Mr. Ciak: Insurgent, Kingsman, Musarañas, The Boy Next Door, Maicol Jecson, The Town That Dreaded Sundown
Creato il 23 maggio 2015 da Mik_94
Un
anno fa, quando dicevo ancora di odiare Shailene Woodley, Insurgent
l'avrei forse aspettato con ansia. L'arrivo al cinema del primo
episodio mi aveva convinto, ma passo dopo passo, avevo visto
dissolversi tutto il potenziale della saga della Roth, che non aveva
avuto chissà quale idea brillante o, complice uno stile acerbo, non
aveva saputo metterla a fuoco. Il dente avvelenato, in particolare,
ce l'avevo contro questo seguito, che mi aveva annoiato in maniera
indicibile: non a caso ricordavo giusto il colpo di scena finale; non
a caso – a marzo – non sono corso al cinema. E Insurgent
il prezzo pieno del biglietto non lo valeva, ma mi aspettavo peggio.
Fila liscio, lì dove il romanzo vegetava. Quanto sia rispettosa la
trasposizione questa volta non so dirvelo. Il film riparte nel
momento in cui si era fermato e scorre, ma – soprattutto all'inizio
– manca di un collante. Ha l'aria di una maratona di episodi
dell'ultima produzione The CW. Più avvincente che nel romanzo,
invece, la seconda parte, che non salva il film da un aggettivo che
ha un suo peso: Insurgent
è gradevole, ma trascurabile. Nonostante i paragoni si sprechino,
non è Hunger
Games:
prendiamo i pochi colpi di scena, ad esempio, snocciolati così,
senza emozione. Il metaforico mastice – nonostante la regia di
Schwentke, che con l'azione e gli effetti speciali ci sa fare –
purtroppo sembrano averlo perso anche i membri del cast.
Singolarmente convincenti, ma incapaci di amalgamarsi senza
imbarazzi. Dei due premi Oscar – e mezzo – con una Octavia
Spencer di passaggio e una Naomi Watts mai così spaesata, sarà
perché madre impossibile di un trentenne, solo la fedelissima Kate
Winslet sta al gioco. Il monolitico Quattro di Theo James, che regala
tanti sospiri alla sua Tris, ne regalerà molto meno alle
spettatrici; Ansel Elgort ci prova a scrollarsi di dosso l'aria
adorabile da eterno Augustus Waters, ma ci riuscirà?; semplicemente
terribile Miles Teller che, dopo il trionfo di Whiplash,
fa passi indietro per colpa di un pedante epigono di Malfoy scritto
da una che non è la nuova J.K Rowling. A capitanare la rivolta, la
Shailene Woodley che adesso non odio più: White
Bird in a Blizzard me
l'ha fatta scoprire sexy, Colpa
delle stelle me
l'ha fatta piangere. Bravina, qui, anche se se la
cava meglio a spezzare cuori che ossa: nonostante il capello corto e
le braccia muscolose, non crede neanche lei fino in fondo alla sua
aggressività d'intrepida. (6)
Qualche
giorno fa ho rievocato il carnevale di un'infanzia lontana. Quando mi
vestivo da supereroe e da grande dicevo di voler essere un
fumettista. I sogni non avevano un numero fisso, e in alternativa
avrei trovato stimolante anche la vita da agente segreto. Stravedevo
per Spy Kids; poi
alle medie per Agente
Cody Banks
– e Hilary Duff. Adesso non guardo cinecomic né pellicole di
spionaggio. A me piace poco l'azione, ma parecchio due fattori che
solitamente cozzano: l'elegante e il tamarro. In Kingsman,
in due ore che volano, cafonate e alta moda si incrociano e danno
vita a uno sposalizio irresistibile, anche per me, spia mancata senza
rimpianti. Con la firma del Matthew Vaughn di Kick
Ass,
altra perla, questo film è una parodia di un genere che o si ama o
si odia: ma come odiarlo se è riproposto in chiave ironica, con
invasioni massive di effetti speciali, una regia strabiliante,
combattimenti coreografici e dialoghi gustosi? In Kingsman
non
mancano le missioni impossibili, i cattivi che vogliono distruggere
il mondo, le rivincite personali: il protagonista combatte contro le
smanie dei figli di papà, sventa piani criminali, conquista
principesse ninfomani. A fargli da guida, un magnifico Colin Firth
che si congeda con un colpo di scena ad effetto ed è re di una
tavola rotonda di moderni cavalieri. Picchia duro, ha pantaloni dalla
piega perfetta, beve il té delle cinque in punto. Samuel L. Jackson
caratterizza un antagonista che è uno spasso, a metà tra un Mark
Zuckemberg pazzo e uno coi difetti di pronuncia del primo Muccino;
Michael Caine dice due parole ed è subito un'icona; Mark Strong
trova il supporto di uno script che, questa volta, lo vuole più
presente del solito. A mancare in copertina, il nome del giovane
Taron Egerton, quando questo poi è il suo picaresco romanzo di
formazione. Chiassoso, sopra le righe, chic. Vive dei tòpoi
dell'action movie e cita My
Fair Lady.
Con un fucile tra le mani e un paio di intramontabili Oxford lucide
in cui specchiarsi. Kingsman
ha
la violenza esagerata dei cartoni, rumori fortissimi e colori che
fulminano la cornea. Le scene d'inseguimento più spettacolari che
vedrò quest'anno e uno degli intrecci più spiritosi che mi godrò
nei sei mesi a venire. (7,5)
In
una Spagna che ancora porta le cicatrici del conflitto mondiale, la
storia di un soffocante mènage familiare. Un appartamento abitato da
due sole donne, l'arrivo di un vicino di casa a comprometterne le
fragili dinamiche. Montse, che non ha mai oltrepassato l'uscio del
suo mondo asfissiante, dopo l'abbandono del padre orco, vive come una
reietta, barricata nelle sue stanze piene di pizzi, sete, bottoni. Fa
la sarta. Sognerebbe, un giorno, una boutique in centro e un rapporto
esclusivo con quella sorella che non ha un nome e che, semplicemente,
definisce la sua bambina. Anche se ha diciotto anni, è una giovane
donna che fa innamorare tutti al primo sguardo e ha rubato le
attenzioni di lui, Carlos, l'uomo ferito che le due accudiscono sotto
il loro tetto. Ma Carlos, a letto con le gambe rotte, ha i suoi
segreti, proprio come la paziente Montse: gli scatti di ira, le mani
che tremano, l'ossessione di avere tutto, e tutti, sotto controllo.
Personaggi prigionieri di una casa che è impossibile abbandonare;
tutti vittime. Musarañas
ha nel titolo i toporagni: roditori che vivono al buio, protetti a vita nel loro nido. Thriller
psicologico dello scorso anno, è la rinnovata conferma di un cinema
spagnolo pensato meravigliosamente, che sa intimorire con originalità
e immensa eleganza. Sorpresa per molti? Non per me, che ai cugini
d'oltralpe invidio le commedie romantiche a ai vicini spagnoli gli
horror più rigorosi in circolazione. Questo, diretto a quattro mani
da due esordienti, ha un intreccio classico e la tensione alle
stelle. Girato interamente in un appartamento dal perimetro
circoscritto, ospita tra i suoi corridoi i fantasmi della pedofilia e
i tragici traumi che si trascina dietro. Si sguazza perciò nel
sangue delle vittime della sarta assassina, una Misery
che
non potendo scappare dal suo incubo vuole trascinarci dentro anche
chi le è vicino, ma a impressionare sono i chiaroscuri di personaggi
con la guerra in testa. Nel cast, uno Hugo Silva poco approfondito,
il viscido Luis Tosar di Bed
Time, ma
– ormai nomi di grido internazionali – sono nullità in confronto
all'ipnotica Macarena Gòmez, che regge divinamente il tutto con una
prova che vive di tic stizzosi e minuzie. Un personaggio ambiguo con uno spiazzante segreto che il finale,
puntualmente, ci svela. Facendo pensare allo spettatore che Musarañas
fosse bello già prima, ma dopo quella svolta a fior di nervi - già
intuita ma cattiva - più bello ancora. (7)
Che
è banale in maniera esasperante lo si capisce già dal titolo.
Girato con quattro soldi e inaspettato successo, ha la
storia dell'ennesima attrazione fatale. Virtuosa prof divorziata
finisce a letto col suo vicino di casa pazzo. La bella Jennifer Lopez
– sempre più sexy -
non vincerà l'Oscar, ma la sua prova è dignitosa e in biancheria fa la sua porca figura. Con lei, dopo un paio di Step
Up, Ryan Guzman: che va ancora
al liceo non ci credo neanche se lo vedo con zaino in spalla, ma è
un convincente squilibrato; meno pesce lesso del collega ballerino
Channing Tatum, ha la faccia giusta e palpeggia le grazie della Lopez
con la nonchalance di chi non deve chiedere mai. Questo
thriller in rosa è scontato e classico così come appare. Ma fila,
nonostante la trama la sappiano pure i sordi, e ha l'apprezzabile
faccia tosta di cullarsi spudorato nei luoghi comuni, non
arrampicandosi sugli specchi in cerca di novità impossibili. E'
esattamente come lo si immagina, ma per quell'ora e mezza lo si
tollera. Piacevole il giusto. E trash. (5)
L'estate
del 2009: quella in cui Andrea perderà la verginità, quella in cui
il fratello minore perderà il suo idolo. La storia delle loro prime
volte – l'amore, il lutto – s'incrocerà con quella di un
pensionato convinto di essere il loro nonno, di un cacciatore di
alieni, di un viaggio verso la fine del mondo. Maicol Jecson è
una commedia italiana e, a tratti, non ci si crede. La trama è vista
e rivista. La voce fuori campo ricorda più quella di uno YouTuber
qualsiasi che John Green. C'è una scrittura che va affinita, ma
sulla resa non posso mettere bocca: non segue standard televisivi, è
girato con intelligenza e con gusto internazionale, gli attori più
giovani, ineditamente – anche merito del doppiaggio; ma perché
doppiarli? -, non sono dei cani totali. Un
bravo d'incoraggiamento ai registi, per l'idea e la buona
realizzazione, e al cast di esordienti, capitanati del veterano Remo
Girone. Maicol Jecson va visto come un vincente
esperimento di prima commedia adolescenziale nostrana. Solo così può
essere osservato con occhi diversi e un po' compiaciuti. E' la
variante young adult di Il ragazzo invisibile,
ma l'esperimento è dello stesso tipo. Territorio raramente
esplorato, dunque, soprattutto con questi deliziosi toni indie. (6,5)
Titolo
lungo, durata ridotta, un assassino mascherato che per i fanatici
dell'horror, forse, è una vecchia conoscenza. The
Town That Dreaded Sundown è
il remake di uno slasher degli anni '70, e uno dice che noia. Ma
questo film si rivela un'autentica chicca; un gioiellino
insanguinato. Il regista è Alfonso Gomez-Rejon, nome di punta nella
direzione di Asylum,
il migliore degli American
Horror Story,
e ha un talento sorprendente. Nonostante la trama esilissima,
uno Scream vintage
che qualche colpo di scena ben piazzato lo regala, il film si fa
guardare dal cinefilo attento con gli occhi a cuore. Non c'è una
scena che non sia confezionata ad arte. Sangue contenuto, morti
fantasiose e i volteggi funambolici di una macchina da presa che non
sa stare ferma, in cerca delle angolazioni più originali, dei giochi
naturali delle ombre, della qualità che nel genere di serie B per
eccellenza si è raramente riscontrata. Il resto è roba che Craven,
con più ironia e vivacità, ha già affrontato. Uno script più
memorabile, al prossimo giro, e Gomez-Rejon potrebbe essere il
profeta del nuovo modo di far paura, ma con classe. (6,5)
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