiesta che ha riflessioni e dita puntate, ma non il guizzo. Incontrovertibile e ingiudicabile. Non la mia idea di miglior film, laddove l'attinenza ai fatti e il forte realismo lasciano da parte il piacere di una storia – vera o falsa che sia – raccontata con personalità, assieme ai non trascurabili benefici della quarta parete, qui assente. Ci perde Dio, sotto accusa. Ci perde l'essere umano, vile. E quando ci guadagna qualitativamente parlando il cinema, se trionfa la verità? (6,5)