Mr. Ciak: Mad Max, Pitch Perfect 2, Lo straordinario viaggio di T.S Spivet, Project Almanac, Il nome del figlio

Creato il 04 giugno 2015 da Mik_94
Ci sono film che vanno visti sul grande schermo. Quelli che sono tridimensionali, anche senza occhialini. Le magie di registi padroni del gioco e la settima arte che si fa pienamente spettacolo – senza trame, senza personaggi cesellati, senza la presunzione di cambiarti la testa. Al limite, quello che hai sulla testa: i capelli, elettrizzati. Quale titolo, quest'anno, esige una sala buia con te al centro - lo schermo che, per due ore, diventa il tuo orizzonte – se non l'ultimo Mad Max, giunto con un ritardo di trent'anni e un necessario rinnovo generazionale? Al timone, un pirata con la barba bianca: Frank Miller, uno scattante e irruento giovincello di settant'anni che, a dimostrare che i sogni di gloria non invecchiano, riprende la sua saga distopica – nata quando la distopia non era moda – e lo fa con la fantasia trascinante che ha preservato e gli effetti speciali all'avanguardia in cui, all'inizio dell'avventura, non aveva confidato. Nel 2015 i motori rombano più forte; i cieli infuocati hanno sterminate sfumature di rossi e arancioni; la notte, nel deserto, è in bianco e nero. I suoi piani originali non li ho conosciuti, ma il mondo di Mad Max – l'apocallisse di Ken Il Guerriero che si faceva realtà, con gli inseguimenti, i signori dell'universo, tutto quel sangue, tutta quella sabbia – mi è comunque stato familiare, da sempre. Vedevo cose come Doomsday e il paragone scattava. Ma, a fine visione, ho capito che gli altri titoli non sono che una copia a scopo illustrativo. Un'idea vaga di un mondo cinematografico che ha scarsa cura dell'interiorità dei suoi personaggi – bidimensionali, monolitici – ma un'esteriorità che corrompe gli scettici tanto che è prepotente. La nuova fatica del regista – ed è una fatica autentica, perché sei talmente così dentro al film da avere la fronte sudata, l'affanno – conquista pubblico e critica, e le recensioni entusiaste e il cast con grandi nomi hanno messo sull'attenti anche me. Tom Hardy avrà altri film per ricordarci quanto sia talentuoso e quante espressioni sappiano passare sul suo viso duro, qui perpetuamente corrucciato; Charlize Theron, i capelli rasati e il viso sporco, tornerà a essere icona di femminilità nel prossimo spot Dior. Ma lui pazzo e lei furiosa sono i protagonisti perfetti di un'orchestazione folle. Questa volta si corre, si picchia duro, perché se si sta fermi si muore, catapultati in un intreccio che un intreccio non è – casomai, un pretesto per dare il via a questo tripudio di spettacolarità – sulla scia di un harem in rivolta, di una amazzone rabdomante, di uno schiavo portato poco per le parole e tanto per l'azione. A bordo di un carro armato che solca le dune come fossero oceani di sabbia, emerge, per l'ipercaratterizzazione e il trucco, un irriconoscibile Nicholas Hoult: l'unico ad avere il diritto a un tentennamento kamikaze, a una svolta, in una squadra di eroi senza macchia che cercano il loro speranzoso valhalla. Mad Max non è il mio genere. Ma questa è la classica scusa che ci si dà davanti ai film difettosi. Invece pnotizza. Coi dialoghi limitati e limitati battiti di ciglia. E il cinema – qui a livelli vertiginosi – è anche questo. (8)
Mai rileggo, raramente riguardo. Il primo Pitch Perfect – arrivato in sordina, in Italia, con il titolo Voices – era tra le mie poche eccezioni. Visto un paio di volte nel giro di un anno. Capitava lo proponessi per le serate in cui avevo gente – e cibi spazzatura – in casa. Quando si voleva ridere, ma non con il solito film. Nessuno lo conosceva ancora, e io invitavo i miei amici a passarselo, a guardarlo, a caricarlo sugli iPod. Metteva di buon umore. Dava il via ai passaparola e ai tutorial, su YouTube, per imparare a suonare – armati di bicchieri di plastica – quella Cups Song subito tormentone. Mi ero lasciato trascinare da Pitch Perfect come gli spettatori americani, avendo in simpatia il musical e le classiche rivincite dei perdenti annunciati. Attendevo il sequel – presentato, questa volta, in pompa magna, con recensioni in anteprima, incontri sul Red Carpet, incassi raddoppiati e Mad Max vari scacciati dal primo posto – e purtroppo è stato delusione. Cosa che immaginavo, nonostante le medie audaci e tutta la notorietà guadagnata: destino dei sequel a cui Pitch Perfect 2, con trama evanescente e cast ampliato al seguito, non sa sottrarsi. Le Bellas, che alla fine del primo film avevamo lasciato alle prese con nuove sonorità e un successo agli albori, rinate dalle ceneri – e dal vomito – dopo fischi e fiaschi, sono ancora insieme, ma appaiono distanti. In cerca di loro stesse, si ritroveranno solo nell'ultima parte, nella prevedibile performance per la vittoria – anche se si punta, quest'anno, direttamente al mondo, essendo l'ambiente universitario un piccolo palcoscenico per le loro enormi ambizioni. Troviamo le protagoniste cresciute e abbellite – molte, come una Anna Kendrick qui stranamente scostante, hanno fatto nel frattempo il boom al cinema – e pronte alla laurea: qualcuna pensa al lavoro che verrà, qualcuna all'amore; ci sono nuovi ingressi – Hailee Steinfield, l'anonima Giulietta di Carlei che, per farmi un dispetto, è diventata bellissima d'un tratto – e i riusciti personaggi maschili vengono al contrario abbandonati. Ridotti a volti tra la folla. L'esordio della Banks alla regia non ha cura particolare, infatti, né dei vecchi né dei nuovi. I corpi non sono amalgamati, ed è come se ci si pestasse i piedi, nonostante il perfezionismo e numeri ben pensati. Manca la hit autentica, le scena clou– nel primo, invece, ricordate gli esilaranti provini, il Riff Off, l'omaggio a Breakfast Club? -, i mash up che spaccano. Si va avanti con il pilota automatico, senza il consueto brio, e si sceglie di fare affidamento più sui siparietti della comica australiana – un'irresistibile Barbie XXLche sul canto corale. Pezzi meno coinvolgenti e numeri non altrettanto trascinanti. Si ride e in pochi sembrano essersi accorti che manchi come il leitmotiv. In compenso, troppa Rebel Wilson e tanta comicità slapstick – del tipo che, di solito, è a pannaggio degli uomini, con peti fragorosi, smutandamenti plateali e proposte indecenti: immagino però sia un'altra faccia del cosiddetto girl power  - e, facendo le doverose proporzioni, a uscirne sconfitta è la musica stessa. (5,5)
Cosa ci fa un adorabile bambino di dieci anni, la valigia in una mano, tutto solo a zonzo tra gli Stati Uniti? Ha abbandonato il suo ranch, una casa in cui non si parla di ciò che si ha dentro e, lasciandosi dietro solo una lettera, sale sui treni come un clandestino, chiede passaggi – e caramelle – agli sconosciuti, mira a Washington D.C. Il motivo: ritirare un prestigioso premio, lui che non ha finito nemmeno le scuole medie, quindi figuriamoci se ha un dottorato. Ma è un piccolo genio – vive di dati, mappe, invenzioni strabilianti – e a quell'età è più facile creare una macchina miracolosa che tollerare il primo dolore. Il suo viaggio – che è un viaggio dentro e fuori di se, come nella tradizione dei migliori romanzi di formazione – sarà scandito da flash che lo riporteranno puntualmente a casa – tra gli insetti della madre entomologa, gli scleri della sorella aspirante attrice, i cavalli del padre agricoltore – e dalle comparse di un amico immaginario. Quel gemello che, per un gioco in nome della scienza, è morto e che, ora, è un ricordo che non va via. Lo straordinario viaggio di T.S Spivet – produzione franco-canadese arrivata da noi con due anni di ritardo – è un racconto per famiglie che ha, sotto sotto, qualcosa di speciale. Divertente, malinconico, toccante. Convenzionale, eppure fantasioso. Sarà che ha questo protagonista piccolissimo e un po' assurdo, un tenero Kyle Catlett che non permette che la mamma Helena Bonham Carter – unico nome noto del cast – gli rubi le meritate attenzioni, e che c'è un regista che trasporma tutto in oro ai passaggi di macchina da presa. Questo suo ultimo film non è straordinario, forse, come il titolo promette, ma è il compromesso adeguato dopo qualche anno di silenzio. E io, che altrimenti trovo i bambini che recitano tristissimi, come le tigri al circo, dopo pareri così così, ne sono rimasto piacevolmente stupito. Di Amèlie c'era il mondo favoloso e un personaggio particolarissimo; di Una lunga domenica di passioni quelle due o tre scene toccanti davanti alle quali mi sciolgo. Si parla di Jean-Pierre Jeunet, coi colori coloratissimi, le voci narranti d'altri tempi, la fotografia da cartoline inoltrate direttamente da Paradiso Città. Il raccontastorie girovago che piace soprattutto ai grandi. Questa volta, con gli stessi occhiali dalle lenti rosa, guarda l'America, e le praterie infinite, i grattacieli alti più dei papaveri e le stazioni deserte appaiono diverse dal solito – indeterminate, tanto che viene spesso da chiedersi ma siamo nel passato, nel presente o nel futuro? - perché filtrate dallo sguardo di uno che, anche se turista in terra straniera, non abbandona mai la sua poetica della meraviglia. (7)
Io ho questa strana cosa per i viaggi nel tempo e i paradossi scientifici. Nonostante di rado decida volontariamente di esplorare – al cinema – i territori del genere. Datemi grosse produzioni, effetti speciali e risponderò con il male di vivere. Mi incuriosiva però questo Project Almanac: creatura strana, con un tema che m'intriga in tutti i modi, il found footage del per me divertentissimo Chronicle, ma la firma di quel furbacchione di Michael Bay che, questa volta, produce soltanto. Sin dall'inizio, ed è una sorpresa per un film che sorprende altrimenti poco, il film di Israelite mi ha stampato un sorriso inebetito in faccia e, nonostante chi giochi col tempo rischi spesso di lasciarsi le penne, non è andato via, neanche alla fine. Quello forse il difetto. Mancanza di dramma, in una pellicola per giovanissimi che parte da uno spunto da fumetto – tre amici, il progetto di una macchina del tempo, la bella del liceo da conquistare – e indugia, ogni tanto, nei pressi di The Butterfly Effect. Se lo chiedevano anche in Questione di tempo, poi: se il battito d'ali di una farfalla causa uragani, cosa accadrà con una love story che gli annuari scolastici non prevedono? Si parla, per fortuna, di amori freschi e giovanili, e non c'è stucchevolezza alcuna. Project Almanac è un po' un Project X – ma meno maleducato – con il cuore dei film per famiglie delle estati di Italia Uno: alla Jumanji, alla Zathura. Qualche estate fa, probabilmente lo avrei adorato – per il tempo rubato per intrufolarsi a un concerto degli Imagine Dragons, per le vincite alla lotteria, per la leggerezza pazzesca di vivere i diciassette anni senza volere salvare l'universo per forza. Adesso l'ho trovato semplice, godibile, immaturo, ma cavolo se me lo sono goduto. Purtroppo sono cresciuto abbastanza per dire che c'è di meglio – e di peggio: di Bay, fortunatamente, giusto l'ombra vaga del primo Transformers, ai tempi del LeBoeuf sobrio – e per rinunciare all'idea pazza di costruirmi un affare simile in soffitta. E mannaggia. Tornare indietro no? (6)
Una manciata di vecchi amici, un'intrusa con un bambino in arrivo, le solite chiacchiere tra passato e futuro. Poi, la domanda: il nascituro com'è che si chiamerà? Da una semplice curiosità espressa così, per cortesia, una discussione tragicomica che dura un film intero e che, a colpi di rivelazioni e imprevisti, renderà quella compagnia scoppiata forse più unita ancora. L'importante: sopravvivere alla cena; possibilmente tutti interi. Della Archibugi ho visto poco e niente e l'arrivo della sua ultima commedia in sala mi aveva lasciato indifferente. Qui e lì, poi, su un blog e un altro, ho letto le nomination ai prossimi David di Donatello e il legame stretto con una commedia francese che mi era sfuggita – perché ogni tanto i film d'oltralpe, strano ma vero, li metto in lista e poi il bel proposito mi passa di mente. A sua volta, quel film – che recupererò, prima o poi – era tratto da una pièce contemporanea e Il nome del figlio dal teatro riprende gli ambienti limitati, i misurati exploit dei singoli attori, l'impianto. Giusto qualche flashback a spezzarne la continuità. Potrebbe sembrare piattissimo, ma in realtà l'ho trovato, a tratti, anche spassoso. Ben recitato e scritto anche meglio: solido, il che non è poco. Attori alle prese coi tipici ruoli che ormai anni di film hanno cucito loro addosso – il piacione Gassman, l'intellettuale Lo Cascio, la burina Ramazzotti, l'istrione Papaleo, la mite Golino – ma che, con sicurezza grande, si muovono amalgamati ad hoc in un'ora e mezza che ha occhi solo per loro. Non hanno paura di una macchina da presa che, a volte, li appiattisce seguendo stilelemi televisivi, né di copioni a volte impegnativi che tirano fuori il meglio – e il peggio: le ipocrisie, i difetti, le antipatie – di loro. (6,5)

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