O almeno così insegnano i film, ma nella vita reale le cose sono un po’ diverse. Anzi, diciamolo pure, telefonate con Steven Spielberg dall’altra parte della cornetta sono alquanto rare, a meno che non ti chiami Dawson Leery, vivi a Capeside, hai una scala che appoggia alla finestra della tua camera (con un via vai di persone non indifferente), un amore più o meno tormentato e un fiume che sembra appartenerti, o almeno così dice la serie che ti hanno dedicato.
Ovviamente io non mi chiamo Dawson, non vivo negli Stati Uniti, ma a Londra, in un sottoscala che mi avvicina maggiormente a un certo Harry di Private Drive.
Ma una telefonata, quella sì, l’ho ricevuta anche io e c’entra anche un certo Steven… no, non Spielberg, almeno non ancora! Così, all’inizio di una mattina come tante Chuck Berry strimpella dal mio cellulare, svegliandomi – ah nel caso non fosse ancora chiaro e ve lo stiate domandando, la risposta è sì, questa sarei io, nerd cinematografica e tutto il resto, alla ricerca di fortuna in terra straniera.
Con la mente ancora ottenebrata dalle nebbie del primo risveglio, sblocco il cellulare e rispondo con tono poco elegante, nella convinzione che alle sette del mattino l’unico a poter chiamare non sia altro che mio padre. Come volevasi dimostrare, sbagliavo.
Si trattava, infatti, di un certo Will, secondo assistente alla regia (2ndAD) della serie televisiva Mr. Selfridge
Ecco, allora, catapultarmi fuori dal letto e, in uno stato emotivo al limite del surreale, raggiungere il set dall’altra parte di Londra per tornare indietro nel tempo ai primi del Novecento. Davanti ai cancelli del teatro di posa incontro il custode che mi guida all’interno di un labirinto di roulotte, fino a giungere in quella di Will che, una volta fatte le presentazioni, mi fornisce quelle che saranno le armi da combattimento: call sheet (ordine del giorno), copione e walkie talkie. Eccomi pronta per affrontare la mia prima giornata da Runner.
Già la parola di per sé rende chiaro il concetto di quello che sarà il mio ruolo sul set, correre, come e forse più di Tom Hanks in Forrest Gump, correre e risolvere i problemi che potrebbero presentarsi, assistere gli attori, rifocillare la crew, sorvegliare il set in modalità Cerbero durante le registrazioni e chi più ne ha più ne metta.
Dotata quindi di tutti i gadget necessari, muovo i primi passi all’interno di quello che mi viene rivelato essere uno dei più grandi set costruiti all’interno della città di Londra, percorrendo un sentiero di colore giallo che in qualche modo ricorda quello dorato di Oz. E in fondo la sensazione è proprio la stessa: in viaggio verso la città di smeraldo con un mago, però di nome Steven. E’ a lui, infatti, che dovrò fare riferimento per qualsiasi eventualità si presenti durante la giornata.
Alla fine della pausa pranzo si torna di filato sul set ed è a questo punto che mi viene riservata una sorpresa. Il ragazzo che sostituiva un altro runner in malattia, ma che quotidianamente riveste il ruolo di Location Manager, è stato richiamato al suo lavoro originale, lasciando nelle mie mani la responsabilità della “luce rossa”. Sì, lo so, detta così ha un qualche cosa di fantascientifico e misterioso, in realtà la Red Light non è altro che la luce accesa sul set quando si gira e la sua accensione è preceduta dal suono penetrante di una sirena. E’ stato affidato a me l’incarico di suonarla questa sirena, il primo giorno di lavoro, su un set abbastanza importante, con un coro di voci che risuonavano nel mio orecchio a cui si è aggiunta anche quella della mia testa che vorticava freneticamente nell’asia di combinare qualche disastro.
Il pensiero più ricorrente che ho avuto quel pomeriggio è stato che avrei fatto scattare la sirena mentre si registrava, magari durante qualche scena importante, rovinando il girato, facendo innervosire cast e crew e mandando all’aria il lavoro di un giorno. Certo io sono un po’ catastrofista ma, lo comprenderete, mi sentivo leggermente sotto pressione.