Mr. Ciak - Speciale Halloween²: The Green Inferno, Spring, Knock Knock, True Story, Coherence

Creato il 31 ottobre 2015 da Mik_94
Io e mio fratello – in particolare lui, appassionato di quel Cannibal Holocaust che conosco bene grazie a digressioni attente delle sue – lo attendevamo da due anni. Quando i siti a noi cari l'hanno annunciato, i trailer hanno voluto mostrarcene un pezzo, ma rimandi e controversie varie hanno fatto sì che, per problemi di distribuzione, restasse inedito fino a quest'autunno. Quando, censuratissimo e anticipato dal solito tran tran, in contemporanea mondiale, ha fatto il suo debutto nel Paese che ha dato i natali al Ruggero Deodato che Eli Roth – canaglia a cui vogliamo bene dai dei fasti sanguinosi di Cabin Fever – ha voluto ricordare a modo suo. La trama la conoscete: un gruppo di giovani volontari, in volo sulla foresta dopo una missione umanitaria, precipita nel campo di una tribù locale, dedita alla protezione dell'ecosistema e al cannibalismo. Sapete perciò quel che c'è da aspettarsi: litri di sangue, tensione, le urla dei prigionieri in gabbia. Tuttavia, nonostante il divieto ai minori di diciotto anni e voci di fantomatici svenimenti in sala, il sangue scorre in maniera moderata – si aspettano quaranta minuti per la prima uccisione, la più dettagliata, e poi abbondano fuori campo furbastri – e il dramma, la crudeltà aspettata, sono stemperati in siparietti assurdi che fanno scordare, strada facendo, perfino i pochi lati positivi. The Green Inferno parte piano e tardi, dando spunti interessanti che poi riprenderà solo nell'epilogo, per me un po' stucchevole: manca la denuncia dell'originale e i personaggi mediocri, che lo spettatore desidera veder morire dal primo all'ultimo, fatta eccezione per una Lorenza Izzo dagli occhi spiritati e ammaliatori, non sono capaci di reggere la baracca. Perché Roth, che piace perché terra terra, all'inizio si agghinda di ingiustificata serietà. Okay, uno dice, ci si abitua; ma, dopo uno scorcio di dramma che ha del realistico, eccoli lì. Terribili e involontari siparietti comici, tra attacchi di diarrea e fame chimica, tentativi di masturbazione e fuga, che fanno pensare più all'ultima, lercia commedia di Neri Parenti – lo conoscete Vacanze di Natale in Amazzonia? - che a un atto di ossequio verso una pietra miliare. Queste tribù fuori dalla civiltà, perciò, ha maggiore buon gusto di un Roth volgarissimo e paradossalmente timoroso. A volte, l'omaggio sembra avere i tratti dell'oltraggio; e quanto dispiace. (5)
Evan, californiano, abbandona gli Stati Uniti per l'Italia. Alle spalle, lascia un lutto e qualche debito: è povero in canna, vive giorno per giorno e, una volta atterrato, sceglie la Puglia. Louise, di origini italiane ma con un inglese perfetto, è bella e riservata: ha un occhio verde e l'altro castano, non torna tardi la sera, ha paura di innamorarsi. Nella sua città, muoiono misteriosamente numerosi randagi e, ogni primavera, approdano i turisti stranieri. I due protagonisti si conoscono, passeggiano, si piacciono. Ma lei ha un segreto da proteggere, lui soltanto una settimana per amarla. In uno speciale dedicato ad Halloween, cosa ci farà mai un melodramma indie di quelli che tanto amo, con i lunghi piani sequenza, le confidenze intime, il sentore dell'addio sin dalla prima sequenza; l'inizio che, al solito, suona come un lui incontra una lei? Spring è la trilogia di Linklater – essendo naturale, realistico, romantico – secondo Lovercraft. Una variante horror di Prima dell'alba, in cui il paranormale, in unione a un'originale mitologia, dà un brivido in più e la nostra bella Polignano a Mare – già al cinema, in questo periodo, con Io che amo solo te – offre scorci affascinanti, ma mai stucchevoli: vuoi la fotografia imprecisa, vuoi quelle ombre antiche che tingono di profondo rosso il sentimento tra due che si appartengono, ma non potrebbero. Si sa: io apprezzo gli amori fatti di tante parole e pochi fatti e indagare il soprannaturale. E i giovani Justin Benson e Aaron Moorhead, registi e autori di questa piccola rivelazione,sembrano avere confezionato per me una specie di ibrido ideale – un gradito regalo - con i ritmi lenti e le battute ironiche, i protagonisti convincenti e gli amori che, a ogni plenilunio, cambiano squame. Guidati da loro, neanche i quasi esordienti Lou Taylor Pucci e Nadia Hilker – tedesca, nonostante le forme mediterranee – appaiono senza timone. E dopo Twilight, preso in giro ma a capo di un nuovo filone tra il romantico e il paranormale, era estremamente difficile parlare della storia tra un umano e un'immortale, stando attenti a mode che uniformano, vuoi o non vuoi, e a miscugli che suscitano ilarità. In Spring, fieramente indipendente, si è così volentorosi da prendere a riferimento altri modelli, anche se inconsueti, e così sagaci da rendere credibile il magico. Prima offrirsi un gelato come una coppia qualsiasi, poi discutere dei difetti di un'esistenza secolare e dei pregi dell'invecchiare restando fermi. Spring è molte cose, ma soprattutto il boy meets girl più originale dell'anno. Allora il torto più grande che possa farti, in un'ultima notte tra le rovine di Pompei, non è farti dormire con la luce accesa, spaventarti. Ma spezzarti il cuore. (7,5)
A anni di distanza dal secondo Hostel, dopo numerosi film scritti e prodotti e una serie televisiva – l'affascinante Hemlock Grove – da lanciare, il buon Eli Roth torna, nello stesso anno, nello stesso post, non con uno, ma con due nuovi lungometraggi. Se The Green Inferno, con le aspettative elevate e gli alti rimandi, appare una delusione su ogni fronte – fuori luogo, poco brillante – questo Knock Knock, invece, visto appena il giorno successivo, sa fare leggermente dimenticare l'indicibile pochezza della riproposizione di Deodato e esempi di grottesca comicità involontaria. E, paradossale ma vero, con una trama all'apparenza più pruriginosa e uno svolgimento che poteva prestarsi alla cara, gratuita mattanza, qui Roth – sempre modesto: inutile specificarlo – sa però mostrare i piccoli segni di una maturazione giunta in ritardo e una scrittura che diverte senza grosse esagerazioni. Scelta curiosa. Perché Knock Knock – storia del perfetto padre di famiglia che, una notte, decide di darsi al sesso a tre con le ragazze sbagliate – ha un incipit da commedia sexy e lo svolgimento, procedendo con la visione, di un home invasion in cui i cattivi indossano la gonna corta e la vittima, comprensibilmente incapace di resistere a un corpo stuatuario, è un uomo per bene, sedotto e tormentato. Il cast è di bellissimi che, a onore del vero, se la cavano – accanto alle ninfette assassine Izzo e De Armas, il Keanu Reeves senza età. Ma, e con Roth ci sarebbe da aspettarsi l'esatto contrario, le torture raramente sono corporali: Knock Knock è un divertente thriller psicologico, una commedia nera; un onestissimo B movie che, nella sua ora e quaranta, si regge a dovere, con una dose di malizia che – questa volta – sopperisce alla mancanza di gore. A tratti, sembra un Hard Candy che va meno per il sottile – credete al fatto che queste due conturbanti diavolesse siano ancora minorenni? - o comunque un Funny Games da poco: patinato, ben musicato, ma anche dozzinale e rapido come piace a noi. Per tutti coloro che, sbagliando, pensano che un Eli Roth senza sangue e viscere sia come un cielo senza stelle. (6,5)
Due valigie ripescate nelle acque dell'Oregon. All'interno, il cadavere di una donna e di una bambina. La storia dell'omicida Chris Longo arriva alle orecchie di Mike Finkel, valido giornalista del Times dalla reputazione in caduta libera. True Story – annunciata storia vera sulle intime confidenze tra un autore fallito e un assassino che ha tutto da perdere – è un nevoso crime da Sundance, realista e teso. Cosa ci fanno in un faccia a faccia pieno di ritmo Jonah Hill e James Franco? A sorpresa, una gran bella figura. La strana coppia non perde mai credibilità e, in un trasfert freudiano che ha regole sue, si intrufolano l'uno nella vita dell'altro. La loro amicizia pericolosa, nata in interrogatori diventati corsi di scrittura creativa, è così intricata ed intrigante da sembrare finzione; ma, a volte, la realtà supera la fantasia, e in un mondo in cui i pozzi della cronaca nera offrono il petrolio più denso, l'esordiente Rupert Goold ci mette i volti giusti e tanto impegno. Il difetto che è che da True Story - il romanzo, targato Piemme, sarà in libreria a breve - alla fine ci si aspetterebbe un colpo di scena che non arriva. Con il rischio di risultare inconcludente, ma con l'abilità di saperti portare, dopo i momenti da cinema, coi piedi per terra. Ci si ricorda che è verità quando il coup de theatre non arriva e quando si realizza che quel criminale – qui interpretato dal Franco più in parte degli ultimi tempi, eccellente – è di vera carne. Dall'altra parte del vetro blindato, un Hill ineditamente serio e misurato e una dolcissima Felicity Jones. Ma il titolo, in fondo, annunciava una storia vera. Con tutte le incongruenze del caso. Con tutto ciò che non sapremo mai. (6,5)
Viaggi nel tempo e paradossi logici: ingredienti base dello sci-fi misterioso di cui non posso fare a meno. Coherence – girato con pochi spicci a casa di amici, ma messo in pratica dopo dieci anni di meditazione - aveva congetture stuzzicanti e recensioni positive. Cosa ci fa un altro te, in una o cento case fotocopie della tua? L'esordio di Byrkit non può certamente vantare interpreti di prima scelta, ma ha dalla sua teorie inquietanti e suggestive. Nella prima ora, perfetta, ho visto il grande potenziale; nel tempo rimanente, invece, il mistero si fa fine a sé stesso – stupisce, ma sfugge il senso della situazione – e, come dirlo senza svelare troppo?, si eleva a protagonista la bella Emily Baldoni e la forza della sua scelta, in una sorta di cupo Sliding Doors in cui puoi decidere tu quale porta aprire e quale vita lasciarti alle spalle. E mi sarebbe andata anche giù, la cosa, se solo avessi avuto più familiarità con il personaggio; se solo le figure che popolano le case tutte uguali di Coherence avessero avuto modo di raccontarsi allo spettatore. Ognuno ha i suoi ritmi, e Coherence ha dalla sua un ritmo forsennato, ma l'autore ha riposto troppa fiducia nell'effetto sorpresa, scarsa cura nella coerenza di relazioni e rapporti. I personaggi, così facendo, risultano figurine stilizzate, sprovviste della terza dimensione. Problema di una certa importanza, per me, se si decide di girare in interni limitati e con un cast ristretto. A un certo punto, nel film, si spiega il paradosso del gatto di Schrodinger: c'è un gatto, in una scatola, con un veleno mortale accanto. Il gatto è vivo o morto? Il gatto è vivo e morto, o così ho capito, più o meno, finché non apri la scatola e lo scopri da te. Ecco, Coherence mi piaceva di più nell'incipit, a scatola chiusa. (6)

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