Il tardo ottocento, un Wyoming che porta i segni della Guerra Civile e del cattivo tempo, una neve che non si scioglie. Il sole latita. La tempesta del secolo è dietro l'angolo. Sperano di non trovarcisi nel mezzo i passeggeri di una carrozza che avanza pian pianino e che, nel mentre, chiacchierano per scaldarsi: due cacciatori di taglie, il futuro sceriffo e una sfrontata criminale, tutti insieme appassionatamente, verso la cittadina di Red Oak. Le temperature precipitano, i cavalli si ribellano. Fermarsi per qualche giorno, perciò, in un'accogliente merceria che ospita già un paio di ceffi loschi. Non languirà di certo la conversazione, se hanno tutti idee agli antipodi e se sceneggia un Tarantino mai così verboso e nostalgico. La baita nel cuore della tormenta viene divisa in due – i sudisti da una parte, i nordisti dall'altra -, e al centro c'è il tavolo da pranzo, territorio neutrale. E l'ottavo lungometraggio dell'autore di Pulp Fiction – amatissimo dai più, da me in dosi ragionevoli – si divide in capitoli compositi, punti di vista speculari, un prima e un dopo. Ha un incipit che non delude le attese e una chiusa che, pur non entusiasmando, regala il bagno di sangue e i colpi di scena che ci si aspettava. Al centro, i paragrafi che ho più patito: una lunga e ingiustificata agonia - sarò impopolare, ma onesto – in compagnia di personaggi coerenti e detestabili, come da titolo. Sono numerosissimi, logorroici e il più pulito tra loro ha la rogna: parlano tanto, biascicando, ed ecco emergere il Tarantino più politico, gratuito, soporifero. Si intuiscono le tensioni nel gruppo – si intuiscono, appunto, perché nei loro mari di chiacchiere annaspavo -, ma sembrano superflue le presentazioni di sorta. Ci si augura muoiano tutti e presto, spinti oltre il limite, su uno sfondo che ha l'aria delle scenografie teatrali. Sulle assi del palcoscenico, figure esagerate nei movimenti, nelle espressioni, nella mimica. Fastidiose, se non fosse per l'ottima Jennifer Jason Leigh – il viso tumefatto, i versi sguaiati, il rosso tra i capelli come in Carrie – che, vessata e percossa, ispira pietà e simpatia. Sorprende lei, non un baffuto Kurt Russel, non un Tim Roth che raccoglie la staffetta dell'istrione (e gigione) Waltz e, ultimo ma non ultimo, non uno spietato Samuel L. Jackson che ha però un pregio oggettivo. E' protagonista, insieme a Bruce Dern, della scena che cattura la tua attenzione – dopo una non trascurabile ora e mezza di pensieri vaganti e bla bla bla. Allora, il la per una mattanza con tutti i sacri crismi: i personaggi iniziano a morire, un po' per colpa dell'intolleranza razziale e un po' per colpa del veleno, e The Hateful Eight diventa un pastiche letterario e cinematografico, con le vittime di Dieci piccoli indiani, il gelo di La cosa, gli sceriffi brutti e cattivi – i belli e i buoni, infatti, latitano – di Sergio Leone. Ma le budella, le parolacce e le ciarle, tranquilli, le mette il caro Quentin. Che io guardo puntualmente, attentamente, ma senza gli occhi dell'amore: ho visto e rivisto Kill Bill, ho sofferto in ritardo per la mancata vittoria di un Pulp Fiction, ma quando fa passi falsi – vedi A prova di morte o informati sulla sua insana passione per Lino Banfi -, senza le lenti rosa, posso ammetterlo fuori dai denti. Ed è così che vi dico che The Hateful Eight, altrove acclamato, mi è piaciuto a tratti e poco: se migliora con la comparsa di Channing Tatum, in flashback, c'è di che meditare. Morricone mette in musica ma senza ispirazione,Tarantino cita tanto e quando ci mette del suo non convince. All'inizio, quanto l'ho patito? Alla fine, cosa mi ha lasciato? Per gli otto del deludente Quentin, in definitiva più pretenziosi che odiosi, che un'odiosa sufficienza allora sia. (6)
Notte degli Oscar che vai, biopic che trovi. Mai come quest'anno si dovrebbe adottare il detto, davanti a storie vere che pensavi di non volere conoscere e altre di cui sarebbe stato meglio non sapere nulla. Tra il brillante genitore della Apple e l'ennesima Jennifer Lawrence, Cenerentola armata di mocio rotante e buone intenzioni, si inserisce questo Dalton Trumbo. Ai più giovani, o almeno al sottoscritto, il nome, lì per lì, suggerirà poco. E se vi nominassi, a caso, Spartacus e Vacanze romane? E se vi dicessi che i due film, nei cui titoli di testa figurano i nomi di due autori diversi, furono in realtà scritti dalla stessa persona? Si accende immediatamente la curiosità, le antenne si rizzano e non si vede l'ora di scoprire il perché, se i retroscena del mestiere dello scrittore ti affascinano e il cinema degli anni '50 – gran parata di divi e dive, lustrini, eleganza – continua ad esercitare, a distanza di generazioni, un fascino indiscreto. Più degli ingegneri informatici e delle inventrici da strapazzo, allora, agli amanti della settima arte interesserà conoscere le curiose abitudini, le disavventure e i dolori privati dello sceneggiatore Dalton Trumbo: personaggio dalle vicessitudini infinite e dall'esistenza piena ed appagante, che diventa originalmente l'eroe di una commedia dal gusto retrò, con un regista che ci ha sempre abituati alla leggerezza – è infatti lo stesso di Ti presento i tuoi e seguiti – e un protagonista a cui auguriamo tutti i trionfi di questo mondo. Trumbo riassume in due ore la carriera altalenanente di un pilastro della Hollywood dell'età dell'oro: un prolifico scrittore, che aveva un talento spropositato e, purtroppo per lui, una mente pensante. Il linciaggio mediatico, il carcere e la condanna all'anonimato: le simpatie che nutriva verso il comunismo, infatti, avevano portato il Sindacato a scrivere il suo nome nella lista nera. Negli anni del rilascio, al posto della vergogna, il desiderio di risalire la china: lavori sottopagati, script firmati con ingloriosi nom de plume, una testardaggine che sconfinava spesso nella hybris. Ghostwriter ante litteram e prestanome, lavorava ai suoi copioni notte e dì – persino nella vasca da bagno –, litigava con John Wayne e invitava a cena un giovane Kirk Douglas. Emergere dal fondo dell'abisso sociale, perciò, con l'aiuto di una famiglia trascurata troppo e il sostegno di rari fiduciosi. Ci si aspetterebbe, in teoria, politica e tanto rigore. Ci si trova davanti, in pratica, a un lavoro che parla d'altri tempi e sembra esserlo, d'altri tempi: sarà per una profondità storica che non ci viene fatta pesare o per un accurato montaggio, che mescola filmati di repertorio e nuovi ciak; sarà per per i toni briosi, le figure accattivanti e le occhiate interessate oltre il sipario. Tantissimo, però, fa Bryan Cranston, in una prova molto attesa e che non delude. Un parrocchetto sulla spalla, vestaglia e pantofole, l'idea rivoluzionaria di un mondo uguale per tutti: è così, con il trucco, l'ipercaratterizzazione e il fare da mattatore, ci si scorda di averlo venerato, per cinque stagioni, nei panni del leggendario Heisenberg – anche se, su tutti, le deliziose Diane Lane e Elle Fanning, come accadeva d'altronde nella premiata ditta White, fanno i conti con il solito professionista stacanovista. Ed è così, in un film che dalla sua ha anche il ritmo e i temi, fatidica prova del nove, che gli si può garantire nuova vita al cinema, dopo l'apoteosi e Breaking Bad. (7)