Mr. Ciak: Wild, This is where I leave you, Clown, Cub, Annie, The Loft, Cymbeline (tanti; a Pasqua è stato brutto tempo)
Creato il 17 aprile 2015 da Mik_94
Anche
quest'anno il canadese Jean-Marc Vallée, regista dell'acclamato
Dallas Buyers Club, ha portato sul grande schermo un'altra
storia vera e un'altra volta, anche se più in sordina della
precedente, è stato testimone di due prove attoriali
notevoli: l'evanescente Laura Dern e Reese Whiterspoon sono di
un'intensità forte, sarà che appare inaspettata. Cose che ho
capito: il regista spinge il suo cast a fare il meglio possibile; la
macchina da presa instabile e incerta di Dallas Buyers era
frutto di una scelta precisa, perché qui la fotografia calorosa e i
paesaggi mozzafiato rivelano una mano ferma e una carica emotiva non
da poco, quando lì tutto mi era apparso sì più onesto ma più
freddo; la sceneggiatura firmata da Nick Hornby è di una retorica di
quelle che fanno bene, e le miserie umane di una protagonista dolente
e tormentata, mostrate con un montaggio classico e affascinante, ci
mostrano la realtà come fosse un film bello, costruttivo, ribelle. E
ho capito che quello è il possibile difetto, rintracciare un troppo
fare cinema nella storia di questa Into the wild al femminile,
che ha tanti antecedenti nel tempo e parecchi momenti costruiti per
arrivare al punto, ma il compito di una trasposizione cinematografica
è anche questo: prendere una storia, pulirla dal sudiciume, darle un
senso profondo. Così il viaggio di Cheryl, una donna che camminando
dal Canada al confine del Messico spera di fare pace con una
sessualità rabbiosa, un marito che ha ferito, una mamma che è morta
ma non ancora l'abbandona, diventa una parabola per benedire Madre
Natura, mandare scongiuri contro l'Altissimo e, nel frattempo,
ritrovarsi se si è morti e resuscitati in un mare di merda. La
mamma di Laura Dern, strampalata donna dal cuore d'oro, ha poche
scene ma un personaggio che, filtrato dalla protagonista, assume una
rilevanza grande. Quale mamma non è grande per un figlio, alla fine?
Reese Whiterspoon, antipatica fidanzatina d'America che già ha vinto
una statuetta con Walk the line ma
che continua a rendermi scettico, convince con una prova corporea e
non solo; si concede una scena di nudo, ci mostra le guance cotte dal
sole e i capelli stopposi, i salti al passato ce la presentano anche
adolescente, ma nel deserto parla poco e comunica lo stesso il suo
sguardo instancabile. Canzoni leitmotiv e flashback lontanti
che sembrano miraggi fanno compagnia a una Cheryl che fischietta,
canticchia, piange e sorride, riflettendo su quanto facciano schifo
certi uomini, su quanto abbia fatto schifo lei e su quanto bene c'è
oltre la prossima svolta, nello sguardo del prossimo passante. Wild
è un'esplorazione intima del
dentro e del fuori di sé, scritta come fosse un'ode alle seconde
opportunità: il caldo, il freddo, i serpenti e gli ululati, ma
soprattutto l'uomo – o meglio, una donna – da accogliere con i
propri bagagli pesanti e i pensieri segreti, quando, il pollice
sollevato, verrà a chiederci un passaggio. (7)
Tra
gli innumerevoli libri che avrei voluto leggere, Portami a casa.
Il film in uscita, ma c'era tempo. Eccolo spuntare con i sottotitoli,
però, quando avevo proprio bisogno di una cosa così: solida,
spiritosa e profondondissimante familiare. Nel tempo dei ritorni
all'ovile dall'università, degli abbracci in stazione, delle
festività che dovrei sentire ma invece no. Ignorante in materia di
alberi genealogici, pragmatico, non anaffettivo ma poco ci manca,
odio le riunioni in grande, le cene a casa dei miei nonni, ma amo
osservare il tutto al cinema. Perché punti di vista più spietati del mio ne
mettono in evidenza i bisbigli, le falsità, i segreti: le crepe
nascoste coi centrini ricamati da zia.This is where I leave you
non è I segreti di Osage County,
ma mi sono fatto bastare il bel cast, le situazioni tragicomiche, i
dialoghi briosi e quel rinvigorente senso di benessere. Quattro
fratelli, un papà nella tomba, mogli, nipoti e generi tutti sotto lo
stesso tetto per volere di mammà. Tempo una settimana: tempo di
confessioni, rimpianti, rimpatriate, ritorni al primo amore, outing e
divorzi. In quella bella casa nel verde, in quella bella famiglia che
ha un che della nostra, la matriarca è la maliziosa Jane Fonda,
mamma arzilla dai morbidi abbracci e dalle tette rifatte; Jason Bateman è il figliol prodigo che ha vergogna di parlare del
suo divorzio, mentre cerca di abituarsi a essere chiamato papà; Tina
Fey, stranamente (quasi) seria, è una prolifica fabbricatrice di
bambini innamorata di un uomo che non può avere; Adam Driver, nato
per i film indipendenti, col suo fascino tenebroso, si rivela
inaspettatamente un esilarante e immancabile pecora nera. Una giungla di abiti neri, vizi e virtù,
in cui non mancano le mie odiate iprocrisie, il mio amato sarcasmo e
grasse risate. Sentire tua madre parlare della sua vita sessuale ti
provocherà sempre il solito imbarazzo, il ricordo del primo bacio è
un rinnovato tuffo al cuore, di condividere lenzuola, sigarette e
botte con piaghe di fratelli minori non si smette mai. (6,5)
Rendersi
ridicoli per amore di un figlio. Accettare di vestirsi da pagliaccio
per non rimangiarsi una promessa. Il costume non si spiccica: fuso
con la pelle. Quel papà modello e i panni di un mostro. Il cerone
non va via, i denti si fanno aguzzi, lo stomaco dice di avere fame –
e di bambini. Prodotto da Eli Roth, Clown si
rivela una sorpresa, nonostante una trama che è un pretesto bello e
buono – costruita appositamente intorno alla figura intramontabile
di It e alla diffusa
paura di quegli inquietanti simpaticoni da circo – e all'apparenza
ridicolmente trash. Invece, giacché me ne avevano parlato bene, l'ho
guardato con quell'esatto misto di divertimento e rilassatezza che mi
avevano assicurato. Aspettative basse, dunque, budget ridotto
all'osso, effetti speciali artigianali e, a sorpresa, una dignitosa
riuscita finale. La storia di questo Jack Frost rivisto
e corretto intrattiene e disgusta vagamente, con ironia, citazioni
che rimandano a Joe Dante e arti strappati di netto. Paura non ne fa,
ma risparmia quella classica mezz'ora introduttiva, e con il tabù
già sfatato in Cub,
con la morte e i bambini nella stessa frase, dà fastidio il giusto,
ma senza eccessi. Sotto l'egida di Roth, si muove bene alla macchina
da presa il semiesordiente Jon Watts, che confeziona una o due scene
da ricordare (su tutte, quella del clown in mezzo ai tubi e alle
piscine colorate del parco di un centro commerciale) e, per quanto
possibile, cattura con personaggi abbozzati, ma familiari. E se il
cast non brilla, e la colpa è anche del nostro pessimo doppiaggio,
il ruolo di Andy Powers, che lo vuole alle prese con una abominevole
trasformazione, lo mette sotto una buona luce. Qual è il confine tra
la bestia e la persona non si sa, ma quello tra un brutto film e un
film guardabile sono solidamente rimarcati. Clown riesce
a stare in equilibrio dalla parte giusta, tra uno sghignazzo e un
palloncino regalato a tradimento. (6,5)
Un
mucchio di bambini pestiferi e il campeggio. Sogno prediletto del
bambino medio, non il mio. Odio lo sporco, dormire all'aperto e,
neanche troppo segretamente, i boy scout. Quel sogno mai avuto in
Cub, horror belga con
un cast rubato alle scuole medie, si fa incubo. La canonica prima
parte, lenta e banale, scorre tra liti e rivalità, sentieri
accidentati e leggende per mettere paura ai più sensibili della
banda. Una fabbrica abbandonata, operai suicidi, un bambino
mascherato e selvaggio in un micromondo senza adulti. Cub,
nella sua brevità, si snoda lungo due sentieri diversi. Se la prima
ora ricalca racconti dell'orrore e miti da poco, diventando a sua
volta una fiaba nera da raccontare davanti a un falò, la seconda
sorprende per una crudeltà forte che, coinvolgendo bambini e
cuccioli, scuote. Il sottotitolo, Piccole vittime,
doveva metterci in allerta, ma i sottotitoli mentono. Qui invece
pargoli non troppo innocenti, cani e fastidiosi coordinatori fanno
spesso la brutta fine promessa. Me lo aspettavo più addolcito.
Qualcuno ha fegato, da queste parti, e si fa apprezzare soprattutto
per quello. Scattano trappole machiavelliche, divertimento per lo
spettatore più cinico, ma quella crudezza a sorpresa di cui vi
parlavo, il sangue freddo e copioso, il non fare sconti a nessuno, ti
fanno pensare che tutto era leggermente meglio di quanto avessi
supposto, ma non abbastanza da far dimenticare una prima parte lunga
e avara di sussulti. Solo le apparizioni del "Bambino Perduto", che un
po' ricorda gli spaventosi sfollati di Vinyan e
un po' la tribù del nerissimo The Woman,
fanno compagnia, nel frattempo. (5,5)
E
chi se lo aspettava che il gradevole ritorno al musical – dopo lo
stonato e serioso Into the woods – fosse un salto nel
passato? Da quando le fiabe finiscono male e i ritornelli spariscono,
da quando gli autori giocano a farsi gli alternativi scontentando i
tradizionalisti e annoiando chi il genere non lo tollerava prima e
figuriamoci adesso, perfino io avevo sviluppato
un'improvvisa intollerenza. Per fortuna che c'è Annie. Il risaputo e, sì, svenevolmente dolce Annie che
è la commedia musicale come la intendo io. Colorata, metropolitana,
orecchiabile, in cui i siparietti musicali li accogli senza
concederti smorfie. Anzi, punti il telecomando contro lo schermo e
alzi il volume. Le armonie si ripetono e, al prossimo turno, potresti
già conoscere l'inciso. La storia della famosa orfanella newyorkese
scopre nuovi arrangiamenti, un tocco di hip hop e una veste black. La
movimentata colonna sonora è curata da Jay-Z e gli attori fanno
sembrare tutto estremamente semplice, dipingendoci in faccia un
sorrisone che non va via. Diretto da Will Gluck (Easy
Girl), che si trascina dietro in
spassosi camei Michael J. Fox, Patricia Clarkson, Mila Kunis e
Rihanna, ha come protagonista la più giovane attrice ad essere stata
candidata agli Oscar nella storia del cinema – la pimpante
Quvenzhané
Wallis – e comprimari che, quando le voci tentennano, compensano
con tanta convinzione: la cattiva per finta Cameron Diaz, l'inglesina
Rose Byrne e Jamie Foxx, che con le note musicali ha invece un
rapporto lunghissimo. Più Disney di quella storia di
personaggi fiabeschi e boschi, nonostante la Sony a produrre, è
semplice e facilone. Il lieto fine è d'obbligo e vederli lì, ricchi
e felici, cantare che l'unica cosa che importa è avere la persona
del proprio cuore accanto, è ridondante. Pure i soldi fanno la
felicità, o no? Ma questa è la magia del musical. Grande sfarzo, tutte
star: a morte l'amarezza. (6)
Cinque
amici, un loft segreto, l'illusione di essere scapoli. Vietato farne
parola con le mogli, vietato l'amore: solo sesso occasionale. Ma
quando una donna viene trovata morta per quella banda di dongiovanni
si mette male. Sembra una versione di Una
notte da leoni
a tinte gialle questo The
Loft,
che ha nomi di spicco nel cast, una copertina alla Hitchcock e una lunga
tradizione al cinema, nonostante la sua corta vita: una versione
originale datata 2008, un successivo remake danese e l'immancabile
remake americano, con al comando lo stesso regista del primo. E io il
film di Erin Van Looy lo avevo visto, mi era piaciuto, ma purtroppo
non lo ricordo. Mi sono rinfrescato le idee con questa patinata
produzione in lingua inglese che trova l'articolo determinativo nel
titolo e poco altro. Funziona, struzzica, intrattiene, ma me lo
ricordavo meglio quando non lo ricordavo affatto. La trama intriga,
ma nonostante i colpi di scena non manchino, ero in fervente attesa
di una svolta che fosse più clamorosa, così come ricordavo
rispolverando immagini sbiadite di cinque annetti fa. Forse non c'era
stato nemmeno allora un colpo di scena aggiuntivo e ricordo male io,
anzi probabile; ma ricordo di sicuro più erotismo, più sporco, più
incisività. Buoni Urban e Marsden, meglio il Wentworth Miller di
Prison
Break con
un ambiguo personaggio shakesperiano, ma una spanna al di sopra
Matthias Shoenaerts, con un ruolo piccolo e eccessivo, per uno dei
volti più interessanti del cinema contemporaneo. Questo ennesimoThe
Loft è elegante, fluido, pulito da sesso estremo e impurità.
I limiti della censura non gli valgono l'etichetta di thriller
erotico, dunque, ma ci sono rimandi numerosi al cinema di De Palma, Verhoeven e
Lyne in una messa in scena rigorosa e in una regia raffinitassima,
che sembra una danza. (6)
Ho
visto il fiaschiato Cymbeline con
lo spirito del crocerossino. Presentato a
Venezia, è diretto dal Michael Almereyda che dopo Hamlet
2000 ci riprova col Bardo e con
un nutrito cast in cui, accanto agli attori jolly Ed Harris e Ethan
Hawke, fanno una discreta figura soprattutto i giovani. La lotta tra
britanni e romani, in una città tra presente e futuro, diventa lo
scontro tra Cimbelino, re dei motociclisti, e gli sbirri. I
personaggi snocciolano battute al ritmo di blank verse indossando il
chiodo e scorazzando sugli skate; sfoggiano un linguaggio d'altri
tempi che cozza con il degrato degli scenari e il
kitsch degli arredamenti. La colonna sonora va dal classico al reggae
e il look di Postumo – jeans stretti e capelli indomabili – è
rigorosamente hypster. Stranezze che a me, sensibile all'eleganza
intramontabile di Shakespeare e alle suggestioni del mondo tamarro,
piacciono. Se questo particolare intruglio di toni aulici e revolver
fumanti non dispiace, i difetti si incontrano in una regia
piattissima – di Baz Lurhamnn ce n'è uno solo – e
nell'intreccio. Non me ne vorrà il Bardo, ma qui non era ai suoi
massimi livelli. Cimbelino è
un'opera minore della sua produzione, che prende gli amori
impossibili di Romeo e Giulietta,
i travestimenti di La dodicesima notte e
un insoddisfacente finale tragicomico all'insegna del “volemose
bene”. Da Romeo + Giulietta i
caratteristi Leguizamo e Vondie Curtis-Hall, mentre l'uno da Gossip
Girl e l'altra dalle Cinquanta
Sfumature, i promettenti Penn
Badley e Dakota Johnson. Un tot di atti compressi in un'ora e mezza non fanno che
rimarcare la loro mancata memorabilità, uniti a una messa in
scena minimalista e alla strana volontà di non mostrare sangue,
esplosioni, dettagli da cinema. E' troppo teatrale; come una
rappresentazione di una qualche compagnia all'avanguardia messa in
scena da studenti, che stravolge le ambientazioni ma rispetta i
copioni. E l'intreccio è quello che è. Anche conosciuto come Anarchy, manca del fuoco e della rivoluzione. Di ispirazione. (5)
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