Mr Ciak: Prisoners, Don Jon, Una piccola impresa meridionale, The Canyons
Creato il 03 dicembre 2013 da Mik_94
Buongiorno,
amici! Come state? Qui tutto bene, o quasi. Finalmente, dopo giorni
di pioggia e nuvole, è spuntato il sole: miracolo. Peccato che il
centro commerciale in cui staserai avrei dovuto vedere Catching Fire
è stato chiuso per alcuni controlli legati al tempaccio di questi
giorni. Per domani era in programma anche un incontro gratuito con
Fedez, per il suo nuovo disco, ma niente: slittato anche quello.
Intanto, quest'oggi, vi lascio con la recensione di quattro film che
ho visto di recente: un solidissimo dramma interpretato da attori
praticamente perfetti, un piccolo grande film italiano e due
pellicole molto chiacchierate, per via delle scene forti e di un tema
apparentemente vietato ai minori, ma che non ho messo bene a fuoco,
purtroppo. Una visione, comunque, la meritano tutti e quattro.
Fatemi, come sempre, sapere la vostra. Un bacione e a presto, M.
Non
attendevo Prisoners. Non lo conoscevo prima che tutti, dopo
l'uscita nei cinema, iniziassero a parlarne. Le parole erano diverse,
ma i risultati pressoché uguali: Prisoners era un film da
vedere; un bel film; forse, uno dei migliori dell'anno. A spaventarmi
era la durata eccessiva, oltre due ore per risolvere il mistero
relativo alla scomparsa di due bambine: troppe, per un tipo come me
che si annoia con sorprendente facilità. Mi aspettavo qualcosa di
cervellotico, complesso, alla Cristopher Nolan: difficile da seguire,
impossibile da ignorare. Qualcosa, magari, con un tocco mistico, di
paranormale. Qualcosa che giustificasse, insomma, una durata
apparentemente tanto eccessiva, almeno per i miei canoni di
spettatore. Prisoners, invece, è un dramma purissimo ed
essenziale, inscenato su un caliginoso e cupo sfondo da thriller. Un
dramma solidissimo, teso, bisbigliato, pianto e urlato a gran voce.
Di un'intensità struggente e disturbante. La storia, semplice e
lineare, è incentrata sull'incubo di due famiglie che, in un giorno
che quasi nessuno potrebbe rovinare, scoprono, con orrore immenso,
che le loro piccole sono scomparse. Rapite dall'uomo invisibile. Anna
e Joy, con i loro cappellini di lana e le loro mani strette sempre
tra loro, stavano giocando accanto a un camper parcheggiato nel
vialetto dei vicini, divertendosi e perdendo tempo come solo i più
piccoli e fantasiosi sanno fare. Ma il camper non era vuoto. E'
sparito dal quartiere insieme a loro. Dove sono? Chi le ha prese?
Stanno bene? Le domande lacerano le famiglia di Hugh Jackman e di
Terrence Howard e, mentre i giorni passano, la paura cresce
esponenzialmente. Le mogli piangono senza sosta, i figli maggiori
sono logorati dal senso di colpa, la polizia non sa dove cercare:
l'unico sospettato – un ragazzo introverso, taciturno e senza
alcuna malizia – sembra in preda a farneticazioni insensate. Un
padre, arrabbiato con il mondo e con Dio, come spesso accade nella
cronaca nera, deciderà di cercare giustizia per conto proprio,
appellandosi alla violenza di un assassino a sangue freddo, alla
tenacia di uno sbirro, alla costanza di un buon genitore. Il titolo
del film parla di prigionia, di prigionieri: il francese Denis
Villeneuve descrive, nel suo primo film americano, una prigionia
fisica, psicologica, religiosa e spirituale. Dirige attori
mostruosamente bravi e, con una regia priva di sbavature, spietata,
sceglie di inscenare il tutto in un'America imbiancata dalla neve
dicembrina, dove tutti aspettano il tacchino del Ringraziamento, poi
il Natale imminente. Alcuni avvenimenti risultano così sbagliati, in
un periodo che dovrebbe essere così felice... Ma, se come dramma
funziona alla perfezione, come thriller questo bel Prisoners
mi ha convinto leggermente di meno. Nessun colpo di scena mirato a
mozzare il fiato allo spettatore, nessuno spiazzante colpo da
maestro. Il poster, i trailer e molte sequenze della pellicola,
infatti, mostrano un intricato labirinto senza uscita: elemento che
ha un chiaro significato a livello psicoanalitico, ma poca attinenza
con il giallo da risolvere. Hugh Jackman, nuovamente in stato di
grazia dopo Les Miserables, con le sue occhiaie e con una
strana gracilità manifesta, mette anima e corpo in un'altra intensa
prova da Oscar. Bravo, ma meno convincente, invece, il detective Jake
Gyllenhaal: il suo personaggio mi è sembrato stranamente incompleto
ed incompreso; irrisolto. Pecca, infatti, di una strana ma
interessantissima caratterizzazione che, eppure, a conti fatti, non
porta da nessuna parte. I suoi tic nervosi, il tatuaggio che gli si
arrampica sul collo, gli strani simboli che ha tatuati sulle nocche e
i suoi occhi da pazzo, secondo me, contribuiscono a creare un mistero
fitto e perenne che, tuttavia, non trova sempre risposta, almeno in
questo caso. Paricolarmente convincente anche un'affranta e fragile
Maria Bello, meno i poco sfruttati Terrence Howard e Viola Davis.
Incredibilmente d'effetto la sequenza finale: un suono timido e
prolungato che rompe il ghiaccio, il buio, il cuore. Meraviglioso il
doppiaggio italiano, che – ben fatto e più preciso che mai – non
toglie nulla alla forza delle prove dei singoli attori: siamo i
migliori in questo campo e, per orgoglio e completezza, dobbiamo
sottolinearlo, ogni tanto, sì. Prisoners è un bel film, che
– anche se non privo di intoppi – funziona benissimo. E,
miracolo, non mi sono annoiato. Non so se sia il miglior film di
quest'anno, ma un'altra cosa credo di saperla: con alcuni
accorgimenti, nell'ambito della sceneggiatura e della costruzione dei
personaggi secondari, avrebbe potuto essere anche migliore di così.
Ne sono sicurissimo.
Credo
che Joseph Gordon Levitt sia uno dei miei attori preferiti: uno dei
più bravi, completi e impegnati della sua generazione. Sugli schermi
di cinema e televisione sin da bambino, è uno dei pochi personaggi
che Hollywood non abbia crudelmente bruciato: è bravo, intelligente,
versatile, brillante. Erede lampo, secondo molti, del compianto Heath
Ledger, anche se giovanissimo, ha recitato in innumerevoli film, che
vanno dal puro action movie al dramma, dalla commedia romantica alla
fantascienza: il mio film preferito, che ve lo dico a fare, è 500
Giorni Insieme. Sarà che lui, con quel look un po' nerd e
quell'acume che lo rende una spanna al di sopra dai soliti belloni,
coincideva alla perfezione con il romantico, simpatico e sfortunato
personaggio che interpretava: Tom Hensen, il ragazzo con cui non era
umanamente possibile non identificarsi. Aspettavo Don Jon,
quindi; aspettavo il suo primo film da regista. Ero curioso,
divertito e tutti sembravano averlo adorato: come non farlo con un
cast che, accanto a Gordon Levitt, vedeva coninvolte le meravigliose
Julianne Moore e Scarlett Johansson? Colpo di scena, invece. Perché
Don Jon, mi dispiace ammettero, non mi ha pienamente
coinvolto; non mi ha pienamente convinto. E' uno, infatti, di quei
film che colpiranno più l'attenzione dei gradi critici che del
pubblico pagante. Mi è sembrato un'occasione sprecata per dire, in
maniera coraggiosa e originale, cose importanti. E originale e
coraggioso, all'inizio, il film lo sembra davvero. Sembra folle,
audace, geniale. Bombarda, infatti, con immagine di nudi e amplessi
presi in prestito dai siti per adulti e ti assorda con un linguaggio
forte e a dir poco colorito che non ci aspetteremmo, in determinate
situazioni. E' trasgressivo, è volgare, è eccessivo, ma a lungo
andare si dimostra soltanto un furbo dissimulatore: finge alla
perfezione, ma finge... Don Jon non
è come vorrebbe apparire: dietro un incipit così brusco e
provocatorio, infatti, si trascina con i suoi bicipiti pronunciati i
fardelli mai dimenticati della commedia all'americana. Chiamano il
protagonista Don Jon per due motivi: ha origini italiane – con
tanto di famiglia asfissiante e di gite domenicali in chiesa – ed è
un autentico Don Giovanni. Uno sciupafemmine in piena regola. Lavora
per pagarsi la palestra, il suo piccolo appartamento e la connessione
internet, che alimenta – notte dopo notte, minuto dopo minuto –
la sua dipendenza più grande: il porno. Perché Jon è bello,
muscoloso, popolare, pieno di donne, ma non sa amare. Cerca il
brivido, la fisicità e l'eccitazione che YouPorn gli
regala, non una relazione fissa. Può cambiare se a chiederlo c'è
una bomba sexy come Scarlett Johansson, che chiede solo a Jon di
impegnarsi, e di farle conoscere la sua famiglia, e di diplomarsi, e
di rinunciare alla sua droga segreta...? Jon, tra sedute in palestra,
video hard, astinenza e confessioni a luci rosse, con l'aiuto e
l'amicizia inaspettata di una donna di mezza età con il volto della
sempre fantastica Julianne Moore, troverà la risposta – non molto
imprevedibile, c'è da dirlo – alle sue domande esistenziali. La
pecca di Don Jon è, a
mio parere, la scarsa messa a fuoco: è una commedia finta
trasgressiva, falsamente volgare e celetamente sentimentale, che si
avvale di tre bravi attori e di un montaggio originalissimo e
spiazzante, ma che, alla fine, si ammala del dolce romanticismo delle
commedie rosa che, tanto spesso, vuole fare a pezzi. Le vuole
demolire, analizzarne i difetti e gli effetti sul pubblico femminile
(ironici e intelligenti, a tal proposito, i cameo a sorpresa degli
innamoratissimi Anne Hathaway e Channing Tatum: icone romantiche del
personaggio della Johansson!), ma finisce per utilizzare i medesimi,
collaudati tasselli nella costruzione del racconto. Si lascia
guardare con piacere, ma – poco incisivo e coerente con sé stesso
– non lascia il segno: fa sorridere, ma troppo poco per risultare
comico e troppo debolmente per risultare romantico a sufficienza.
Ricercato, ma poco appassionante, dunque, questo L'amore ai
tempi del porno: un tantino
paraculo. Diciamolo
sin da ora, è soprattutto la splendida Scarlett a farsi guardare con
piacere: è sesso che cammina, non conosco altri termini. Provocante,
sensuale, biondissima e formosa, per una volta, abbandonda i ruoli
più impegnativi e, in quest'ennesima prova sul grande schermo, si
diverte e ammicca, ricordando, a chi fosse stato tanto stupido da
dimenticarlo, che è tanto sexy quanto brava. Non l'ho mai vista così
frivola, leggera, banale, divertita. Accanto a lei, in un piccolo
ruolo, sebbene importantissimo per la storia, l'incredibile Julianne
Moore: perfetta, convincente ed emozionante come sempre, sebbene il
suo personaggio sia piccolo e poco caratterizzato. Ma ha uno sguardo,
delle movenze e una profondità tali da farti immaginare il suo
vissuto e credere di conoscere perfino quello che la veloce
sceneggiatura non svela: ammaliante, semplicemente. Le ragazze,
invece, potranno rifarsi gli occhi con un Gordon Levitt inedito,
fisicamente in grande forma, anche se meno brillante e convincente
del solito: come Don Giovanni ce l'ho visto poco. E altrettanto poco
mi ha colpito il soggetto di questo suo primo film da regista, una
pellicola interessante, ma che si accontenta relativamente di poco.
Qualcosa di vero, però, Don Jon la
dice: il sesso vende, il sesso fa audience, il sesso è ovunque.
Pusher incensurati di questa di questi sex addicted le pubblicità,
le riviste, i romanzi, i supermercati, perfino i telegiornali: di
passaggi dalla cronaca nera ai calendari della velina di turno noi,
con Studio Aperto, ne sappiamo qualcosina.Tre annacquate stelline
d'incoraggiamento.
Un
ex prete, un ex marito, un' ex prostituta. Tre ex persone alla
scoperta di loro stesse, della loro personale felicità, del loro
posto nel mondo. Una piccola impresa meridionale – approdato
nei cinema questo mese, prodotto dalla Warner Bros – è una piccola
pellicola italiana, diretta, scritta, prodotta ed interpretata dal
bravissimo Rocco Papaleo che, dopo Basilicata Coast To Coast,
si dimostra anche un ottimo autore di canzoni e un ottimo essere
umano. Senza volgarità e risate facili, il suo film è una bella
commedia umana ambientata in un angolo di Paradiso del profondo sud,
tra scogliere, onde e acque blu che sembrano rubate dai paesaggi
della Grecia più visitata dai turisti. Lui, abbandonati i voti per
amore di una donna che l'ha lasciato subito o quasi, si è rifugiato
a qualche chilometro dal suo paese d'origine, per scappare dai
pettegolezzi di turno e dalle occhiatacce della madre: nessuno dovrà
sapere che, ormai, ha abbandonato la “squadra di Gesù Cristo”,
come afferma il protagonista in una delle prime sequenze del film. In
quel faro immenso e tutto da ristrutturare, affacciato a strapiombo
sul mare, il nostro Rocco pensava di trovare un po' di pace, ma altri
personaggi hanno avuto la sua stessa idea. Nella casa in cui è
cresciuto, infatti, per allontanarsi da tutto e da tutti, si sono
rifugiate altre quattro persone: un maturo Riccardo Scamarcio,
abbandonato dalla moglie e allegramente additato come “cornuto”
da ogni anima del suo paesino; la bellissima Barbora Bobulova,
sorella della governante nonché prostituta in pensione; la ex moglie
di Scamarcio e la sua nuova fiamma, Sarah Felberbaum. La
ristrutturazione del faro, messa a punto dalla stessa piccola
impresa meridionale del titolo e capitanata dal sempre
simpaticissimo Giovanni Esposito, renderà queste cinque vite così
scandalose inseparabili, migliori, vicinissime. Un bravissimo Rocco
Papaleo dirige un tipo di commedia a cui non siamo troppo abituati:
delicata, brillante, sincera, nostra. Allegra senza essere sguaiata.
Malinconica senza essere triste
Per
un certo periodo, questo film è stato sulla bocca di tutti. C'era
chi gridava allo scandalo, chi gridava allo scempio, chi elogiava il
lavoro di regista e autori e chi, invece, lo affossava radicalmente.
Io ero curioso. Curiosissimo. Lo sono sempre davanti ai film che
fanno così tanto discutere e parlare di sé. Ho visto The
Canyons, però, tenendo d'occhio
più le recensioni negative che quelle positive. E mi aspettavo una
mezza oscenità. Qualcosa di imbarazzante e assolutamente
inguardabile. Mi aspettavo la desolazione, e una desolante rottura di
scatole. La desolazione l'ho percepita, sì, ma solo alla fine.
Davanti alle immagini in bianco in nero di cinema chiusi a tempo
indeterminato, chiusi per sempre, e dietro a un mondo falsamente
luccicante, pieno di gente senza scrupoli disposta a vendersi al
miglior offerente. Questo, dunque, non sarà di certo il miglior film
nella carriera di Paul Schrader e, ancora più certamente, non sarà
paragonabile ad American Psyco e Taxi Driver, ma non l'ho trovato poi
così pessimo, strano ma vero. Mi aspettavo peggio. E molto, molto,
molto peggio. The Canyons,
invece, tra la soap e il noir, è un film che fa discretamente il suo
sporco lavoro, tutto sommato: non mi ha scandalizzato, non mi ha
segnato irreversibilmente la vita, ma non mi ha disgustato a tal
punto da spegnere e passare ad altro. Il punto è che non racconta
nulla di nuovo e che questa storia fintamente osè di sesso,
tradimenti e sangue l'abbiamo vista e letta un'infinità di volte. Il
film di Schrader ci mostra quello che già sappiamo, soddisfando la
primordiale curiosità dello spettatore comune di entrare nelle
patinate vite di Hollywood a dare una sbirciatina: mostra il sesso
occasionale e i rapporti più promiscui, le lacrime e i sacrifici per
un provino andato male, l'aridità e il grigio spento di un mondo da
sogno e da incubo, le relazioni di facciata, la dipendenza da droghe
e trasgressioni, il prostituirsi gratuitamente – senza nessuna
dignità – per ottenere una particina in un film da vedere e
dimenticare. C'è da dire che lo sguardo di Schrader, alla regia, e
di Breat Easton Ellis, alla sceneggiatura, è interessante, acuto,
feroce, forte. Particolarissimo. Ben diretto, anche se non sorretto
da uno script abbastanza robusto e a tratti prevedibilissimo, The
Canyons è trash, ma con una
certa consapevolezza, con una certa fierezza. Si poggia su dialoghi
lunghi e semplici, a volte intriganti ma altre apparentemente
sottratti a un serial televisimo, ma c'è qualcosa di misterioso e
indefinito che fa sì che non venga a noia: teatrale, nudo, quasi un
film da camera. E non da camera da letto, no. Alcuni l'hanno definito
addirittura un porno soft e gli stessi produttori, prima delle
riprese, avevano sollevato un grande polverone, dicendo che gli
attori sarebbero stati coinvolti in esplicite e promiscue scene di
sesso: le scene in questione sono tre e, anche se sbandierano sullo
schermo i corpi nudi di due degli attori, non hanno niente di
particolarmente pruriginoso, anche se propongono comportamenti forse
poco convenzionali per il nostro cinema commerciale – un accenno di
menage a trois; un bacio gay tra
James Deen e un altro uomo, durante uno scambio di coppia. Niente che
una serie HBO o il bel Shame
non abbia già mostrato a sufficienza. Tanto rumore per nulla,
dunque. Tanto rumore, ancora, per il cast: così variegato e, perché
no, anche così male organizzato. Una Linsay Lohan da chiudere
urgentemente in riabilitazione e James Deen, uno dei pornostar più
noti d'america. Inaudito, impensabile! Invece, paradossalmente, è
proprio lui, tra i due, a cavarsela meglio: sguardo di ghiaccio,
tratti affilati e ovviamente a proprio agio con qualche scena di nudo
frontale, interpreta una sorta di vizioso, folle e paranoico
Christian Gray. Dal personaggio, infatti, prende in prestito il nome
di battesimo, uno smodato appetito sessuale e degli inquietanti modi
da maschio alfa. La prova di lei, invece, è trascurabilissima: per
un film intero, tra me e me, ho insultato il modo in cui è voluta
ridursi e il suo chirurgo plastico. Sembra una cinquantenne
dipendente da botulino: non ha espressioni e, magra, ha labbra alla
Valeria Marini, uno strano accenno di doppio mento (la
pelle stirata sarà finita tutta lì?)
e due palloni da Basket al posto dei seni. Sceglierli nel cast è
stato meno audace del previsto, secondo me: interpretano praticamente
loro stessi. E' per questo che il loro gioco incuriosisce fino alla
fine. E, alla fine, convincono. Deen, con il suo primo copione vero
tra le mani, se la cava veramente piuttosto bene e la Lohan, con la
sua faccia a un passo dal crollare per i troppi ritocchi e il trucco
volgare, incarna, da sola, un'intera categoria di aspiranti stelle
che – nel tragitto verso la fama – si bruciano fino a spegnersi.
Due personaggi sbagliati, complicati e negativi circondati da persone
sbagliate e malate di attenzioni quanto lo sono loro. L'unico
personaggio parzialmente positivo del film, forse, è quello
interpretato dal più che discreto Nolan Funk: bello, faccia pulita,
ancora fiducioso nell'amore di una Lohan che l'ha lasciato per un
uomo cattivo, ma che la copre di fruscianti banconote. Significativi
gli sguardi che, in momenti diversi del film, tutti e tre lanciano
allo spettatore, rompendo per un secondo l'illusione scenica.
Complicità o una sottile richiesta d'aiuto? The Canyons è
un film pieno di pecche, tutt'altro che indimenticabile, ma che, a
freddo, qualche piccola riflessione, anche se scontata, la suscita.
Non bello, ma nemmeno malvagio.
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