Mr. Ciak: The Walk, Pan, Non essere cattivo, Gli ultimi saranno ultimi, One Chance, Sinister II
Creato il 18 dicembre 2015 da Mik_94
Sono
i primi anni settanta e i giornali portano in Europa la notizia di un
progetto straordinario. Due torri cambieranno per sempre la
fisionomia dello skyline newyorkese, diventando simbolo universale;
prima con la loro imponente presenza e, all'indomani di una
indelebile tragedia, con la loro drammatica assenza. A sfidare quei
giganti in costruzione, il giovane Philippe Petit, piccolo di nome ma
di speranze grandi, che, mettendo insieme ciò che aveva imparato
dell'arte funambolica e una squadra di complici, aveva teso un filo
tra un edificio e l'altro. E, senza tentennamenti, fatto una
passeggiata nel vuoto. The
Walk,
avventuroso biopic firmato da Zemeckis, è un film che all'inizio
tentenna e poi, passo dopo passo, acquisisce, a sorpresa, fluidità:
quando è troppo tardi o troppo pericoloso tornare indietro. A una
prima ora poco coinvolgente – l'introduzione di anonimi comprimari,
l'espediente di un narratore antipatico a pelle – ne segue
un'altra, invece, che pietrifica e cattura come da copione. Zemeckis,
in passato padre di personaggi che non si scordano, non prova neanche
un po', però, a rendere indimenticabile il suo Philippe: farsesco,
leggero, incauto. Colpa di una sceneggiatura esile, in cui soccorso
arriva, per fortuna, un lato visivo che ruba il fiato; colpa di un
Joseph Gordon Levitt che gigioneggia, camminando sui fili e recitando
sopra le righe. Ma The Walk,
scritto senza particolari guizzi e recitato in maniera meno
convincente del previsto, nonostante un titubante inizio, si riscatta
a metà strada. Elettrizzanti e spassosi i preparativi per
l'operazione, impressionanti le camminate e i dialoghi con la polizia
a mezz'aria. L'emozione assicurata da una regia da maestro e quella retorica tutta americana che, vuoi
il senso generale di meraviglioso, vuoi la vertigine da capogiro, non
disturba affatto. Così, con la settima arte che ci ricorda le sue
infinite potenzialità, a centoventi anni dalla sua invenzione, sani
e salvi si arriva dall'altra da parte. C'è stata una nuvola, un
colpo di vento. Ma siamo bambini al circo, e il cuore non vuole
saperne di smettere di battere forte. (6,5)
In
una notte di nebbia, una giovane donna lascia suo figlio alle porte
di un orfanotrofio. Al collo, unico collegamento
con i suoi misteriosi genitori, una collana con un minuscolo flauto
di Pan. Sarà proprio quel famoso Peter, accompagnato da uno Spugna
in forma smagliante e da un giovane alleato, che si fa
chiamare Uncino? Pan,
accolto tiepidamente dalla critica e poco popolare in sala, sa
meravigliare, e a sorpresa, in un universo in cui gli effetti
speciali ci hanno abituati a tutto e in mezzo a tendenze che – da
anni – vogliono i personaggi delle fiabe come nuovi eroi.
All'inizio c'era la curiosità, l'entusiasmo, ma ci si è stancati in
fretta. Come il Cinderella
di Kenneth Branagh, però, Pan
ha la fortuna di avere, a bordo, un grande regista – Joe Wright è
un esteta esemplare, un fine artigiano – e un cast assai bene
assemblato – Hugh Jackman, Rooney Mara, Amanda Seyfried, quel
Garrett Hedlund che vedrei benissimo nei panni del nuovo
Indiana Jones. Se la trama la conosciamo tutti – il
nuovo Pan è
un mito eziologico, un prequel della favola originale, ma le sorprese
sono ben poche – e, al di là di un apparato visivo impressionante,
poteva esserci un cuore più grande e caldo, il lavoro di Wright
lascia ammaliati per la cura dei dettagli, i colori contagiosi, la
sensazione di una storia conosciutissima, ma raccontata con il giusto
spirito. Nella Londra bombardata della Seconda Guerra Mondiale,
nell'istituto – luogo dickensiano per eccellenza, con monache
crudeli e pargoli affamati notte e dì – gli orfani cominciano a scomparire. Nel cielo scuro, pieno di stelle e aerei
nemici, vola un galeone che li rapisce tutti. Destinazione, l'isola
dove il temibile Barba Nera – tiranno che entra in scena
tetralmente, cantando Smells
Like Teen Spirit
– usa le sue macilente vittime come schiavi in cave magiche e
minaccia l'esistenza di fate e nativi, ormai in via di estinzione.
Unica speranza, il bambino delle leggende; quello capace di volare e
liberarli tutti quanti. E, saranno statti vecchi flash che mi
ricordano il mio amore non solo per il cartone Disney, ma anche per
il biopic Neverland e
per l'incontrastato Hook,
ma io mi sono alquanto goduto questo nuovo viaggio verso l'isola
che non c'è. Sebbene non servissero ulteriori indicazioni o promemoria per raggiungerla. Tutti ricordavamo, infatti, già la strada: "seconda stella a destra, e poi dritti fino al mattino." (6)
Cesare
e Vittorio si muovono nella Ostia degli anni novanta, tra
taccheggio e spaccio.
Il primo, con una nipote in fin di vita e il fare irascibile, scopre
di volere bene a una tipa, ma moltissimo, e stanno pensando di andare
a vivere insieme. Il secondo, che non teme né il duro lavoro, né la
redenzione, convive con una ragazza madre e con la paura costante che
per il suo gemello diverso sia ormai tardi. La merce va prima
testata, poi venduta, e l'eroina non perdona. Li risucchia nel suo
vortice infinito e ora c'è da ridere, ora c'è da piangere, tra
divertenti allucinazioni, guarigioni e ricadute, disastrose
conseguenze. Non essere cattivo è
il monito che compare sulla T-Shirt del peluche preferito di una
bambina, vittima inerme dello stesso male dei suoi genitori. Non
essere cattivo
è il dramma romanesco, ancora, che dopo la calorosa accoglienza a
Venezia l'Italia ha portato avanti per rappresentare il nostro cinema
agli Oscar. Una storia di borgate e fame chimica - ma di vita – che
mi ha emozionato e convinto, ma forse meno del previsto. Sono così
fortunato, infatti, da appartenere a una generazione successiva e da
non conoscere personalmente la strada senza uscita della vita di
provincia, la dipendenza che uccide. La sfortuna, invece, è non
avere visto altro di Claudio Caligari: regista
underground, fotografo di spericolate vite al limite, che è andato
via nel maggio di quest'anno. Non so dirvi, adesso, quanto influisca
sulle impressioni dello spettatore appassionato trovarsi davanti a
un'opera postuma. Non so dirvi quanto Claudio, interessato a una
certa realtà, interessante per un certo pubblico, sarebbe stato
contento delle luci dei riflettori. Non
essere cattivo,
opera con cui si congeda, è realmente il meglio di cui è stato
capace? O più significativa è la genesi del progetto, l'immagine –
per chi la sa cogliere – di un'epoca che cede il passo alla
successiva? L'ho visto alla cieca e con alte aspettative, e l'ho
trovato un film tutt'altro che perfetto – c'è qualche scena da
libro Cuore di
troppo, un
epilogo inevitabile, un'atmosfera che chi legge la nostra narrativa
ha incontrato nella Avallone, nella D'Urbano, nel primissimo Ammaniti
– e non particolarmente adatto a figurare in una competizione di ampio respiro. Chi non legge, perché mancano il tempo o la voglia,
non ha percepito il senso di dèjà vu? E, soprattutto, chi Calligari non lo
conosceva, come il sottoscritto, quanto non ha colto? E' provinciale,
il che - giuro - non vuole essere un'offesa nei suoi riguardi; è
essenzialmente una piccola cosa nostra. Con le sue pecche, lo stile che ricorda quello di altri, ma con attori
naturalissimi – il già noto Luca Marinelli e la rivelazione di Suburra, Alessandro Borghi, che bello
e bravo com'è farà tanta strada – e un cuore incorruttibile. Perfino candido, a discapito dei protagonisti che
pippano, della rudezza del dialetto, delle svolte senza ritorno. La
sporcizia è in chi la vede. (7)
Luciana, con una pistola in mano e il trucco sbavato, cresciuta all'ombra dei tralicci e di un padre battagliero, ha un figlio in grembo e un impiego che la società le ha negato, spaventata da quella pancia che cresceva e dall'evenienza di un aumento. Nella stessa provincia romana è stato esilitato Antonio, poliziotto settentrionale, campione di scelte sbagliate; ne farà un'altra, lì, innamorandosi di una ragazza transessuale che fa chiacchierare i più. Dieci anni fa, con la crisi che ci colpiva di striscio e i tagli al personale che facevano feriti ma non vittime, avevo rimediato su un DVD una pièce che, quando il teatro nessuno me lo aveva ancora spiegato, quando l'economia vacillava ma non c'era granché da preoccuparsi, mi aveva scosso. Un incredibile one woman show, nero e lungimirante, in cui una giovane Paola Cortellesi – sola su un palco – interpretava decine di personaggi in cerca di un'illusoria felicità. Allora la crisi era circostanza, adesso è dura verità. Allora c'era una sola attrice sotto l'occhio dei riflettori, adesso si aggiungono il marito Gassman, l'ispettore Bentivoglio, la guardia giurata Fresi, anche se Paola Cortellesi – straordinaria – non ha rivali. Gli ultimi saranno ultimi, dalla pièce omonima, prende in prestito la solidità delle situazioni, un'interprete maiuscola, ma non l'aria teatrale; qui presente nella concretezza dello script e non in prove attoriali, in generale, assai spontanee. Ci si emoziona – le risate non mancano, con Radio Maria che risuona nelle tubature, e la cupezza diffusa genera rughe – e ci si prova, nel finale, almeno, a dare almena una specie di speranza. Ma quale consolazione può esserci? Dieci anni dopo, la crisi è all'ordine del giorno e i licenziamenti riempiono le mense dei poveri e le fosse. E' adesso, in tempi tanto così bui, che Gli ultimi saranno ultimi passa davanti alla macchina da presa e, con gli stessi nomi, fa un lungo salto. Trova accoglienze modeste in sala e un pubblico che una volta a settimana, al cinema, si trova purtroppo davanti l'ennesimo titolo sulla vita grama e il precariato. Sulla carta, qual era la sua utilità? Con mia somma sorpresa, io che pensavo che un cast ampio ne avrebbe compromesso la cifra stilistica e la tipica leggerezza di Bruno addolcito l'intensità, ho trovato felicissimo il tentativo di portare questa tristissima storia oltre il sipario rosso. (7+)
Britain's got talent ci ha lasciato un format da far nostro e la storia a lieto fine di Susan Boyle. Quanto piacciono le trasformazioni dei brutti anatroccoli in cigni? A me, che credo nelle seconde possibilità e nella benevolenza del destino, molto. E' da una favola, dallo stesso Britain's got talent, che prende avvio la storia vera di Paul. One Chance, con toni sognanti e tutta l'allegria di cui la commedia inglese è capace, racconta a fan e profani cosa c'era prima del successo mediatico. Un'infanzia di vessazioni – aggravante per i bulli, oltre al fatto che Paul fosse in sovrappeso, la passione per l'opera lirica -, l'amore online, il soggiorno a Venezia e Pavarotti in persona che ti chiude la porta in faccia. Ricominciare a crederci da capo. Con l'ispirazione, insieme alla salute, che va e che viene, mentre restano una compagna fedele, qualche amico prezioso, due genitori strampalati. L'americano David Frankel dirige una produzione tipicamente british, nello stile di Full Monty e Billy Elliot, in cui l'uomo medio, inquadrato in una grigia realtà industriale, non si arrende a ridimensionare la portata dei suoi grandi sogni. Una vita normale può essere un esempio illuminante, purché ci sia uno scopo preciso. Quella di Paul, come il melodramma nostrano predisposta ora alla leggerezza, ora alla tragedia, diventa così un cinema in cui crederci – al cambiamento e alla rivalsa, intendo – mi insegna a stare con meno livore al mondo. Sceneggia Zackham, e a tratti sembra l'adorabile Curtis; protagonista assoluto, con la faccia pulita e la fisicità dirompente, quel James Corden che conoscevo solo per Into The Woods. Si vuole bene a lui e al suo Paul – perché, c'è differenza? - e ci si emoziona a tutto tondo; a tutto cinema. E così, quando in una delle ultime scene intona Nessun dorma e c'è quasi, sta per arrivare al momento clou, quel “vincerò” ribadito e guadagnato, ripetuto per ben tre volte, suona liberatorio e un po' struggente. Parte l'applauso e il sospiro di sollievo. Paul Potts aveva già vinto allora. (7)
Una donna in fuga trova rifugio tra le
mura di una fattoria. C'è qualcosa, però, che sovverte
quella pace ritrovata. I piccoli fratelli Collins iniziano a
svegliarsi in preda agli incubi e il più fragile dei due ha amici
immaginari che, attraverso filmati cruenti, vogliono spingerlo a
uccidere la sua stessa famiglia. Possibile scrivere, questa volta, un altro finale? Il
primo Sinister
che chissà perché, tre anni fa, non aveva trovato spazio
sul mio blog, mi piace ricordarlo – sbaglierò? - come uno degli
horror più a fuoco degli ultimi tempi. Un demone spaventoso, un
mistero duraturo, un epilogo agghiacciante che non dava
speranze. Le domande che, in una trama volutamente nebulosa, ti
volevano attento fino alla fine. Sul suo
seguito non gravavano, per forza di cose, alte aspettative. I
commenti, in rete, mi dicevano che era cosa mediocre; nonostante gli
utili avvertimenti e il partire negativamente prevenuti, tuttavia,
Sinister 2 si
impegna a risultare peggiore del previsto. Noioso,
inefficace e, spesso, ridicolo. Unici lati positivi: gli studiati interni vintage; le immagine
contenute nelle bobine, realistiche e sgranate soggettive di morte,
quasi parte di uno snuff. La colpa dell'insuccesso è
imputabile al pessimo cast e a una sceneggiatura che,
giocando sin dall'inizio a carte scoperte, perde il minimo
sindacabile di appeal. I piani di Mr. Boogie si conoscono; i suoi
aiutanti, non più così misteriosi, svaniscono in amatoriali dissolvenze; l'epilogo,
scontato, è quello canonico: troncato bruscamente per lasciare
aperte le porte a un eventuale, indesiderato seguito. O magari, per
regalarci un sussulto che tanto – ennesimo passo falso - non
arriverà. (4)
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