Mr. Ciak: Il racconto dei racconti, Maggie, Insidious 3, Stuart - A Life Backwards, Mia madre

Creato il 15 giugno 2015 da Mik_94
Una regina che davanti ai lazzi dei giullari di corte non ride. Lo sguardo serio, il grembo vuoto: il desiderio di un erede. Un re straniato dal mondo, il suo bizzarro animale domestico e quella figlia sfortunata data in moglie a un orco che non conosce tenerezza. Due anziane sorelle che sperimentano l'amore – e la depravazione – di un nobile smanioso: per magia, una ritrova la sua lontana gioventù; l'altra, nella sua casupola di paglia, sogna la vita a palazzo e la perduta compagnia della sua confidente. Tre storie che si completano, nelle loro cupe mancanze e nel bestiale desiderio di possesso che muove, come pedine, tutti i personaggi. Sovrani sudditi di sogni che non possono sognare. Tre storie tra tante, tratte da una Bibbia visionaria e fiabesca di più di qualche secolo fa: Lu cuntu de li cunti. Poesia in lingua napoletana che ho scoperto nei miei esami più recenti, nelle origini campane dei miei, nell'ultimo Garrone. Un Garrone internazionale, grande più del solito, che con un cast che grande lo è altrettanto va alle radici scure delle fiabe antiche. Alla scoperta della nostra grande meraviglia; alle radici dell'incanto. Per definizione, ciò che suscita ammirazione. Presentato a Cannes accanto alle ultime fatiche di Sorrentino e Moretti, amato e odiato, Il racconto dei racconti è una produzione sontuosa e, per la resa visiva e il puntuale lavoro dei caratteristi, per il budget elevato e l'audace voglia di fare, verrebbe da dirgli che non sembra italiano. Ma è un complimento? Che è orgogliosamente italiano ho voluto ricordarlo, invece, io orgogliosissimo, a ogni piano sequenza, a ogni campo lungo, a ogni scorcio dipinto: gli attori non recitano davanti allo schermo verde. E' tutto lì. E' tutto nostro. Si vedono la premura degli arredi e i fili dei costumi, la solidità dei castelli e le sfumature della lingua, mentre Desplat mette in musica e Garrone si occupa dell'orchestrazione. Poco importa se il minutaggio eleva qualche personaggio a protagonista per un giorno, in questo grottesco racconto corale, e ne condanna un altro a vivere da subalterno – è il caso dei divi Salma Hayek e Vincent Cassel, messi in un angolo, sul finale, dalla diciassettenne Bebe Cave, bellezza meno appariscente di quella della desnuda Stacy Martin, ma intensa forse più dei tanto annunciati fiori all'occhiello. Il lusso della corte, i giullari, le voci acute degli evirati cantori, favole aspre che esistevano ben prima dei Grimm: il Barocco – affollato, misterioso, tremendo – che si fa film e, tra tante scene madri, la corsa nel labirinto, la cena a base di cuore di drago, un ritorno a casa nel sangue, viene immortalato nell'immagine conclusiva. Un filo teso nel vuoto e la significativa impresa di un funambolo fermo a metà, mentre giù ora si muore in miseria e ora si festeggia sguaiatamente una festa che arriva e, tanto, subito va via. Il racconto dei racconti, facendo appello a un connaturato bisogno di suggestione, stai certo che non cade; sospeso nell'attimo. (8)
Schwarzenegger, padre di una figlia che sta per trasformarsi in una creatura da film dell'orrore e la prospettiva del trash. Mosse da wrestling, botte sonore, magari zombie che arretrano, spaventati: sono loro ad avere paura di uno che è una mezza leggenda e che, sulla soglia dei settanta, continua ad avere un fisico invidiabile, nonostante i pettorali inizino a sgonfiarsi e le rughe a scavarsi come nell'acciaio. Invece Maggie, storia di ultime volte, di figlie condannate a morire prima dei loro genitori, di padri e madri che impazziscono per il troppo dolore, con i ritmi e le tonalità dei drammi indie, non solo mi ha positivamente scosso, ma mi ha strappato – in quel finale forse retorico, ma che in ogni caso avrebbe fatto male – una lacrima. Grave che la visione di un Arnold sedentario, invecchiato, e di un'adolescente che sta perdendo se stessa, e la possibilità di scegliere tutti i suoi domani, mi abbia commosso? La vicenda, con il pretesto di un horror modesto e uno sviluppo di un languido intimismo, è un appello a non perdere la nostra umanità; un invito a non lasciare che la bellezza deperisca brutalmente; un conto alla rovescia verso un'apocalisse di famiglia e una scelta di vita o di morte. La solitudine della quarantena o quel fucile che è a portata di mano? La risposta, ardua, in una meditazione davanti al capezzale di lei: un'adolescente che si chiama come un fiore e che sta perdendo i petali, la pelle, il senno. Abigail Breslin, cresciuta Little Miss Sunshine, più passano gli anni e più si scopre in gamba; e ha solo diciotto anni. Brava, tanto che il trucco grigiastro è un dettaglio: ci mostra la trasformazione attraverso altre vie, come solo lei – e pochi altri giovani talenti – sanno fare. Con tutto il bene che gli svuole, Arnold Schwarzenegger – che qualche volta ci ha fatto ridere, qualche volta ci ha intrattenuti con scazzottate formidabili – altrettanto bravo non è, ma veicola tanta intensità, qui, nonostante le sue poche espressioni. Con l'età, ha imparato anche lui a piangere. In una storia triste – anche se è più triste il lavoraccio svolto dai titolisti italiani: Contagius, ma che davvero? – che parla marginalmente di epidemia e delicatamente di un sangue che non è acqua. (7)
Nell'arco di una sola visione, qualche anno fa, avevo eletto il primo Insidious a mio piccolo cult. Un horror dei più tradizionali in circolazione – con nebbie, mostri all'improvviso, salti dalla poltrona – e la regia magnetica di quel James Wan che, sono certo, in futuro saprà fare grandi cose. La sua cifra stilistica, semplicemente inconfondibile. Insidious mi era piaciuto per il mistero, l'inquietudine sottile del non detto, il finale mozzato. Avevo pacificamente accettato il sequel, nonostante la sua dubbia utilità, per il ritorno del cast originale, per una regia capace di dare gradite conferme e perché certe lacune andavano colmate. Come tutti i sequel di questo mondo, Oltre i confini del male voleva dire – e fare – troppo, ma il risultato era mediamente sufficiente. All'annuncio di questo prequel, arrivato al cinema nel periodo dei sonnolenti horror estivi (in confronto The Lazarus Project è imperdibile, anche solo per la Olivia Wilde), ho subito immaginato il disastro. Senza Wan al comando, senza la sfortunata famiglia Lambert, sarebbe stato un altro stupido teen horror. Dovevo fare il veggente a pagamento, dite? Insidious – L'inizio, con una protagonista rubata a Disney Channel e la storia di un'adolescente bloccata a letto, tormentata da uno spirito molesto, è anche più inutile e evitabile del previsto. Siamo, infatti, dalle parti di Ouija: attori messi lì a caso, dialoghi imbarazzanti, situazioni irrisorie. A farci una magra figura, soprattutto la medium di Lin Shayne: nostra vecchia conoscenza che qui scopre di avere un senso dell'umorismo – ma perché, dico io? - e si comporta un po' come la Carrà, un po' come la De Filippi, in un episodio paranormale di C'è Posta. Leigh Wannell, che sei alla regia e pure nel cast, vuoi tu aprire la busta ad apparizione di mamme defunte e mariti trapassati, discutibili nuovi villain e stentati rimandi al primo film? Io, cari Maria e Leigh Wannell, la chiuderei anche qui. Dove il tre nel titolo è presagio della desolante valutazione globale. (3)
Era l'anno in cui ai Bafta un giovanissimo Andrew Garfield trionfava grazie a Boy A. Recuperato, quello, lo scorso anno. Amato tanto e odiato altrettanto. Impresso a fuoco, dentro la memoria, come uno dei lungometraggi più tristi e tosti, nonché inaspettati, visti trecentosessantacinque giorni fa. Consigliato subito, ad oltranza, perché quel piccolo film per la televisione con un protagonista grande andava reso noto. Così lo avevano recuperato colleghi blogger come Lisa, di In Central Perk, e a loro volta lo avevano consigliato. E' Lisa, quest'anno, a ricambiare il favore: mi ha fatto conoscere infatti Stuart – A Life Backwards che per un gioco del caso, sempre ai Bafta, sempre in quell'annata, era in lizza per il Miglior Attore Protagonista. Trasposizioni, i film per la tivù, di due romanzi; tragiche storie vere dal sapore amarissimo. La pellicola in questione, una coproduzione BBC e HBO, ha avuto un destino meno fortunato: in Italia non è mai giunta e, al contrario di quella folgorante parabola di seconde possibilità non ha mai vissuto un breve passaggio sul grande schermo. E che peccato. Se Stuart – A Life Backwards risente un po' nella resa di stilemi e montaggi televisivi, dal punto di vista delle interpretazioni sa offrire prove di una potenza clamorosa. Ispirato al romanzo di Alexander Masters, è un inconsueto biopic su un Signor Nessuno. Trentatrè anni, una vita sciagurata vissuta tra l'umidità dei sottopassaggi e le sbarre della galera, il profilo sbilenco di un barbone, la fedina penale di un tossico. Alexander, suo amico per caso, si domanda quand'è che è cominciata la sua infelicità. Quando quell'individuo dolente, buffo, a modo suo intelligentissimo è stato iniziato alla violenza? In un'ora e mezza, alla rinfusa, ci spieghiamo il perché delle sue cicatrici stermiante, del suo passo claudicante, dei suoi crimini scellerati. Quand'è che Stuart non ha avuto più scelta di essere una persona normale? Gli abusi e la prigione, il fallimento della convivenza e la scoperta della malattia rievocati in una conversazioni tra “quasi amici”: Alexander, ironico e perfettino, e Stuart, che prende tutto sul serio e non afferra i doppi sensi. Come nella migliore tradizione inglese, si ride e ci si emoziona senza furberie: tanto umorismo, tanto candore destinato a sporcarsi, tanta ingiustificata rabbia. E, rubato alla tradizione inglese, Benedict Cumberbatch, la dizione perfetta e i modi da lord, ma un non so che – vero che mi volete lo stesso bene? - continua a rendermelo anonimo. A strappare consensi e vene, piuttosto, un magnifico Tom Hardy. Questo omaccione pieno di tatuaggi che ogni volta mi stupisce, migliorandosi. Qui, usa la voce come puro strumento di commozione. Qui, ancora sconosciuto, prima che Warrior lo lanciasse e Locke lo consolidasse a talento indiscusso, è forse più bravo che mai. Una prova di maniacale mimetismo, con le grandi urla e i minuscoli atti di gentilezza: la lingua impastata dall'alcol, i lividi del corpo ben esposti, quei borbotii indistinti che non saprei da dove iniziare per descriverveli. E si piega come un giunco, Hardy, insieme a un personaggio piegato da un'indicibile tragedia, in una performance viscerale, fisica, cerebrale che mi ha ricordato l'ultima di un Heath Ledger che è ormai leggenda. Il finale, anche se già annunciato, non strazia purtroppo di meno. Come si recita, come ci si fa ricordare a lungo: comprenderlo attraverso film che in sala non arrivano. (7,5)
Se non fosse per il gran rumoreggiare per la mancata vittoria a Cannes, di Mia Madre – visto senza entusiasmi una sera – non vi avrei parlato. Non mi è piaciuto e non mi è dispiaciuto, nel suo essere convenzionale e noiosamente nella norma. Parlo, lo premetto, da non amante del cinema di Moretti: un autore che conosco volutamente poco e di cui ho visto l'essenziale. Magari mi avrebbe convinto così, con la storia semplice di una regista di mezza età alle prese con un film difficile da girare, un grande attore impossibile da gestire e, fuori dal set, una madre che non si alza più dal letto. C'è la Buy che invece interpreta il ruolo della Buy – convincente, perché nevrotica e urlante come da vent'anni a questa parte; e se c'è una cosa più irritante della Buy che urla, poi, la Buy che urla “Azione! Si gira!” – e un Turturro esilarante, nonostante la produzione ingessata. Il Moretti attore, inoltre, si ritaglia la parte, per fortuna minore, del fratello perfetto. Non c'è un'analisi dei rapporti familiari, lo strazio immane – quando in molti lo paragonavano al crudele e magnifico Amour -, né la banale ma necessaria trasformazione interiore della protagonista. Professionista anaffettiva che, sin dall'inizio, mi è parsa francamente sempre buona e che quindi non diventa più buona col tempo: parlo da (non) professionista anaffettivo? Non si sente il bene, il senso di famiglia, non si raccolgono le lacrime di una dedica che avrebbe potuto essere più immediata. Da figlio, non ho percepito la doverosa angoscia, io che da bambino – attratto e terrorizzato dalla morte – mi struggevo per quella lontanissima dei miei, che adesso non hanno neanche cinquant'anni. Da genitore, mio padre si è addormentato in poltrona. A emozionare non emoziona. A sorprendere non sorprende, con una regia standard, una scrittura modesta – interessante la descrizione della vita del regista, assai meno l'agiografia della santissima insegnante delle scuole pubbliche, di inspiegabile piaggeria - e un cast, tra comparse e comparselle, in cui non tutti sono all'altezza della situazione. Mia madre è il drammone esistenzialista con tutti gli elementi che chi odia a spada tratta il cinema italiano rimprovera, e a giusta ragione, al cinema italiano stesso: autoreferenziale, monocorde, barboso. Incapace di guardare oltre. A volte, nel pregiudizio altrui, c'è come un sesto senso. (5,5)

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