Mr. Ciak: Rudderless, Fantastic 4, Dark Places, Aloha, Tutto può accadere a Broadway, Return to Sender

Creato il 14 settembre 2015 da Mik_94
Rudderless parte schiacciando il solito tasto. Quello, a orecchio, dolente: la morte di un figlio, la voglia di disperarsi. Eppure la vicenda che ti racconta non è di quelle che che sperano di condurti sull'orlo del pianto. La storia di questo padre straziato dalla perdita – un figlio ucciso in una sparatoria in un campus universitario – si perde, qualche volta, in una bottiglia di birra scura, ma per fortuna si ritrova nella musica. Basta beccare l'accordo o trovare il coraggio di mettere il naso in una stanza che spaventa. Sam – che ha abbandonato tutto, per vivere da spiantato su una barca: per fuggire – un giorno trova i dischi che suo figlio ha inciso prima dell'inizio della fine. Così, in sua memoria, li fa suoi e canta qualche canzone per locali: i testi di Josh sono il mezzo più efficace per essergli vicino. Quel lupo di mare di mezza età, perennemente alticcio e su di giri, stringe amicizia con un ventunenne che cela la timidezza cronica dietro una parlantina a raffica: con lui e due coetanei sfigatelli forma un improbabile gruppo che fa bella musica. Rudderless racconta l'ascesa di una band e il lento risalire la china; dramma – anche un po' commedia però – in musica, sul perdono e il correlato perdonarsi. A sorprendere dell'esordio di William H. Macy – ma sì, il Frank di Shameless – è la leggerezza di cui, nonostante un fatto bruttissimo, è padrone e la presenza di pezzi già riascoltati, personalmente curati da un cast che non ti aspetti. Un magnifico Billy Crudup regala così una prova vocalmente ineccepibile e emotivamente ricca: il suo papà a pezzi un po' clochard è uno di quelli che quando si sbronzano sono patetici ma allegri. Anton Yelchin, come il prezzemolo ma in gamba, intonato, suona con convinzione e non si riconosce quasi con il viso emaciato e i capelloni ricci. E l'amicizia strana tra un padre senza figlio e un figlio senza padre, un vecchio e un giovane, ha effetti ora tragicomici e ora miracolosi, senza retorica alcuna – tra i due, inoltre, la fidanzata a lutto Selenza Gomez e la mamma recalcitrante Felicity Hoffman. Oltre a una colonna sonora originale e a un'aria trasandata nelle mie corde (e quando mai il Sundance sbaglia, poi?), c'è una simpatica parte teen – il ragazzo impresentabile che ha il talento ma non la faccia tosta – e un colpo di scena da pelle d'oca. Se non ti commuove all'inizio, Rudderless ti commuove quando meno te lo aspetti, con un'intensa ballad di chiusura che è una benedizione; un pugno forte, ma necessario: delicato. Quando il peggio sembra passato, eccolo che riaffiora – con la sua faccia segreta, con la vergogna – e lo si affronta, con la chitarra in braccio e le spiegazioni nel prossimo ritornello. Rudderless – tra Begin Again e La stanza del figlio –  non è mai una scontata, stonata, canzone triste. Mi ha rubato cuore e mp3. (8)
Io odio il cinecomic. Così, quest'anno, era cominciato un post in cui – tra posizioni finto snob e ricordi – mi ero per metà ricreduto. Non odiavo il fumetto quando era come il Daredevil Netflix, ad esempio. Per il resto sì. Neanche quando il film è amatissimo io riesco ad apprezzarlo; figuratevi quante probabilità ci siano che mi piaccia, invece, il disastro annunciato che neanche gli appassionati salvano. Fantastic 4 – flop clamoroso, rinnegato perfino da chi l'ha diretto e interpretato – a sorpresa non mi è dispiaciuto. Alla sufficienza piena non arriva, e facile sarebbe fare ironia con l'aggettivo fantastico, mai così fuori luogo qui, e con il numero nel titolo che, per magia, va a richiamare il quattro secco della valutazione finale. Prima di vederlo, e viva il pregiudizio, avevo un'idea per un bel commento negativo. Ma poi, pronto al peggio, mi sono mediamente goduto quest'ora e mezza, vista solo per una curiosità di quelle brutte: quando mai di mia spontanea volontà guarderei un prodotto Marvel? Vista a suo tempo la saga originale, che mi aveva diverto e poco più, non mi ha turbato l'idea di un reboot. Il cast, inoltre, vanta alcuni tra gli attori più promettenti della nuova generazione: la rivelazione di Whiplash, la sorella meno impegnata di Rooney Mara, il Billy Elliot cresciuto con Von Trier e Vinterberg, il protagonista del premiato Fruitvale Station. Questa riscrittura in chiave giovanile, per me, parte bene: un cenno a un'infanzia da nerd e a una lunga amicizia, la coesione non messa in gioco da nessun amore, salvare il mondo come fosse un progetto del liceo. Spensierata, la prima ora vede un quinto membro di passaggio – un giovane Dottor Destino non ancora cattivo – e la scoperta di un mondo parallelo. Non ci sono momenti seriosi né la simpatia per forza; New York non sarà nuovamente distrutta. Da qui in poi, la situazione precipita: qualcuno schiaccia "avanti veloce". Un'ellissi narrativa buttata lì, un anno è passato: sviluppi che nessuno ti ha spiegato, uno scontro finale di pochi minuti, un epilogo aperto. Quello c'è di negativo – non la Torcia Umana di colore che tanto ha fatto strepitare (momento ironia: la fiamma l'avrà scurito un po' troppo?), né il mondo alternativo che ricorda preoccupantemente i wallpaper dozzinali del mio portatile: ossia, il sembrare il pilot introduttivo di un telefilm senza un to be continued. (5,5)
Gillian Flynn – dopo il fenomeno Gone Girl – non ci ha messo molto a tornare al cinema. Presta la sua penna al francese Gilles Paquet-Brenner. Dark Places è poliziesco non particolarmente piaciuto in rete, di cui mi sono concesso direttamente il film, senza prima passare per il romanzo. Come saprà qualche lettore, parla di un caso di cronaca riportato alla luce dopo trent'anni: Libby Day – unica sopravvissuta al massacro di famiglia di cui è stato dichiarato colpevole il fratello maggiore – adesso è una donna che ha bisogno di soldi e pace. Non indaga per sete di giustizia, ma per conto di uno strano club finanziato da appassionati di crimini irrisolti: torna ad aprire la porta al passato, e scopre che forse il mostro in galera aveva avuto un ruolo marginale in quella notte di sangue. Cos'è successo davvero? Nelle zone d'ombra del titolo, una storia tra passato e presente, ambientata in una America rurale, dura e polverosa: le fattorie pignorate, le bettole che attirano i papà alcolizzati, i ragazzini precoci che adorano il Demonio. I paragoni scattano e non sembrano tenere in considerazione lo spirito diverso delle due storie: quella proposta da Fincher, cinica e all'insegna del colpo di scena; questa a cura del modesto regista di La chiave di Sara – capace, anche in quell'occasione, di districarsi con fluidità tra diversi piani temporali – verosimile e lineare. Davanti a una svolta non perevista ma poco incisiva, ho però avuto l'impressione che sin dall'inizio Dark Places fosse una piccola storia; ma il risultato – nonostante le imperfezioni e i limiti – è più che sufficiente. Merito di una confezione classica e di un ritmo lento, che ti lascia apprezzare più il dramma ambientato in quei sonnacchiosi anni ottanta che il giallo contemporaneo. Ottima la scelta dei comprimari – una sexy Chloe Moretz, una Christina Hendricks dimessa, un Nicholas Hoult che ha fatto di meglio altrove – e prevedibilmente in parte la Theron, camaleontica e dello stile androgino; il viso tirato per tutta la durata del film. (7)
Bradley Cooper è un eroe in congedo – traumi di guerra dopo American Sniper? - che arriva alle Hawaii con un gamba dolorante e piani confusi. Riallaccia rapporti con una Rachel McAdams mai scordata; si innamora di un rigido caporale con gli occhi di Emma Stone; finanziato da un esagerato Bill Murray che vuole comprarsi il cielo, fa da paciere tra americani e indigeni. Questo e qualcos'altro, con illustri comparse che non vi sto a elencare e un intreccio a metà tra la commedia sentimentale e la spy story, capita in Aloha, ultimo film del buon Cameron Crowe – nel mio cuore a vita per Quasi Famosi e Vanilla Sky – su cui, in Patria, hanno detto peste e corna. Se ingiustamente, guardate, non saprei: la stampa criticava posizioni politiche che non ho colto e un razzismo di fondo nel descrivere le tribù locali; non la sceneggiatura – disimpegnata, ma estremamente gradevole – e il lavoro dei protagonisti – rilassati e bene amalgamati. Glissando perciò su questi elementi – forse dolenti per gli yankee, ma noi siamo italiani, quindi chissene – resta il fatto che Aloha, film di puro intrattenimento sorretto da un ottimo cast e da più di qualche scena brillante – il dialogo muto tra Cooper e un laconico Krasinski, il ballo a Natale tra la Stone e Murray -, diverte e intrattiene con intelligenza. Dovrebbe sorprenderici la cosa? Direi di no, con un Crowe che ci mancava, i suoi classici personaggi combattuti e dai lavori inconsueti, la profondità e l'acume, gli epiloghi non scontati. Se la surreale parentesi spionistica non si segue con molta convinzione, è anche perché si è impegnati a vedere il protagonista alle prese con due delle donne della mia vita, su uno sfondo esotico che non fa da cornice folkloristica. Per una volta il titolo italiano non sbaglia, in ballo infatti c'è il cielo, ma preferisco quello internazionale, che significa “ciao” e “arrivederci”. L'unico termine che conosco insieme a ohana, direttamente da Lilo & Sitch: “famiglia”. Altra parola che può andare tanto bene, per riassumere questa storia di salvataggi sopra le righe, nidi, sogni di secondo taglio. (7)
Una stella in ascesa racconta a una giornalista l'incarico con una compagnia in cui – suo malgrado – ha seminato zizzania. Quella nuova diva, infatti, un tempo lavorava come squillo in attesa della grande svolta: uno dei suoi amanti – un regista filantropo o puttaniere – aveva finanzato generosamente i suoi sogni e, per pura coincidenza, si era ritrovata a recitare proprio nello spettacolo di quest'ultimo. Ma con una moglie sospettosa, un attore inaffidabile che sa tutti i dettagli del tradimento, uno scrittore pazzo d'amore, lo spettacolo con la bella Isabella – ingenua, nonostante la professione più antica del mondo – sarà stato allestito senza divorzi o, per un crimine d'amore, reputazioni rovinate? Tutto può accadere a Broadway – in inverno da noi – è il ritorno al cinema di Peter Bogdanovich, settantaseienne che – come sapranno i cinefili doc, dunque non troppo io – è un'istituzione quando si parla di commedia. Qui, tutti in un colpo, il Wilson cascamorto, l'Ifans istrione, una Aniston pazza; soprattutto, una Imogen Poots – se sia più bella o simpatica non si sa, con il suo personaggio alla Audrey, di gran classe – da cui portano tutte le strade. Newyorkese con orgoglio, Bogdanovich cita sé stesso, Lubitsch e l'Allen più brillante, in un film dalla comicità sofisticata, in cui una scrittura pimpante, un cast all stars e colori retrò trovano l'approvazione di un pubblico che stravede facilmente per le cose così. Luccicanti, parlatissime, d'altre epoche. Non un attore fuori forma o un momento di silenzio, quando tutti si affidano a un'anziana leggenda e fraintendimenti e battute fulminanti – in cui si parla di sentimenti, show business e dintorni – ti sommergono come un'onda e ti intontiscono di chiacchiere. Ma giusto un po'. (6,5)
L'ultimo Fincher aveva lasciato scoprire ai più il potenziale di una grande attrice. Dopo Gone Girl, si attendevano riconferme dalla Pike; collaborazioni importanti e nuovi progetti, anche se, cronologicamente, si ha la sfortuna di imbattersi prima in Return to sender. Il lavoro direttamente successivo a quello che la portò a un passo così dall'Oscar: scivolone imperdonabile. Perché è un thriller scialbo e inconcludente; perché il personaggio di Miranda – algida, perfetta, impenetrabile – è la fotocopia in bianco e nero di Amy. Un anno dopo, con un'altra vendetta e un'altra regina di ghiaccio? Scelta sbagliata e ingiustificata, dato uno script inconsistente e l'idea vecchia. La storia della perfetta infermiera che, in pieno giorno, viene stuprata da un fattorino (no, non lo mandava Zalando - "urla di piacere") e medita punizioni poco esemplari, infatti, regala un'unica sorpresa: la vendetta ci sarà, ma rimandata di un'ora. Se la violenza manca, si nega all'appello anche una degna caratterizzazione dei personaggi – incomprensibili – e il minimo sindacabile di coinvolgimento. Lei ha la vecchia maschera, Nick Nolte è il papà burbero e premuroso che sempre gli riesce; nota positiva, Shiloh Fernandez: giovane antagonista che intriga. Il resto: il trauma e la nascita di disturbi ossessivi, le cure miracolose della legge del taglione, innumerevoli cambi d'abito tollarabili unicamente per il fisico statuario della Pike. Bellissima sempre, ma qui tornata alla leziosità e al rigore di quando nessuno la conosceva. Rosamunde mia, perché? (4)

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