Mr. Ciak: Cinquanta sfumature di grigio, Scrivimi ancora, Open Windows, Amore cucina e curry
Creato il 16 febbraio 2015 da Mik_94
Buongiorno,
amici! Come avrete letto, mi sono liberato di Letteratura Latina a
colpo sicuro. Ma il problema è che, in dieci giorni, dovrei
preparare qualcos'altro. E non so cosa. Mentre le letture vanno a
rilento, vi parlo di alcuni film, in un post che – se avessi avuto
il tempo necessario – magari vi avrei proposto a San Valentino.
Anche se soltanto Scrivimi Ancora e l'ultimo, che contiene
“amore” nel titolo, sarebbero stati i più in tema della puntata.
Sapete, perfino il film con Sasha Grey – l'autoerotismo è sempre
una forma d'amore, no? - è più delicato delle chiacchierate
Cinquanta sfumature di grigio, che ovviamente, come quando i
brutti film fanno parlare troppo di loro, ho visto. Aggratis. Nel post non c'è niente di indispensabile, ma mi serviva
un pretesto per aggiornare il blog. Quindi, a presto. E, se
possibile, buon lunedì a voi!
Lo
sanno pure le pietre di che parla. Magari, in questo momento, sul
Kindle – benedizione quando si vogliono leggere libri imbarazzanti – lo sta leggendo proprio il vostro vicino di
posto, in circolare. Cinquanta sfumature l'ho
iniziato, ma non l'ho mai finito: li ho venduti tutti e tre su Ebay,
in caso a fine visione mi fosse venuta voglia di ritornare
sui miei passi. Leggendo i primi capitoli, avevo trovato che la cosa più scandalosa
fosse la prosa dell'autrice: quello stile inesistente, i richiami
spudorati a Twilight,
quei milioni guadagnati senza possedere talento. E' pur vero che poi
c'è l'elemento sesso: il sesso vende e fa parlare, ma lì era
descritto male – da una, probabilmente, che non fa sesso da mai –
e il bondage era uno specchietto per le allodole. Se
avessi avuto compagnia, io alla festa degli innamorati sarei andato a
vedere l'ennesimo Romeo e Giulietta,
non di certo questa roba, ma ognuno ha la sua idea di romanticismo.
Quella altrui mi
sfugge. Mi aspettavo un filmaccio, ma mi aspettavo, almeno, un filmaccio
che avesse qualche pregio, venuto meno lo stile (stile?) della James
e potendo parlare le immagini al posto di aride descrizioni. Speranza
lecita, ma mal riposta. Il difetto di Cinquanta sfumature è
la sua incondizionata fedeltà al romanzo di partenza, e la fedeltà
– in una trasposizione cinematografica – è negativa solo se si
parla di una storia così. Si vociferava che Bret Easton Ellis si
fosse proposto come sceneggiatore e che Joe Wright ne avrebbe curato la regia, ma no: meglio rinunciarci, meglio trarre da un libro
inutile un film inutile. Sam Taylor Johnson –
altra sporcacciona che si è maritata con "Kick Ass",
vent'anni più giovane e mille volte più figo - collabora a stretto
contatto con l'autrice di tale capolavoro e, saggiamente, ci tiene a
salvare i dialoghi e gli attimi più improbabili. Anche al cinema,
emerge la pochezza della scrittura e il cattivo gusto dell'autrice:
il suo sogno erotico prende vita, ma resta un
sogno che non sta né in cielo né in terra: irrealistico, pallido,
assurdo. Non ha credibilità: per fortuna, persone
così non esistono. E non dico perverse; ma piatte, superficiali. Alcuni dei personaggi peggio caratterizzati degli ultimi anni,
la cui presenza sarebbe perdonabile solo all'interno di
un'infima soap, popolano un film patinato, che confonde
l'eleganza con il pacchiano, e che con una fotografia laccata e chic
tenta di velare una volgarità che in realtà non
c'è. Qualsiasi serie HBO ha più sesso; il sadomaso è un pretesto
per accoppiamenti noiosi e nella norma; il nudo è più ostentato che
in un film medio, ma i protagonisti sono belli,
proporzionati e non hanno una fisicità prorompente. Volgari sono i dialoghi, che vorrebbero stuzzicare ma
riescono solo a fare scendere un gelo artico e l'imbarazzo.
Lei che gli domanda cosa sia un dilatatore anale; lui che dice di non
fare l'amore, ma di scopare forte (tra “scopare” e “forte”,
prego, metteteci una pausa, ché fa scena). Ma sono solo parole: non
vengono tirati fuori giocattoli sessuali e lo scopare forte oscilla
dalla posizione del missionario, a lui che le dà due colpi sul
sedere, a un trastullo potenzialmente sexy con ghiaccio e champagne.
I protagonisti fanno quello che
possono: non è colpa di nessuno se lei risulta un'ochetta con un'incancellabile espressione di estasi mistica, o se lui cammina
come se avesse un palo su per il culo – magari ha
provato per gioco, chessò, e non è riuscito più a liberarsene? - e
non conosce espressioni al di là del sorriso sghembo e
dello sguardo corrucciato. Dakota Johnson è una bella
sorpresa: il personaggio è quello che è, ma lei, espressiva e
impacciata, è disposta a coprirsi d'imbarazzo e a scoprirsi al momento opportuno. Si chiama come una salsiccia, la nonna ha recitato
negli Uccelli... unite i puntini. Sta meglio nuda che vestita, i suoi capezzoli hanno più scene dei comprimari e, dotata di un fisico acerbo
ma grazioso, potrebbe girare perennemente senza veli senza
solleticare troppo la malizia. Il look non la valorizza, lo script è
atroce, ma la cosa buona è che il film potrebbe essere un trampolino di lancio. Jamie Dornan è un
bellissimo ragazzo, ha due occhi d'acciaio inox che manco le batterie
di pentole di Giorgio Mastrota, ma – rigido e austero per copione –
sfoggia una serie di ghigni che mostrano solo il suo sentirsi
fuori luogo. I complimenti perché riesce a pronunciare battute
irrisorie senza scoppiare a ridere. E capisco che il pubblico
femminile andrà in cerca di folgoranti primi piani e
di un potenziale nudo, ma, fanciulle, concede alla macchina da presa
soltanto la vista veloce del lato b. Volete vederlo bello,
carismatico, talentuoso e dannato? Recuperate The Fall.
Si entra più in sintonia con il suo assassino spietato che con il
suo edulcorato seduttore e lo valorizzano un personaggio intrigante,
il suo naturale accento irlandese, la barba incolta. L'inizio non è male: fresco,
potrebbe avere i toni di una commedia sofisticata. Se avesse
posseduto autoironia e maggiore ritmo, come il pimpante e canonico
incipit con I put a spell on you
lasciava intuire, avrebbe divertito con consapevolezza. Il difetto
sono i sospiri, gli sguardi languidi, la pretesa di serietà. Non
risulta nemmeno una storia d'amore scritta da un Nicholas Sparks
brillo e drogato di viagra, invece, perché manca l'elemento base: il
sentimento. Cinquanta sfumature
è un algido preliminare lungo due ore, con una colonna sonora pop e un
erotismo impalpabile che vive soltanto della seducente Crazy
in love di Beyoncé. Innocuo e superfluo, bruttino, non ha neppure i requisiti per diventare un gustoso, segreto
guilty pleasure. (4,5)
Alex
e Rosie si amano da tutta la vita, ma c'è un ma. Un'amicizia
profonda e lunga che con un salto più lungo della gamba potrebbe
complicarsi troppo. Così, vivono distanti e spesso infelici,
concedendosi un briciolo di pace solo quando sono insieme. Sognavano
di volare in America, un tempo, ma un preservativo che si rompe e lei
resta indietro, con una bambina che è un dono prezioso, anche se le
ha rovinato la gioventù, e un compagno che tardi è tornato per
assumersi le proprie responsabilità. Lui fa stragi di cuori e si
afferma nel mondo del lavoro; lei fa la mamma, la cameriera e si
immagina proprietaria di un alberghetto sul mare, mentre la vita va
avanti – a volte ingrata, altre miracolosa – e ora il lutto, ora
un invito per nozze imminenti, li fanno incontrare a periodi alterni.
Scrivimi ancora è
stato il mio tentativo, a San Valentino, di essere a tema. La
commedia romantica di Christian Ditter, accolta perlopiù
calorosamente, mi ha fatto pensare che avrei potuto scegliere
qualcosa di meglio, in quel moto momentaneo di dolcezza
incondizionata. Nonostante altri ne abbiano parlato piuttosto bene,
la trasposizione del romanzo di Cecilia Ahern – trasposizione che
immagino liberissima – non mi ha convinto granché. I pregi:
ironia, recitazione buona, comprimari strampalati che fanno il verso
al cinema di Richard Curtis. I difetti: una colonna sonora simpatica
e onnipresente che, veloce e condensato com'è, rende il film un
videoclip; nonostante i pezzi siano tutte hit da cantare, o forse
proprio a causa di quello. British, ma non troppo. Sdolcinato, ma non
troppo. Per nulla indipendente, ma non mero mainstream. Le risate non
mancano e la Collins e Claflin, alle prese con romanticismo,
friendzone e sketch piccanti, sono belli e convincenti; meno
convincente, invece, una sceneggiatura frettolosa che taglia, cuce e
confonde. Dieci anni in un'ora e trenta: troppe ripetizioni, troppi
tira e molla, troppe cose che cambiano mentre i protagonisti –
vampiri? - non invecchiano mai. Ha difetti, una trama già sentita,
ma toni sopra le righe che, a volte, hanno dell'irresistibile. Non è
il novello One day –
e la modesta Ahern non è Nicholls – ma, con un tocco di malizia
aggiunto e diffusa spigliatezza, non è il classico melò. Una
produzione senza infamia e senza lode, dunque, con due giovani stelle
che, in futuro, sapranno farsi ricordare. Di certo noi non li terremo
a mente come l'Alex e la Rosie di Scrivimi ancora;
coppia scoppiata piuttosto graziosa, ma che nemmeno alla lontana mira
a ricordi duraturi e ad inserirsi all'istante tra storici amanti del
cinema rosa. (6)
Un
appuntamento da sogno con la nostra attrice preferita. Una cena a tu
per tu con Jill Goddard: diva capricciosa e popolare, con un'agenda
piena di ingaggi e il pettegolezzo di un presunto video hard che fa
chiacchierare. Quando ti ricapita, se sei un nerd smanettone che non
ha niente di meglio da fare, se non gestire la fan page della stella
più brillante? Ma succede che Jill cambia idea. E che, mentre stai
per entrare in crisi mistica, ti contatta un hacker misterioso per
farti entrare di nascosto nella vita di lei, attraverso lo schermo di
un computer. Spiarla, parlarle: farle paura. Open Windows,
ultimo thriller dell'acclamato Nacho Vigalondo, è in realtà il
primo film che recupero del regista spagnolo. Perché la trama, che
promette una Finestra sul cortile
ai tempi di internet, prende? Perché la resa è originalissima? Ma
no, perché nel cast c'erano due miei idoli assoluti: Frodo e Sasha
Grey. Due creature mitologiche nello stesso film, che per di più ha
pure spunti fighi: visione imprescindibile, dunque. Elijah Wood,
bollato a vita come quello del Signore degli anelli,
ci prova a cambiare. Questo, Il ricatto,
Maniac: thriller a
volte interessanti e a volte no, in cui lui una discreta figura la
fa. Sasha Grey, furba e autoironica, bollata invece con altri
lusinghieri epiteti che non sto qui a dirvi, fa lo spogliarello in
webcam, ammicca e piange e, pregiudizi a parte, ammetti che come
scream queen se la cava. D'altronde, era tipo la Meryl Streep del
mondo a luci rosse, prima di chiudere bottega (e non solo) e di
aprire – come anticipa il titolo del film – finestre multimediali
(e non solo): bella e intraprendente, inoltre, ha un mistero
inspiegabile. Anche se ti ha mostrato, in passato, pure i risultati
intimi della sua colonscopia, ha fascino. Tralasciando questi
aspetti, che potranno risultare troppo tecnici agli sfortunati
profani (ma fatevi una cultura!), la struttura del film è
profondamente accattivante e il colpo di scena finale, eclatante,
complesso e, a onor del vero, alquanto improbabile, diverte un mondo.
Vuole stupire e ci riesce, anche se la credibilità traballa. Ma
chissene. Un thriller con due creature del mito, un hobbit e un raro
esemplare di Sasha Grey coi vestiti addosso, poteva forse non avere
la giusta dose di fantasia ed epicità? Giammai. (6,5)
Le esigenze
di universitario fuori sede mi hanno reso bravo nell'arte di
arrangiarmi: non dico che sia diventato uno chef provetto, ma mangio cose
quantomeno commestibili. E non ricordo da quanto tempo non guardo
qualcosa in televisione, poi, ma all'ora di pranzo, ogni tanto, su
Cielo e La 7D, lascio che mi facciano compagnia – quando la casa è
silenziosa e il vuoto rimbomba – i programmi di cucina. Non perché sia
convinto, in questo modo, di imparare qualcosa. Ma perché mi piace
vedere all'opera qualcuno che eccelle in qualcosa che io ignoro del
tutto. E mi piace mangiare, ma a chi non piace? Quindi, vi dirò che lo sapevo.
Che anche se da The Hundred-Foot Journey era
misteriosamente diventato Amore, cucina e curry, da
noi, sarebbe stato un film bellino, molto. Perché il romanzo, in Italia, è
edito dalla Neri Pozza, che notoriamente non pubblica libri
immeritevoli, e perché Lasse Hallstrom – regista tanto
strapazzato, ma che zitto zitto vanta due candidature agli Oscar –
ha un tocco speciale quando deve maneggiare cuori e primi piatti. La
storia di integrazione e rivalsa tra due ristoranti, due culture, due
pensieri non piacerà certamente ai grandi critici – sarà che i
personaggi del film vanno in cerca di una seconda stella Michelin,
non di universale approvazione – ma io quella volta che l'ho visto
avevo gli esami alle porte, ero giù di corda e pur partito decisamente prevenuto, perché le due ore complessive mi sembravano
troppe, mi sono trovato in ottima compagnia: tranquillo, soddisfatto,
divertito. Tanto si perde con il doppiaggio italiano – gli accenti
diversi, la musicale mescolanza di inglese e francese, attori che
sperimentano una cadenza non loro – ma tanto resta. Come quella
grande Helen Mirren, mattatrice eccelsa, che quando, risentita e
altera, fa la francese snob ci piace quasi più del solito. Una solare
Francia da cartolina, scorci di luoghi che visiteresti e di pietanze
che assaggeresti, personaggi vari e numerosi che non conoscono, alla
fine, cosa sia il male. E quanto è bello, ogni tanto, vedere una
commedia specchio di un mondo suggestivo e un filino irrealistico, in
cui la cattiveria, anche se esiste, è disposta a svanire dopo
quattro chiacchiere tra gente civile? (7)
Potrebbero interessarti anche :