Mr. Ciak: La famiglia Bélier, Hungry Hearts, Sarà il mio tipo?, Lost River, The Last 5 Years, It Follows
Creato il 11 maggio 2015 da Mik_94
La famiglia Bélier era finito nella lista delle prossime
visioni da sé. Destino di ogni commedia francese in cui mi imbatto. E
la storia di questa famiglia speciale è tutto quello che è stato detto, ma
io l'ho trovata troppo americana per i miei gusti. Pensata per il remake lampo. Svendutella. A
me il cinema dei cugini d'oltralpe piace invece quando è colto,
raffinato, snob. Sono abituato a francesi che hanno tutto sotto
controllo, eppure – nonostante la trama lineare – qui ci sono
svolte inserite a casaccio. La candidatura del
padre, la buffa prima volta del fratello, la storiella d'amore della
protagonista con uno che entra in scena come Edward Cullen e rimane
poi nell'anonimato: tutto accennato e messo in ombra dal sogno di
diventare cantante e da un provino, nelle scene conclusive, che so ha
commosso molti. Ho riso poco - risate concentrate soprattutto nella
scena del ginecologo, esilarante - e purtroppo le lacrime non sono arrivate. Il resto, tra battute non troppo fulminanti e sottotrame
abbozzate, è una sorta di I ragazzi stanno bene che indugia troppo a lungo dalle parti del film
per teenager con, chessò, Hilary Duff. Carino ma deludente. Mi sento
come il Grinch a Natale, perché gli ho trovato un pregio solo e
si chiama Louane Emera: questa ragazzina bionda, che ha
fatto The Voice ed è
carinissima, rotonda, spontanea. Ma tanto ho la coscienza pulita. Lo
sanno tutti che sono buono, ma a pranzo – e al cinema – dai
Bélier non vi consiglio entusiasticamente di andare. (6)
Ragazzo
conosce ragazza nel bagno di un ristorante. Ridono, si sposano: mandano avanti veloce. Sembrano i minuti
iniziali di una commedia indie. E quella tra Jude e Mina una grande
storia d'amore. Niente di più sbagliato; niente di più
giusto. Hungry
Hearts è
un amore tirato per i capelli, nutrito a suon di bugie e cibi
ipocalorici quando unica soluzione sarebbe stato abortirlo sul
nascere. Lasciarsi andare, strade separate e via, prima che Mina
diventasse una madre folle e Jude un padre sceso a compromessi. Prima
che un innocente ne pagasse caro il prezzo. Il dramma di Costanzo è una mosca bianca che
ronza, fastidiosa ma alta, nel panorama italiano. A metà tra i
drammi indipendenti che non ci sono estranei e il thriller
psicologico, genere che al contrario non appartiene alla nostra genetica.
Dopo le atmosfere orrorifiche di La
solitudine dei numeri primi,
il regista ha la storia adatta e un cast all'altezza. Sullo sfondo di
una New York caotica e lirica, l'ossessione serpeggiante, e gli
abbracci materni che diventano una morsa. Un Rosemary's
Baby ai
tempi del veganesimo, con la scusa del troppo bene. Lento, gelido,
straniante. A colpire, la forza delle citazioni e un uso
ipnotico della macchina da presa che schiaccia, deforma e inchioda le facce
affascinanti, malate, stambe di Driver e di una spregevole
Rohrwacher. Lei, per me, più brava di lui: coraggiosissima. Peccato che il doppiaggio appiattisca l'intensità
dei loro dialoghi. Avrei voluto sentire il brutto inglese di lei, lui
che storpiava Modugno. Cuori affamati, corpi a digiuno e
rabbia che si nutre d'altra rabbia però si vedono. E come
attraverso uno spioncino che ci sbatte in faccia la nostra impotenza di spettatori. (7)
Ecco,
qui ci avviciniamo. Alla mia commedia francese.
Alle giusta proporzione tra semplicità e impegno. Il titolo italiano prometteva risate e un epilogo solito. Non che quello
originale fosse diverso, non che la trama brillasse:
professore di filosofia in esilio,
intreccia una relazione con una ragazza che non ha grossi sogni. Lui frequenta convegni, lei si
esibisce al karaoke. Lui legge saggi,
lei ha la fissa per i rotocalchi e la Aniston. Uno
orgogliosamente parigino, l'altra – sia nel nome, sia nello
studiato look – esterofila. E ci provano sì a venirsi incontro. Ma Clément è
scettico, perfino sui dettami del cuore;
Jennifer, a un bivio, è stanca di inseguire l'uomo impossibile. E' lei a dire il primo e unico
ti amo; è lui a tenere gli occhi aperti mentre si baciano. La freddezza del prof e il romanticismo della parrucchiera
sono due modi di vedere la stessa storia. Il punto di vista
dello spettatore, però, finisce per coincidere con
lo sguardo limpido e comune della bravissima Emilie Dequenne – la
Rosetta
dei fratelli Dardenne ormai diventata donna. Ma è in lui,
opportunista e misantropo col volto impenetrabile di un ottimo Loic
Corbery, che mi sono un po' rivisto: brutto ammetterlo, ma viva
l'onestà. Parte con la consueta leggiadria e con
ritmi perfetti questo
Sarà il mio tipo?,
per poi imboccare l'inconsueta strada dei drammi da Sundance. Allora
sorprende, per l'amaro in agguato. Per quel
titolo originale, Ne
pas son genre,
che è simile al nostro, ma manca del punto interrogativo. Non
c'è dubbio, è una dura presa di coscienza: non è il mio tipo.
Illudersi del contrario è un attimo, un errore, una bugia. (7)
Nonostante
sia bello e bravo in quantità uguali, Ryan Gosling lo si invidia un
botto, ma non lo si odia. Si attendeva, dunque, il suo esordio alla
macchina da presa. Lost River si
fa fatica a metterlo a fuoco. Non è quel che sembra, ma non si sa
cos'è: è girato da dio – anche
se, a sprazzi, sembra più un lavoro di Nicolas Winding Refn che
dell'onnipotente – ma è scritto da chi non sa bene come e cosa
comunicare. Un puzzle di storie dolci e crudeli, in un'oscura fiaba
che ha le ambientazioni surreali, i lupi cattivi esagerati,
personaggi dai nomi parlanti e una morale della storia che sfugge. La
procace Christina Hendricks è una madre che, per campare, ogni notte
lavora in un club di sensualità e massacri. Suo figlio, perseguitato
dal bullo Matt Smith e innamorato di Saoirse Ronan, la aiuta come
può, rubando rame e cercando Atlantidi sommerse. Ma non c'è un
attore che brilli davvero sugli altri, tant'è vero che la particina
della Mendes è aria fresca e l'iconica Barbara Steele strega. Tra
rimandi, fuoco e acqua, immagini sanguinose e suggestive e la ricerca
della fuga. Tecnicamente all'avanguardia, ma secco, troppo, nella
trasmissione del messaggio. Messaggio che ci sarà, ma personalmente
ho stentato a recepire. Come dire che sia brutto? Come dire che sia
bello? Si opta, perciò, per un è già finito; tutto qui? Resoconto
di un fantasmagorico videoclip muto. Senza canzone. (6)
The
Last Five Years è un altro
spettacolo di Broadway che fa il grande salto.
Fatto strano, perché quando si immagina il musical non si fa che
pensare agli epiloghi felici. Eppure le canzoni vivono
di cuori spezzati, fiducia infranta e continui facciamola finita.
Into the woods però
era una fiaba Disney, e vedi che noia. Figuriamoci se Like
Crazy o Blue Valentine
diventassero una ballata
sull'amore tradito, sorretta da un cast di due attori.
Inaspettatamente –
purché piaccia il genere – si rivela un musical moderno e adulto,
originale nella sua normalità. Cathy e Jamie si innamorano subito e
si disinnamorano in fretta: lei, il sogno dello spettacolo e le
insicurezze della moglie oggetto; lui, prodigioso scrittore che
colleziona riconoscimenti e musi lunghi. A reggere il tutto, i
bravissimi Anna Kendrick e Jeremy Jordan. Che lei canta e recita bene
lo testimoniano quella Cups Song tormentone
e una nomination all'Oscar, mentre le doti di lui – assodate per
chi ha seguito Smash –
si fanno ricordare grazie a note altissime e al personaggio più
umano della storia. Unico appunto: alcune canzoni, registrate in
presa diretta, sarebbero state meno precise ma più intense, con un sospiro o un singhiozzo piazzato al momento giusto. LaGravenese, con
la leggerezza di chi da tanto è tra gli addetti ai lavori,
confeziona un dramma sentimentale dal finale annunciato, in cui i punti di vista di lui e di lei si alternano, passando da toni
effervescenti a maturi faccia a faccia. E non ci si annoia,
nonostante la musica perenne e il tema agrodolce. Con l'allegria
contagiosa delle prime volte che sfuma canzone dopo canzone, mentre i
due si allontanano piano, tra loro e da te, senza lasciarti
amareggiato. (7)
It
Follows non
è il classico horror di nicchia che si pesca tra i film
inediti e si guarda con aspettative zero. Su di lui, pesavano
attese poderose. Chi dice sia il film di genere più bello
dell'ultimo decennio ha incuriosito e ha detto anche una
cazzata da guinness. Non so se le attese mi hanno reso troppo
fiducioso, ma al posto del troppo
io ho trovato il nulla. Mi ero informato a stento sulla trama e, per
un'ora e quaranta, paziente, sono andato in cerca di un senso. Horror
indipendente, premiatissimo, parla di un
terrore che si diffonde come una malattia venerea. Attraverso un
rapporto sessuale, un'adolescente contrae una maledizione e unico
modo per liberare la sua casa infestata – fior di metafora - è fare ancora sesso, per passare sortilegio e gonorrea al partner successivo. Il meccanismo della
videocassetta di The
Ring,
insomma, ma con la firma della Durex. Disposta ad aiutare la bellissima Maika
Monroe, spalla di Dan Stevens nell'idolesco
The Guest, al gioco della patata bollente - altra metafora - una fila lunga così. Riuscirà la nostra eroina a
darla via prima che oscure entità la facciano pentire della notte in cui ha ceduto all'altro sesso? Trama ridicola, personaggi insensati, una regia
particolarissima ma che dopo un po' viene a noia.
Mitchell scimmiotta Carpenter – vedi le sonorità vintage della
colonna sonora e l'ambientazione indefinita: kitsch e con sprazzi
futuristi - ma il suo
è
un omaggio inutile: ama tanto la macchina cinema e poco il genere. Magari ho visto il film sbagliato e, sotto il nome giusto,
c'era un video degli anni '80 sui giovani e l'importanza
del sesso protetto? Non fa paura, annoia, sembra nato
vecchio, ed è mortalmente serioso: fattori ricercati, tra l'altro, negli horror di ultima
generazione. E i tempi cambiano, e nostalgicamente preferisco quelli
vecchi: non c'ero io, ma vi ho assistito in differita. Una volta la paura viaggiava sul filo del rasorio. Oggi, al
massimo, sulla punta del pisello. Avrei usato un'altra metafora, ma le ho finite, sorry. (4)
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