Mr. Ciak: Nessuno si salva da solo, The Voices, Two Night Stand, Honeymoon, The Best of me, La Piramide
Creato il 13 marzo 2015 da Mik_94
Avevo lasciato
Delia e Gaetano a un tavolo, mentre la pioggia faceva venire giù il
mio cielo. I vetri appannati: appannato pure io. Non sapevo se
Nessuno si salva da solo m'era piaciuto oppure no. Mi aspettavo una
trasposizione indigesta, per rendere giustizia a quel libro
brevissimo, ma un po' mattone: cena di qualche ora consumata
all'impiedi, con le scarpe che stringevano. Invece Nessuno si
salva da solo si è rivelato una
parziale epifania, come era già capitato con
Non ti muovere. La
storia si è ripetuta; l'ultimo progetto della storica coppia si tiene a galla a furia di spinte convulse e, nonostante
qualche scenetta sopra le righe che avrei troncato, la voglia di sopravvivere è più forte di uno scivolone. L'attenzione filologica per il romanzo manca e si riscrivono
dialoghi e situazioni. Lo zampino della Mazzantini si nota e, a parte
la discutibile abitudine di
lasciare a comprimari abbozzati il compito di fare spaccati della
nostra società, la riuscita generale convince. Meno crudo e
più passionale, istintivo, il film incastra
nel mezzo dell'ultima cena le immagini liete dei
tempi che furono. Foto ricordo di due cambiati poco nell'aspetto, ma
stravolti nel sentimento. Lei che gli tiene il muso, lui che le risponde col
sorriso fiducioso di tutti gli uomini – perché noi siamo fessi e
ci dispiaciamo per tutto. Ai due estremi del ring, Riccardo
Scamarcio e Jasmine Trinca: bravissimi, soprattutto lei, alle prese
con dialoghi lunghi, che strizzano l'occhio al teatro. Si spremono.
Per cacciare le lacrime, per sputare fuori le parole più aspre. Le
masticano e le digeriscono, le sputano, anche se - tratte da un
romanzo pesante e lirico - a volte sono pesanti e liriche anch'esse,
ma grazie a protagonisti validi, tu ne senti il peso smorzato. Scamarcio, grandi passi in avanti dai tempi
di Tre metri sopra il cielo,
ma si sa; la Trinca, bellissima e furiosa, sempre vista da me qui e lì
in ruoli piccoli, è una
rivelazione: la sua Delia è un personaggio sgradevolissimo, ma lei
ha un'intensità forte e sa renderla tollerabile. Il loro
dramma è a voce alta. Schiamazza e urla e le
loro nevrosi di giovani genitori e di amanti finiti toccano, perché,
da figlio di genitor spigolosi, certi litigi
li hai origliati. Altre volte, invece, il loro rapporto è violento, ma tenero, e le scene di sesso mostrano due attori uniti da una grande alchimia – anche fisica.
E loro sono ottimi soprattutto allora, in armonia col
mondo e con loro stessi. I baci in bocca, la saliva, il dare morsi allo stesso cornetto. Perché fingersi tristi non è impossibile,
ma fingersi felici sì che è difficile. La pellicola è girata d'un fiato. Si intravedono la Galiena e Angela
Molina; alla fine esce Roberto Vecchioni – cantastorie, cantamore
– a ricordarci di brindare alla vita. In un melò classico e solido, agrodolce, portatore di tanti difetti del nostro cinema, eppure diretto da un Castellitto abile
nel maneggiare i punti di vista e le sue punte di diamante, si giunge
a quel finale che, nel romanzo, mi
aveva lasciato di sasso. Benché lontano dall'idillio,
qui, c'è un ospite a sorpresa:
la speranza. Allora, ho detto che questi Delia
e Gae, egoisti ma capaci di un concederci un sorriso, mi sono piaciuti di più. A metà tra i finali sospesi prediletti da lei e la consolazione cercata da
lui, nelle sceneggiature grossolane con la sua firma. Un
punto e si va a capo, nel momento delle mance ai camerieri e dei
dessert - e degli amori - buttati in faccia. Quando ritorna la fame. (7)
Potrei essere
pazzo, e tutto può essere. Ma non vedevo un film così convincente
da un po'. Non mi sono sbilanciato nemmeno per gli
Oscar, pensate, sarà che i film che sono piaciuti a tutti io li ho
trovati compiaciuti e antipatici. Fatto sta che questo
The Voices, notato su un sito di cinema e beccato poi in rete,
mi è piaciuto troppo. Inaspettato ma vero, è uno dei prodotti più
fighi visti di recente. Una sorpresona di quelle spietate, divertenti,
originali: rare. Nei titoli di coda leggo un nome straniero, alla
regia, e indago. Ma sapete che Marjane Satrapi, qui per la prima
volta lontana dall'Europa, è l'ideatrice di quel Persepolis
che io non ho visto, ma che tutti hanno apprezzato? Be', io non lo
sapevo. La mia ignoranza ha fatto il suo, come quando mi sono drogato
di How to get away with murder senza sapere chi fosse
la Rhimes. Lecito, per gli estimatori veri, dunque, aspettarsi
una commedia nera sveglia e fuori. Per me, che la
Satrapi la scopro qui e che volevo solo guardare una sottospecie di
horror, The Voices è
stato un colpo di genio. La storia di un efferato serial killer
mostrata come fosse una commedia romantica, coi toni pastello, le
farfalle che svolazzano, le fabbriche antracite che – nella mente
di un sognatore o di un pazzo – diventano ospitali come se le
gestisse Willy Wonka. Il mondo di Jerry, imprevedibile sociopatico,
è una fiaba. Per essere un individuo che colleziona teste umane, reduce da un' infanzia tribolata, è uno a posto. Stravede per i suoi cuccioli:
un cagnone bavoso che è il suo angelo custode e un gatto dal pelo
rosso fuoco che, diavolo tentatore, lo squadra da capo a piedi con
cattiveria e lo spinge ad uccidere. La confezione,
particolarissima, è a metà tra gli splatter movie anni '80 e le
velenose commedie musicali di John Waters – non perdetevi l'assurda
scenetta da musical, prima dei titoli di coda, in cui gli attori
fanno sfoggio di bacini snodati e doti vocali. Si
alternano interiora e zucchero filato rosa, perché la Satrapi segue
il suo protagonista dentro e fuori dalla sua psiche contorta, e se
l'appartamento di lui, nella realtà, è una macelleria di sangue
secco e cadaveri, nell'immaginazione di Jerry è lindo e
pinto e la testa di Gemma Arteron, che nel frattempo marcisce nel
frigo, non va a male. L'amore con Anna Kendrick è possibile e le donne non devono per forza fare la triste fine della sua cara
mamma... Con un cast credibilissimo e una resa, ora cupa e ora tutta
cuori, che metterà d'accordo chi ama generi cinematografici agli antipodi, è
un film assurdo nelle premesse, ma che in realtà ho preso sul serissimo. Ne avrei voluto di più, come se Jerry – come il collega omicida Dexter – potesse avere una serie tutta sua. Impiegatuccio stressato e quieto che ha la faccia di un Ryan
Reynolds mai così versatile e convincente. E' sempre il solito lui
ma c'è qualcosa – lo sguardo timido, le camicie floreali, il fatto che presti la voce a gatto e cane – che lo rende il più looser dei sex symbol.
Tant'è vero che mio fratello, nel mezzo del film, mi ha chiesto se
fosse lo stesso tipo piacione di Lanterna Verde & Co.
Un tenero Norman Bates, nel suo fiabesco non-mondo di gatti
luciferini, teste chiacchierone e Gesù pop star. (8)
Dopo
un amore tramontato, ci vuole un rimpiazzo. Una cosa da poco.
Questione di una notte e via. Ed è così che si incontrano Megan e
Alec, finiti a letto grazie a un sito d'incontri. Ma svegliandosi... sorpresa! Sono bloccati a casa di lui, per via di una di quelle
tormente di neve che ogni tanto paralizzanno la City, e scoprono –
abbandonate le lenzuola, recuperati i vestiti – di trovarsi
irritanti. Pensavano di concordare su cosa fare a letto, ma lei
fingeva l'orgasmo e lui trovava poco sexy il suo modo di liberarsi di
jeans e maglietta e cose simili. Calzini sì o calzini no? Luce
accesa o spenta? Bacio o non bacio? Alzarsi di soppiatto o
addormentarsi abbracciati? Two Night Stand è una commedia
semplice, pulita, retta da due giovani attori in gambissima che
duettano con leggerezza e malizia: si stuzzicano e parlano per tutto
il tempo dei segreti del piacere, senza mai risultare volgari.
L'impredibilità delle previsioni meteo e quelle del corazòn li
porteranno a una seconda notte insieme, ma in nome della scienza,
puramente per la felicità degli amanti che verranno. Come finirà lo
sapete già, ma il film è così sorridente e spensierato che è di
un già visto che... riguardi. Miles Teller, la rivelazione di
Whiplash, e l'adorabile Analeigh Tipton, stella tra le altre
cose dello sfortunato Manhattal Love Story, sono belli in una
maniera non convenzionale e convincono, perché meno prestanti e
molto meno nudi della Kunis e di Timberlake si guardano in quel modo
lì. Quello che gli amanti non si dicono. Quello che lo
spettatore sa, ma che comunque si diverte a vedere succedere. Tra The
First Time e What If – ugualmente inediti in Italia. Tra Venere e Cupido. (6+)
Honeymoon
per molti è uno dei film di genere più interessanti dello scorso
anno. Un ritorno alla fantascienza vecchio stile, in cui tutto si
intuisce già, ma in cui nulla viene mostrato prima del tempo
pattuito. In realtà, non mi ha impressionato come mi avevano
assicurato – la storia è risaputa, le svolte sono prevedibili e
non è paragonabile a perle inedite come The Babadook – ma è
una visione che funziona, soprattutto lì dove l'horror comune toppa:
nella parte iniziale. Honeymoon – luna di miele nel profondo
del bosco, con donne mantidi e laghi mortali – colpisce per
l'aspetto di dramma indie. I dialoghi sinceri, la fotografia mossa,
attori affiatati. I canonici venti minuti iniziali degli horror
annoiano e, spesso, hanno svolte ridicole: questi, romantici e
profondi, invece funzionano a tal punto da risultare quasi meglio del
resto. Prendi a cuore quei due giovani e assisti
angosciato alla degenerazione del loro sentimento, che è
soprannaturale anche se ricorda da vicino il comune tramonto delle
storie d'amore. Merito di una scrittura notevole, di una regia che
gioca coi rimandi e di due protagonisti che reggono da soli il tutto
– giacché i mostri non si vedono; giacché loro, preoccupati e
atterriti come fossero in un Paranormal Activity d'autore,
convincono pienamente. Da Games of thrones, Rose Leslie –
qui molto inquietante. Conosciuto per Penny Dreadful, Harry Treadaway: un giovane talento con la
faccia giusta e tutte le carte in regola. Honeymoon è un po'
un Amityville Horror al femminile, che cita Antichrist,
Funny Games e lo sci-fi d'epoca: una riscrittura detta e non,
inserita nella parentesi graffa di un matrimonio che va allo sfascio. Uomini e donne si sa che vengono da pianeti
diversi. (6,5)
Capita
con le cose che ti porti appresso dall'infanzia. Di guardarle, anche
adesso che sei grande, con occhi buoni. Le boy band, i cartoni
animati che non danno più in tivù, gli autori che piacevano a tua
mamma e che, quando in casa non c'era nient'altro, leggevi anche tu
per noia. Sparks è da inserire lì. Una volta all'anno, mi ci
riavvicino e, nella noia di una sera infrasettimanale, se sono a casa
e non all'università, me lo recupero: mia mamma sul divano, ma tanto
si addormenta. The Best of me è una storia delle sue. Questa
volta, talmente sfigata che Paul Walker era in lizza per il ruolo del
protagonista e, be', sapete che fine ha fatto. L'ha sostituito James
Marsden, bello accanto alla sua bella Michelle Monaghan, e i due
interpretano una coppia di innamorati che, a vent'anni di distanza,
si rincontrano. Sapete come vanno le cose: gente che si bacia sotto
gli acquazzoni senza prendersi un coccolone, lunghe lettere, famiglie
che si mettono in mezzo perché lei è ricca e lui è povero, amori
doppi che esistono solo nei libri, una New Orleans senza uragani ma
piena di sole. E non scordiamoci i flashback. Partono, e la Monaghan
diventa Liana Liberato, dolce e somigliante, mentre Marsden tale Luke
Bracey – un tipo più giovane no, eh? La solita formula. Però, più
di tanto, non saprei che dirgli di male. Scrive sempre la stessa
storia – cambiano i punti, le virgole, i nomi – ma, purché venga
a trovarti ogni tanto, riconosci che nella sua retorica c'è
educazione e una certa magia. L'importante è sapersi accontentare di
una vicenda che fa un po' estati di Canale Cinque. Perché nessuno ti
amerà mai come se vivessi in un suo libro, eppure consolati: non sei
in un suo libro, ergo la persona che ti è accanto e non ti ama così
forte, probabilmente, non è condannata a lacrimose morti. (5,5)
Ci sono i
classici archelogici che vanno a visitare il classico luogo
misterioso e inaccessibile, nel classico horror tremolante e buio,
uscito addirittura nelle nostre sale. La Piramide oggettivamente
non è niente di nuovo. Certo, non è inguardabile, non è la più
brutta delle visioni augurabili al nostro nemico, ma è inutile e
trascurabile, soprattutto considando il fatto che venga proposto
sulla scia del più recente e interessante Necropolis.
Stile simile, trama in rima, ma idee giocate meglio, lì, e con più
genuinità. Quello, nel profondo delle catacombe parigine, con la
Divina Commedia che
scendeva a patti con le avventure di Dan Brown, si era
guadagnato una sufficienza. Questo, scimmiottando il predecessore –
troppo recente e troppo poco importante per essere imitato – e alla
lontana il cult Quella casa nel bosco,
ci parla di leggende e dinvinità incazzose, ma oltre al sano brivido
manca anche il mistero. Il found footage non stanca, vero, ma gli effetti visivi non sono, a tratti, all'altezza
della situazione. Descritto così penserete che è uno schifo, ma
invece no. Si segue, nonostante il tipico inizio pallosissimo, e
l'improbabile svolta finale – costellata di buchi narrativi, ma
fantasiosa il giusto – diverte. La mitologia
egizia, accanto ai gatti carnivori e alle figure leggendarie dei libri di storia,
avrebbe potuto offrire dritte più suggestive. Invece, l'autore del
meritevolissimo Alta tensione –
splatterone francese con una De France bestiale; l'avete visto? – non fa il massimo
con una sceneggiatura esile scritta dagli americani, né con un cast
modestissimo, in cui spicca giusto Denis O'Hare. Ma, ottimo in
American Horror Story,
con le sue mille facce da caratterista, qui non salva una barca che ha accolto acqua
nera a bordo e, se non fosse per i canonici novanta minuti, andrebbe miseramente a fondo. (5-)
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