Mr. Ciak: Cenerentola, Sils Maria, Birdman, Ida, Laggies
Creato il 21 marzo 2015 da Mik_94
Buon weekend,
amici lettori. Ricorderete che, nel periodo degli Oscar, avevo dato
il via a un piccolo speciale della rubrica Mr. Ciak, in cui parlavo –
attraverso i miei soliti commenti – dei film in lizza. Tra gli
esami e il resto, non sono riuscito a guardarli tutti e ho rimandato
qualche visione, di cui perciò vi parlo qui, in un post molto vario
(per non dire incasinato) in cui troverete favole, drammi d'autore e "miglior film". Birdman l'ho visto a gennaio, tipo, e solo
adesso, guardando il più interessante Sils Maria, ho capito
cosa per me non andava; e poi, da quando ha rubato lo scettro a Boyhood, sono in guerra con questo film. So che vi è piaciuto e che non è piaciuto
a me e basta, quindi glissate sulla cosa, dài. De gustibus!
Quando
al cinema arrivano le favole mi scatta qualcosa dentro. Le rotelline
si muovono, gli ingranaggi scricchiolano e l'infanzia ha bisogno di essere un po' oleata – altrimenti poi cigola –
e di tornare a vedere per un'ora e mezza la luce, ma al buio di una
sala. Eppure le riscritture passate mi hanno lasciato più deluso che
soddisfatto, quando il gioco sembrava tanto facile: come si fa a
rovinare un film di cui conosci la fine? Possibile, invece. Lo
dimostrano le riproposizioni più recenti che, o per infelici
stravolgimenti della trama o per un apparato scenografico opulento
che distraeva e si nutriva come un vampiro di tutto il resto, sono
risultate dimenticabili o pessime; comunque, poca cosa. Meno legato alla fiaba di Cenerentola, perché femminile e stucchevole,
cosa di bimbe, non sarei ritornato sui miei passi, se
non avessi notato il nome di Branagh. Perché il caro Kenneth,
studiato anche all'università nel più piacevole degli esami dati,
non è uno a caso. E' elegante, mai pacchiano: è un maestro di
galanteria. L'unico al mondo che mi ha fatto guardare con
rilassatezza un cinecomic, mettendo in scena un Thor che,
nell'incipt, somigliava a una tragedia shakesperiana. La Cenerentola
incarnata della candida Lily James? Comune, fragile, con una grazia
innata anche con gli stracci e la cenere. E così è il film.
Dolce, con il viso pulito. Visivamente è una gioiello,
ma non c'è ostentazione. L'equilibro è perfetto – e solo un
veterano alla regia poteva ricrearlo – e così come i sontuosi
costumi non appesantiscono l'incedere a ritmo delle danze, così
quella matrigna che ha i tratti affilati di una magnetica Blanchett
non ruba la scena alla fresca debuttante di turno. Al contrario della
Roberts, ingombrante nel Biancaneve di Tarsem, la
Blanchett sa lasciare lo spazio necessario alla bionda di Downtown
Abbey e all'erede al trono di Games of thrones. Tra
Richard Madden e la
James, un'alchimia tutta sospiri – e lui, quando Cenerentola scende
le sue mille scale, l'ho beccato davvero col cuore in gola –
garantita da una naturale avvenenza, da uno script ad hoc e, infine,
dai colpi di bacchetta di una fata madrina un po' Marilyn che ci
mostra la solita Bonham Carter passeggera, alle prese col comprimario
più sulle righe in circolazione e con i modi svampiti di cento film
fa. La favola con la firma di Branagh è la migliore che ci hanno proposto.
Sai tutto, dall'inizio alla fine; non ci sono brutte sorprese. Il
nuovo Cenerentola è discreto e rispettoso. Cambia
poco e quel che cambia è solo in meglio – un coprotagonista
maschile che trova un nome e un'identità propria, un altro nemico del lieto fine, una mamma e un papà che hanno
un amore e una storia passata, una chiusa meno macchinosa. Gli unici
meccanismi manifesti sono quelli dell'orologio che,
scoccata la mezzanotte, rintocca ma non segna il finire di questa
favola “gentile e coraggiosa”, come suggerisce la saggezza delle
mamme, e magica quanto l'originale. Il cinema, ovviamente, era un
asilo. Sala pienissima e io e i miei amici – due ragazzi e due
ragazze – sembravamo adulti sospetti in un parco giochi. All'inizio
ho condiviso l'entusiasmo dei piccoli davanti al corto di Frozen.
Quando hanno iniziato, dopo un'ora, a piangere, gettare pop corn,
innaffiarci di Coca Cola, mi sono sinceramente augurato che i
padri, la prossima volta, affinché non ci fosse una prossima
volta, prendessero in considerazione la vasectomia. Ma quando nel
cielo è comparso un The End su una nuvola, mi sono unito a
loro, in quel grande applauso suonato con piccole mani. (7)
Sils
Maria è la verità che mi è mancata in Birdman. Potrei
partire così, potrei fermarmi già qui. Nel film di Inarritu mi era
sembrato tutto talmente falsato e sopra le righe da far sì che non
ci fosse scarto tra la messa in scena e la realtà, in
quell'acclamato – e sopravvalutato – film nel film. Tutto così eccedente, tutto così carico da distrarmi.
Vedevo Keaton che interpretava un altro sé stesso, vedevo
Emma Stone che sbarellava, vedevo il professionista che voleva
stupirmi. E pensavo al professionista, ma al tribolato Riggan e alla
sua figlia tossicomane, per dirne una, non ci credevo. Invece, io ho creduto nell'esistenza di una Maria Enders
che faceva l'attrice di teatro e che invecchiava benissimo ma che,
purtroppo, invecchiava. Da persona che da lontano spia
l'arte, non potrò mai capirlo, e invece l'ho capito: com'è
retrocedere nelle gerarchie dello spettacolo, che significa
arrendersi al tempo, quanto rode un copione viscido che ti
ricorda che sei vecchia e che per te, da allora in poi, solo ruoli di
madri. Solo ruoli di martiri. Maria Enders, con un cognome che ne
preannuncia quasi la fine, è Juliette Binoche – meravigliosa
cinquantenne – ma, analogia più e analogia meno, tra lei e la sua
Maria c'è un'identificazione che non si nutre di
suggestioni e di gossip – perché Keaton aveva fatto Batman,
e bla bla bla – ma di un mondo di espressioni e vulnerabilità
esposte. L'identificazione si costruisce sotto i nostri occhi,
perciò, e non c'è già: preconfezionata per l'occasione. Il film,
denso e sottile, stratificato e brillante, nonostante le danze e le
maschere poliformi, ha una trama semplice che va avanti senza la
voglia di compiacere uno spettatore ideale. Che tu guardi o non
guardi, il treno va al di là delle alpi e, in mezzo alle vette
innevate e a quelle nuvole avvolgenti che è una violenza tagliare
via dal titolo, ci sono due donne che leggono copioni all'ombra dei
monti. Tutto è così essenziale da superare le soglie del classico
metacinema e da andare ad occupare un'indefinita valle che sta in
mezzo, tra la ribalta e il retroscena; da nessuna parte. Morto improvvisamente un maestro, in sua memoria, riproporre la sua pièce più controversa, ma con un inversione dei ruoli: alla
Binoche la parte della vittima, a una giovane attrice
emergente quella della sua carnefice. Accanto alla magistrale
protagonista, comunque al di sopra del resto del cast, due
piccole dive rubate alla Hollywood commerciale. Cosa ci fanno Kristen
Stewart e Chloe Moretz nel nuovo film di Assayas? La
sorpresa, oltre allo script vertiginoso, è che quel cast variegato e (male) assortito funziona a tal punto che, senza le coprotagoniste, il
personaggio di Juliette non avrebbe senso. La Moretz –
diciassettenne sulla cui validità non ho mai nutrito dubbi –
presta quell'aria da precoce stronzetta al personaggio di una diva in
erba. Alla
Stewart, invece, il personaggio più misterioso: quello di
un'assistente fedele che, a stretto contratto con
Maria Enders e i suoi dubbi, potrebbe diventare un'altra fatale
Sigrid, in un gioco di inversioni e riflessi. All'ex stella di
Twilight, universalmente sbeffeggiata, un primato impensato: è
la prima attrice americana nella storia a portarsi a casa un César.
Ma non è la fortuna della principiante. Kristen – coi capelli
lavati, quel volto duro che si apre ai sorrisi, il fisichetto niente
male – è una rivelazione. Il Cigno Nero della non troppo
candida Maria; il suo alter ego. Inscenato nella sontuosa cornice
delle alpi svizzere, Sils Maria è un Birdman meno
svenduto e più autoriale, con rimandi al miglior Aronofsky e allo
Swimming Pool di Ozon. La storia straordinaria di tre donne
in cerca d'autore, in cui le retrovie del mondo del cinema –
mostrate, di solito, nella maniera mostruosa e caotica degli americani – si manifestano per come sono. La Settima Arte è
un'invenzione dei francesi, d'altronde. Come ne parlano loro,
nessuno. (7,5)
Ecco,
doveva capitare. Di trovare, tra i film in lizza per i premi
maggiori, quel film che piace a tutti, ma a me no. Il nuovo film del regista
di 21 grammi
sembrerebbe, in mezzo a biopic e prodotti costruiti a tavolino, la
reale novità dell’anno. La palma di bell’outsider, in realtà,
rimane all’indipendente Whiplash.
Questo, film d’autore ma non troppo, è un esperimento meno sui
generis del previsto. Birdman
è innegabilmente un bel film – perché io sono un grande
estimatore delle cose belle, degli strepiti, del pavoneggiarsi – ma
non mi è arrivato. Frase che fa tanto talent show da quattro soldi,
ma tant'è. Lo guardavo ed ero distratto. E’ un film
che va sezionato per capire quanto lavoro c’è dietro, un unico
piano sequenza – quasi – dal montaggio invisibile, ma che non mi
ha intrattenuto. Una lezione di cinema in cui la trama è un
pretesto. Il finale, da interpretare anche se io l’ho trovato
chiarissimo, si immagina. I richiami al mondo dello spettacolo sono
meno caustici e pungenti che in un Maps to the stars,
ma sono gli stessi, gira e rigira. Interessante la scelta di un
attore che si identifica
perfettamente con il ruolo che interpreta: un professionista
versatile, talentuoso, imprigionato dall’armatura di un supereroe
che, nelle orecchie, continua a parlargli: l’ha reso speciale,
famoso. Giocando con i meccanismi sempre accattivanti del meta
cinema, si fa qualcosa di geniale. Se non fosse che, mezzo secolo fa,
verità simili ce le aveva sussurrate nell’orecchio un capolavoro
di nome Sunset Boulevard.
La protagonista: una Gloria Swanson destinata a un oblio crudele,
divorata dal progresso inarrestabile, lasciata crudelmente fuori - complice il
delicato passaggio dal muto al sonoro. Il cinema d’autore, poi, si
apre al genere nemico per eccellenza del film di nicchia: il
cinecomic. A raccontarci una cosa già intuita, attori eccellenti, ma
di cui Keaton – capace di
scivolare dentro e fuori dal copione, di intristirti con la sua
tensione disperata verso il vuoto - è il migliore. Discreta Emma
Stone, ma per me fuori posto tra le
migliori attrici. Leziosa Naomi Watts, capace di brillare perfino nel
modesto St. Vincent, e
istrionico e divertente un Edward Norton a nudo. Mi avrebbe fatto
piacere assistere al trionfo di Keaton. Doverosa, invece, la vittoria per la miglior regia. Piani
sequenza strepitosi, colonna sonora jazz, la scena onirica di un
poetico volo su una New York indifferente che – volando volando –
entra dritta nella storia del cinema. Il film più personale presente
sul Red Carpet, ma forse non il più immediato. Tecnicamente
straordinario, ma troppo cerebrale per divertire o emozionare a
dovere, è intelligentissimo – e lo sa – ma non si rivela così
unico come appare a una prima occhiata. Pensavo mi sarei dovuto
sforzare di più per stargli dietro, ma ho trovato tutto così
sputtanato. Quello che ho visto con gli occhi mi ha colpito. Il resto
non mi ha fatto né caldo né freddo. Da vedere, per capire se ti
piace. Da rivedere, per capire cosa non ti è piaciuto. Oltre al
virtuosismo da fuoriclasse che c'era? (6,5)
Un
film polacco. In bianco e nero. Con protagonista una suora. E lo so,
certo che qualcuno poi dice “ma che due palle!”. Quel qualcuno,
prima di vedere Ida, ero io. Nelle premesse, uno di quei
pipponi intellettuali che piacciono solo ai grandi critici; uno di
quei film d'autore che non va a vedere neppure un cane. Forse sarà
piaciuto più al grande critico di turno che a me, ma l'importante è
che sono arrivato a fine visione non solo totalmente soddisfatto, ma
anche sano e salvo: non ho tentato il suicidio nel mezzo, capito?
Perché Ida dura qualcosa come un'ora e sedici e la noia non è
contemplata. Motivo altrettanto prezioso: perché Ida è la
bellezza. Non la mia idea di miglior film – sapete che io sono più
per il pane col prosciutto che per il caviale; più per il filmozzo
di cuore che per quello da festival – ma certe cose sono belle per
forza, a meno che non si sia stupidi o ciechi. Una giovane suora, una zia sopra le
righe, un viaggio in macchina alla scoperta delle proprie origini
perdute. La fotografia – di una cura mai vista prima: estasi pura
per il cinefilo navigato; un piacere quasi carnale – è uno
specchio nitido di luci e di ombre. Algida mai, nonostante i colori
vadano semplicemente dal freddo siberiano al gelo artico. Nonostate i
capelli dell'incosapevolmente seducente protagonista non si vedano
mai così come devono essere: caldi, rossi, fammeggianti. Il bianco e
nero ammanta tutto con un velo di sacralità e nobiltà e, insieme
alla fotografia magistrale, crea scene costituite da dettagli minuti
e da raggi e foschie mai uguali tra loro. Ida, se
solo ci stesse tutto, sarebbe da custodire in una cornice; purtroppo
non ci sta, e allora tocca necessariamente vederlo. E al di là della
forma c'è un'essenza distante dalla nostra, timida e sottaciuta,
misteriosissima, che rende il film vicino e lontano, ma coinvolgente
e godibile. I personaggi, volutamente incompleti, comunicano
sensazioni delicate e a volte stacchi naturalmente l'occhio da quella
cornice per concentrarti sulle loro vicende umane: ebrei morti nel
folto di un bosco; un'unica sopravvissuta; un destino di
sottomissione accettato per fede, senza avere mai conosciuto il tocco
di un uomo. La felicità che altro è? La ricerca delle risposte in
un dramma spartano, in cui le strade di campagna, le balere
dove suonano musica italiana e balconi che danno le vertigini si
preoccupano di fornire indizi, spunti, riflessioni. Un minuscolo
romanzo di formazione, il riassunto di una frettolosa e tardiva
educazione all'amore, dove aggettivi come “minuscolo” e
“frettoloso” non vogliono affatto suonare come negativi. E' che
Ida è così minuto che potresti stringerlo in una mano. (7)
Megan
vive quei fatidici anni in cui tutte le amiche del liceo stanno
per sposarsi e avere figli, mentre lei – legata ancora al fidanzato
di sempre e ai ricordi dei vecchi giorni di cazzeggio e gloria –
non riesce a fare passi avanti. Quando il suo ragazzo le farà la
proposta, lei dirà di sì e e la sua storia si
scriverà da sé. Ma all'ennesimo matrimonio, davanti a una scoperta
che mette in dubbio tutto ciò che sa sull'amore, decide di scappare
dalla sua vita, fingendo un importante quanto inesistente impegno
lavorativo – al suo ritorno deciderà cosa fare del suo anello di
fidanzamento. Per una sola settimana, troverà ospitalità presso
Annika e il suo giovane papà fresco di separazione: peccato che
Annika, sua nuova migliore amica, abbia la metà dei suoi anni: che
ci fanno una quindicenne e una trentenne al Homecoming, ai pigiama
party, alle feste alcoliche del liceo? Laggies è una commedia
semplice e graziosa, sulla moderna paura di crescere e sui dubbi che,
prima o poi, nel mezzo del cammin di nostra vita, tutti ci porremo
indiscriminatamente. Lynn Shelton, regista apprezzata al Sundance e
dintorni, dirige una commedia ben poco indipentente, ma nemmeno tra le
più commerciali. Si capisce dalla discrezione usata
per affrontare temi veri ma abusati e da un ovvio lieto fine che,
seppur presente, non ricorda quella vecchia commedia con la Goldberg in cui si innamorava del padre della bambina che
sorvegliava; ve la ricodate? No? Be', meglio così. E dimenticherete,
dopo poco, anche Laggies – che chissà se arriverà mai da
noi – ma un'occhiata, per il buon cast e per un andamento pimpante
che non va a passo di lumaca, dategliela. Per la Moretz e per
Rockwell, figlia e padre per copione, che ti accolgono nella loro
calorosa famiglia a cui manca un pezzo. Per una Keira Knightley
leggerissima e in parte che - qui sprovvista del famoso accento
british che su di lei, già seriosa ed eterea, suona come troppo... tutto - abbandona i soliti film in costume e, in jeans e
maglietta (e coi pantaloni del pigiama), si diverte e ci
diverte, con un personaggio dall'epilogo scontato, ma particolarmente
verisimile: forse uguale a noi. (6)
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